Il gelo prima dell'alba
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Che cosa si nasconde dietro l’operazione work in progress? Il mutamento di forma giuridica d’una società di costruzioni o l’affiliazione in un intricato sistema di smaltimento illegale di rifiuti tossici? E chi è davvero Silvano Camastri? Un oscuro contabile indolente e disilluso o un brillante esperto d’arte? Quattro uomini, un ragioniere con il pallino della pittura, un giornalista trafitto dalla vita, un hacker psicotico affetto dalla sindrome di Ekbom ed un misterioso agente dei servizi
segreti ingaggeranno una lotta senza quartiere contro una poderosa rete imprenditoriale votata all’illegalità e alla commissione di reati ambientali che li porterà al disvelamento di una realtà allucinante. Un noir affilato ed incalzante, scritto con le solide forme narrative del feuilleton avvelenato. Un racconto disperato, allucinato.
Struggente e a tratti poetico. Una perenne ricerca del senso compiuto. Del valore talvolta casuale ed improvvido da dare alla vita, nel gelo dell’assenza di significato. Il gelo prima dell’alba.
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Anteprima del libro
Il gelo prima dell'alba - Marco Ferrara
PROLOGO
Luna di latte al Robinia residence
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Due rette parallele non si incontrano mai perché, con ogni probabilità, si sono già conosciute e non si sono piaciute per niente
Si chiama Robinia residence ed è un costellazione di palazzine anonime, disseminate con la casualità delle mine in un’area di verde seviziata da grumi di ferro e calcestruzzo.
Con la luce del giorno l’aspetto è solo un po’ livido. La collinetta sulla quale sorgono le case si staglia granulosa come un miraggio nel fitto fogliame della vegetazione affamata. Neanche volesse divorare tutto, uomini e case, e riprendersi ciò che le è stato tolto, prima avviluppando, poi digerendo quelle odiose metastasi di cemento.
Però, nelle limpide ed acquose mattine della campagna laziale, vi si respira un silenzio sovrannaturale. Spesso e grave come una coltre. Rotto solo dal cinguettio di qualche uccello frettoloso e dallo stormire pigro delle fronde. Magari ammirando il tremolio delle foglie di robinia che infestano i canali di acque ferme.
Questi prima disegnavano una rete perfetta. Ora ne restano solo piccoli tratti che terminano nel nulla o che s’incuneano nel sottosuolo come tragici aghi nella carne.
Ma è la sera che il Robinia residence dà il meglio di sé.
Quando il cielo si coagula e sfuma dall’indaco al blu cobalto. Fino al nero delle notti untuose e senza stelle, che come una colata di pece assorbe la fioca luce giallastra dei pochi lampioni che funzionano lungo la via.
È allora che il robinia residence assume l’aspetto tetro e sinistro dei villaggi abbandonati, o delle città sfollate.
Ed è per questo che si è guadagnato il poco rassicurante appellativo di condominio paura.
In ossequio ad una grottesca esagerazione del concetto di privacy ogni palazzina si dà le spalle, nascondendo, l’una all’altra, il portone d’ingresso e l’andito delle scale. Le sole facciate che si orientano a vista delle altre sono quelle sul retro. Scarse di finestre ed imbrunite, di giorno, dalle ombre tondeggianti delle chiome dei pini.
Il risultato di questa collocazione discreta è che… sì insomma… nessuno conoscerà nessuno.
A meno che non abiti nello stesso stabile. Ma anche per quest’ultimi incontrarsi non sarà poi così semplice. Il condominio paura, non a caso, verrà popolato da turnisti, operai, extracomunitari, cassintegrati. Umanità dolente insomma. Uomini e donne pronti a portare a spasso ogni giorno il loro conato di vita complicata. Con le loro storie di dignitose sconfitte, consumate nella solitudine che scava intorno a vite silenziose.
Come De Niro in Taxy Driver, per intenderci.
Quando fu progettato il quartiere si cercò di puntare in modo decisivo sull’argomento della tranquillità, dell’immersione nell’oasi di verde e della lontananza dai corrotti e stordenti rumori della città.
Poi però fu proprio l’eccessiva distanza dai servizi urbani che ne decretò la scarsa commerciabilità. E gli alloggi restarono invenduti per diverso tempo. Con la società costruttrice che finì sull’orlo del fallimento. I prezzi delle case crollarono e il condominio paura divenne una sorta di quartiere popolare satellite. Un ghetto di disperati confinati nella ruvida campagna, tra quello che restava dei canali di bonifica, le linee frangivento degli eucalipti e qualche stradina non asfaltata. Bianca come la calce che si spande per fermare le epidemie.
Ho parlato della società costruttrice, la Sperandeo Costruzioni S.r.l., e delle brutte acque in cui si trovò a navigare non appena ultimò il robinia residence. Molti avrebbero scommesso sul suo fallimento, e molti di più erano convinti che quelli della Sperandeo non lo avrebbero fatto nel modo più dignitoso. Con la consegna dei libri contabili in tribunale, ma dandosi alla macchia.
Non andò così.
La società miracolosamente non fallì. Ed io sono un testimone di quel miracolo. Un testimone scomodo. È per questo che mi trovo qui. Intrappolato in questo posto da brividi.
Sono uscito di casa molto presto questa mattina. Mi sono vestito al buio per non svegliare Mara, che dormiva a pancia in sotto con un braccio disteso lungo il fianco e l’altro sotto il mio cuscino.
Mentre sbirciavo le curve morbide del viso di mia figlia nell’incanto del sonno pensavo a cosa era stata la mia vita prima che tutto accadesse. Meno birre con gli amici, meno calcetto, qualche chilo in più sull’addome, meno capelli e parecchie responsabilità in più. Per me andava bene così. La felicità d'altronde è un dannato ectoplasma. Si manifesta sempre e solo dopo la sua dipartita. Sotto le logoranti spoglie d’un rimpianto. La convivenza con Mara era stata movimentata, a volte frenetica. Negli ultimi tempi un tantino distratta. Ma non era mai scaduta nella routine anestetizzante.
Insomma la nostra vita sembrava proprio liscia. Come la superficie di una mela. Ma io sapevo che sotto quella buccia tesa e lucida si nascondeva, inesorabile, il lavorio di un verme.
Vivo con Mara da cinque anni e non è sempre stato facile tra noi. Mara è una donna fragile, prigioniera delle sue paure, irresistibilmente nevrotica. Con il tempo la sua instabilità è diventata il serbatoio delle mie inquietudini. Giorno dopo giorno ho imparato a sintonizzarmi sulla sua lunghezza d’onda ed è stato come guardare l’erba crescere. Ma dalla parte delle radici.
Cinque anni.
Lo stesso tempo trascorso alla Sperandeo S.r.l. con mansioni di contabile. Bilanci, partite doppie, iva, contributi, buste paga e altre scartoffie senz’anima che fino a poco fa mi davano da mangiare.
All’inizio consideravo la società per la quale lavoravo la mia seconda famiglia. Una famiglia stretta intorno al suo patriarca, l’ingegner Sperandeo. Poi con il tempo ho maturato un’idea diversa.
L’ingegner Sperandeo ha il fascino rapace di un uomo di mezza età. Arrivato. Arrogante. Abbronzato al punto giusto, con i capelli sale e pepe ed un paio di baffi da gigolò anni trenta. Quello che colpisce di più è lo sguardo. A volte vitreo, come l’acqua intorbidita da un pennello sporco. Altre volte, però, quello stesso sguardo s’accende d’un luccichio felino. Il bagliore improvviso che produce la rottura del filamento d’una lampadina. Dura un attimo, poi quella luce viene risucchiata nell’oscurità di quei due bottoni neri. Bui come certi paesini sommersi dai laghi artificiali.
Ma dell’ingegner Luigi Sperandeo avrò modo di parlare ancora.
Ora devo cercare di uscire allo scoperto e guadagnare la fuga. Ma non sarà facile, purtroppo. Da dove mi trovo adesso, nei locali seminterrati, riesco a sbirciare fuori. Oltre la ringhiera ed il muretto di cinta. Sul piazzale dei parcheggi. La luna sembra un calice di latte, appena velata da una nuvola trasparente, evanescente come fumo. E la sua luce calda incendia il piazzale impedendomi ogni velleità di fuga.
Dalla fila di lucernai riesco ad inquadrare lo slargo ma non per intero, perché il muretto basso mi impedisce parzialmente la vista dei posti auto.
Per questo non la vedo arrivare. Ma la sento.
Sento il ronzio delle valvole e lo sfiato sommesso del motore al minimo. Poi vedo anche lo sfarfallio della luce dei fari, che tagliano il piazzale ingigantendo alberi e lampioni con le loro ombre sbieche.
La macchina si arresta nel bel mezzo del piazzale, facendo stridere gli pneumatici con un colpo di tosse roca. Pochi istanti e le portiere si aprono. Io so già chi uscirà da quella berlina BMW. Ma ora non ho il tempo di spiegare il perché.
Il primo a poggiare il piede a terra è Marino Senatori. Una manciata di trucioli grigi sul cranio e i lineamenti ingrossati di chi ha conosciuto il cuoio dei guantoni.
Senatori è stato un discreto pugile dilettante. Trentasette incontri, ventitré vittorie. Quindici prima del limite.
Poi una ridda di lavori insignificanti. Buttafuori in un night. Le cassette di frutta ai mercati generali. Caporale di una squadra di nigeriani d’estate nei campi coltivati a pomodori e qualche scommessa di troppo ai cavalli. Ma senza fortuna.
La fortuna, per Marino Senatori, ha un nome e un cognome.
Luigi Sperandeo.
Dopo l’incontro con l’ingegnere il pugile cambia pelle come un serpente nel periodo della muta.
Prende un diploma da geometra alla scuola serale. Si dà una bella ripulita. Cambia look e amicizie. Si compra anche un Rolex. Tutto d’oro. Anche se qualcuno dice che non l’ha comprato lui.
Ma soprattutto diventa il direttore dei cantieri che la Sperandeo aprirà ovunque ci sarà da sversare cemento.
Ha modi spicci e sbrigativi, il pugile, ed un eloquio composto da non più di cinquanta parole. Però ha altri argomenti decisamente convincenti. Un gancio sinistro terrificante e la forza dell’arroganza. Se poi non bastasse, sotto le giacche di taglio sartoriale che da un po’ di tempo Senatori ha preso ad indossare, si nota un rigonfiamento all’altezza dell’arco ascellare sinistro.
Pare che non l’abbia mai impugnata, la sua Walther .9, il nostro pugile. Ma io so che non è così.
Anche nella scelta dell’arma è stato meticoloso, ricercato. Quasi raffinato. Come per la scelta di un orologio.
Un orologio sottile e leggerissimo, con il suo fusto in tecnopolimero. Ma letale come il veleno di un black mamba.
Dall’altra portiera, invece, si riversa sull’asfalto granuloso del piazzale Gennaro Montuori. Il napoletano. Lo fa con i gesti goffi che gli consente la sua mole. Rovesciandosi quasi, come una balla di immondizia compattata. Montuori ha la sciattezza delle persone drammaticamente in sovrappeso ed il lucido lucore di chi è sempre sudato.
Ma si faccia attenzione a non scambiare questi segni per goffaggine bonaria. Il napoletano sa essere molto cattivo. Montuori, insaccato in abiti sgualciti, bruniti dall’aura del sudore, si porta dietro la macchina ed apre il cofano. Ne estrae una voluminosa valigia, di quelle da trasporto, tipo un’enorme flight case, con gli angoli borchiati in metallo. Confabula con Senatori. Avverto solo il loro vociare indistinto perché da dove mi trovo ora non posso sentire nulla che non sia un sibilo di parole mangiucchiate dal vento e dai metri che ci separano. Li seguo con lo sguardo mentre s’incamminano verso la palazzina C. Quella in cui mi trovo io.
Camminano in modo asincrono facendo stridere le suole sul ruvido asfalto del piazzale, e mentre si avvicinano vedo ingrandirsi le loro figure non più intere. Adesso sono senza gambe. Perché il muretto di cinta le ha tagliate fuori dall’inquadratura.
Una scarica di corrente mi corre giù per la spina dorsale. La fronte mi si imperla di un sudore gelido. Rischio di fare la fine del topo in trappola.
Il piano seminterrato è costituito da un unico largo corridoio sul quale si affacciano le porte delle cantine. I due accessi del corridoio danno uno sul piazzale dove è parcheggiata l’auto di Senatori e Montuori e l’altro sulle scale d’accesso dello stabile. Per di più questo lungo tunnel è inframmezzato da pesanti porte tagliafuoco. Se provassi a raggiungere le scale il pugile ed il napoletano mi sentirebbero e finirebbero per stanarmi. La paura mi paralizza togliendomi per qualche attimo prezioso ogni idea. Ogni capacità di trovare una soluzione. Non potendo nascondermi da nessuna parte vorrei nascondermi dentro di me. Allora chiudo gli occhi con il cuore in gola, implodendo come una stella che genera un buco nero…
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CAPITOLO PRIMO
Work in progress
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In geometria è un piano inclinato…in natura è sempre una salita.
Specie se hai una valigia pesante e tuo figlio in braccio
Un buco nero.
Questo era diventato l’impegno economico per la costruzione del residence.
Il numero di prenotazioni era di gran lunga insufficiente alla copertura delle spese dei lotti già completati. Nonostante le diverse aspettative. Ma alle volte così vanno le cose.
So it goes, salmodiava Kurt Vonnegut nel suo romanzo manifesto Mattatoio nr. 5.
So it goes.
Così vanno le cose.
E le cose andavano realmente così.
Male.
O meglio seguivano un proprio ineluttabile corso che aveva nel disfacimento tutt’altro che indolore il suo karma.
Io mi sentivo proprio come Billy, il protagonista del romanzo di Vonnegut, perso in spaesanti viaggi spazio-temporali tra le rassicuranti mura domestiche, dove condividevo con Mara l’attesa della nascita di Sofia, e la frustrante situazione dei prodromi di un fallimento, quello della società dove lavoravo da alcuni anni. La Sperandeo Costruzioni S.r.l.
In effetti due pianeti talmente distanti da sembrare di non appartenere allo stesso sistema solare.
Quella mattina somigliava alle altre solo nei gesti stereotipati di noi impiegati. Il cicaleccio delle segretarie era decisamente più dimesso e nonostante lavorassimo tutti allo stesso piano il ticchettio delle tastiere aveva decisamente preso il sopravvento sui deboli sussurri. Così come sui silenzi carichi di preoccupazione che saturavano le stanze.
Ci sono alcuni frangenti della nostra vita in cui ci è facile ricordare un momento esatto. Un istante, un punto della nostra esistenza, ed è facile che questo avvenga perché quel momento, quell’istante, quel punto finiscono per legarsi indissolubilmente con un accadimento importante.
Un incidente drammatico dal quale usciamo miracolosamente illesi, la comunicazione della scomparsa di una persona cara, un incontro inatteso che diventa pregno di aspettative sessuali… e altri nodi aggrovigliati per caso sul filo del nostro destino.
Di quella mattina ricordo tutto. Di quel momento in particolare. È un ricordo che si sovrappone con la forza vivida dell’immagine. Come si contempla