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Il Tango delle Cattedrali
Il Tango delle Cattedrali
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E-book385 pagine4 ore

Il Tango delle Cattedrali

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Info su questo ebook

Era il 1944 quando tutte le cattedrali d'Europa, una mattina, presero il volo. Nessuno seppe dove andarono a finire, se non una tanguera di nome Lisa. Cinque anni più tardi, tornando nel suo appartamento di Buenos Aires, l'ultima cosa che si aspettava era di trovare un gigantesco gargoyle di pietra appollaiato sulla ringhiera del terrazzo. Alla zampa aveva legata una pergamena che parlava di una gara di Tango ai confini del mondo: il mostro era venuto a invitarla. E allora partì per un viaggio allucinante, ben oltre i confini dell'immaginazione, attraverso la neve, il ghiaccio e la foschia fino a una città impossibile, La Cattedrale Dell'Arte. Una città che è anche una nave, talmente grande che al suo interno ci si muove in treno, i cui abitanti sono tutti gli artisti del mondo. Ma sarà anche lo scenario di una tremenda lotta tra il bene e il bello. Il grande architetto, Oscar Wilde, ormai immortale, ha progetti ben più grandi di una semplice gara di Tango.
Con questo romanzo d'esordio, scritto a 17 anni, durante un viaggio da Venezia al Polo Sud, Maurizio Temporin costruisce un edificio narrativo spettacolare e vertiginoso, un labirinto da percorrere a perdifiato fino all'ultima pagina.
LinguaItaliano
Data di uscita1 ott 2013
ISBN9788898475179
Il Tango delle Cattedrali
Autore

Maurizio Temporin

Maurizio Temporin nasce a Broni (PV) l'1 agosto 1988.rascorre l’infanzia vicino ad Alessandria, iniziando a coltivare la passione per l’arte, la letteratura, il cinema e il numero otto. In seconda liceo scrive il suo primo romanzo, Tutti i colori del buio, nel 2007 si trasferisce a Barcellona , dove esordisce con Il Tango delle Cattedrali (Rizzoli). Nel 2010  torna in Italia e inizia la trilogia urban-fantasy IRIS - Fiori di cenere, I sogni dei morti, I risvegli ametista – pubblicata da Giunti, sulla quale è in fase di realizzazione un film. I suoi libri sono pubbicati in diversi paesi, tra cui Spagna, Germania, Austria, Russia e America Latina. Collabora inoltre a progetti cinematografici e teatrali con Fabio Guaglione e Andrea Lanza. Non se ne conosce ancora la data di morte. “Una lente per l’arte. Una lente per la scienza. La terza per chi sa che le prime due non bastano.”  // Maurizio Temporin nace en Italia en el año 1988. Trascurre su niñez en una pequeña ciudad del noroeste, empezando temprano a cultivar la pasión por el arte, la literatura, el cine y el numero ocho. A los quince años escribe su primera novela, Tutti i colori del buio. En el 2007 se muda a Barcelona y hace su debut en el mundo editorial publicando El Tango de las Catedrales (Rizzoli). En el 2010 vuelve a Italia y empieza la trilogía urban-fantasy IRIS publicada por Giunti y traducida al español por Libros de Seda, sobre la cual es en fase de desarrollo una obra cinematográfica. Sus libros han sido publicados en diferentes países, entre cuales España, Alemania, Austria, Rusia y America del Sur. Colabora ademas a proyectos cinematográficos y teatrales con Fabio Guaglione y Andrea Lanza. Todavía no se conoce su fecha de muerte. “ Una lente para el arte. Una lente para la ciencia. La tercera para quien sabe que las primeras dos no alcanzan.”

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    Anteprima del libro

    Il Tango delle Cattedrali - Maurizio Temporin

    © Maurizio Temporin

    © 2013 VandA.ePublishing S.r.l.

    Sede legale e redazione: Via Cenisio, 16 - 20154 Milano

    ISBN 978-889847-517-9

    Prima edizione: Ottobre 2013

    Illustrazioni: Maurizio Temporin

    Illustrazioni in appendice: Susanna Scavone

    Cover: Susanna Scavone

    Edizione elettronica: eBookFarm

    www.vandaepublishing.com

    Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

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    A Carla,

    che perdono

    per avermi abbandonato

    ma che mai perdonerò

    per avermi permesso

    d'amarla.

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    Prologo

    Se ne stava seduto, ricurvo in avanti, a fissare il fuoco del grande camino. Osservava i movimenti delle fiamme aggrottando la fronte e pensava: «Lingue di fuoco per parole che scottano. Le stesse che stavano nelle bocche dei più volgari e falsi uomini in cui la mia fama è stata costretta a passare... E tutta quella cattiveria, come una volta, viene risucchiata nel camino, per tingere ancora più di nero la notte e gettare altro fumo negli occhi a Dio».

    Annichilito e appassito nell'alta poltrona di pelle nera, tentava di aggrapparsi a un lungo bastone d'oro dalla punta a ricciolo su cui sfavillavano le fiamme.

    Aveva le mani rinsecchite, quasi completamente scarnificate. Chiuse a pugno quella appoggiata sul bracciolo e la osservò: ormai era solo un nodo di legno che si lamentava. Non poteva neppure più portare anelli, infilandoseli sapeva già che un attimo dopo avrebbe sentito il loro tintinnio sul pavimento.

    Era un uomo distrutto: decrepito, avvizzito, repellente in viso, e del tutto irriconoscibile.

    I suoi capelli bianchi, sottilissimi ed esageratamente lunghi, lo ricoprivano completamente, dando l'impressione che fosse stato dimenticato là e che i ragni gli avessero tessuto addosso un sudario.

    Lo scheletro d'uomo si appoggiò a un bracciolo, ma quando fece per appoggiare il mento alla mano, scattò indietro. Era orribile la sensazione della pelle che scivolava sull'osso e che si lacerava come pergamena bagnata.

    «Sei deciso a farlo allora?» domandò una voce nel buio.

    Il vecchio fece forza sul bastone e tremando cercò di drizzarsi a sedere. Non poteva guardare il suo interlocutore, ma questo non perché le sue orbite erano vuote; la fonte della voce era nascosta da un impolverato drappo di stoffa violacea.

    «Assolutamente» riuscì a far evadere da dentro la sua prigione di costole.

    «Non sono d'accordo» si sentì rispondere.

    Allora sorrise, non curandosi delle labbra che si sgretolavano come calce.

    «Non posso crederlo... Voglio ricordarti che l'idea in origine era proprio tua.»

    «E vero. Ma le proprie idee tendono a sembrare buone in bocca a se stessi. Dette da te però, devo confessarti che suonano malissimo. Hai sempre avuto il difetto di prendere tutto troppo... letteralmente.»

    Lo scheletro seduto nella poltrona alzò leggermente la testa facendo scattare le vertebre del collo una dopo l'altra.

    «Non ti riconosco proprio in quello che stai dicendo. Mi chiedo come sia possibile che proprio tu, la persona che più al mondo ha cercato di differenziarsi dagli altri, possa ancora avere delle opinioni. Niente come le opinioni rende le persone una simile all'altra... Tutti vogliono dire la loro, tutti vogliono parlare. Ma queste invasioni di voci, questo ronzio di caratteri... non sono che una piaga. Ottengono solo pagine e rumore bianchi. Le opinioni sono la cosa più sbagliata che si possa avere per far valere le proprie idee...»

    Questa volta l'altra voce non rispose e il grande salone risuonò nel tetro silenzio che segue a un discorso incompiuto.

    «Molto bene...» aggiunse lo scheletro d'uomo, e scostando il braccio con il bastone si aprì uno spiraglio fra i capelli. L'altra mano si sporse in avanti come un ramoscello e con delicatezza sfogliò un libriccino pieno di appunti e nomi appoggiato su un tavolinetto in radica.

    «Vediamo... sono rimaste le ultime ipotesi. Notre Dame di Parigi... no, è troppo inflazionata. San Marco a Venezia... potrebbe essere una soluzione ma non era proprio quello che avevo in mente. La Sagrada Familia a Barcellona... prima che la finiscano faccio in tempo a morire un'altra decina di volte... Il Duomo di Milano lo trovo grigetto... Possiamo andare su Firenze, oppure l'ultimissima alternativa è Roma. Ma San Pietro puzza d'incenso e di preti... senza poi contare il fatto che anche quello è troppo piccolo.»

    A ridere questa volta fu la voce nascosta.

    «A quanto pare devi rinunciare. Non ti restano alternative. Mi spiace ma non esistono cattedrali così grandi da poter ospitare la tua vendetta.»

    La mano ossuta richiuse il libriccino e si afferrò saldamente a uno dei braccioli.

    «Forse hai ragione. Ma credi che questo sia un problema veramente insormontabile per chi... ha inventato il tango?»

    Un brontolio cupo fece tremare ogni cosa, poi la grande stanza si inclinò di colpo su di un lato e la poltrona scivolò nel buio.

    Parte Prima

    La scena si apre con un tango concitato, dall’inizio lento e cupo, che si evolve sempre più freneticamente fino all’esasperazione.

    1

    La migrazione dei gargoyle

    «Quando si dice la verità si è sicuri,

    prima o poi, di essere scoperti.»

    C .3.3

    Era l’alba.

    Nessun gallo osò cantare per annunciarla, ma non per questo il sole si fermò. Continuò ad alzarsi lento e rovente sull’orizzonte basso delle colline, mentre la città, in lontananza, appariva sorvolata da una nebbia sottile.

    Sembrava che una rosa stesse sbocciando e colorando ogni cosa con il suo intenso profumo.

    La luce adesso era abbastanza chiara. Potevano partire.

    In alto, sulla cattedrale di York Minster, si mosse qualcosa.

    Alcuni frammenti di pietra si staccarono da un cornicione e volarono giù, rotolando contro i doccioni della cattedrale.

    Alla base di un pinnacolo una sagoma scura aveva iniziato a muoversi impacciata. La sua durissima pelle si stava spaccando. Strinse gli artigli sgretolando le catene di roccia che la tenevano costretta da secoli, poi scattò.

    Il gargoyle spiegò di colpo le ali aprendole fin sopra la testa e proiettando schegge in ogni direzione, mentre un verso animalesco usciva dalla sua gola come un urlo crepato. Il bestione di pietra si sporse in avanti e lasciò che il suo peso lo facesse cadere verso il basso. Precipitò senza controllo rigirando su se stesso per molti metri e a un soffio da terra riprese quota con un abilissimo movimento delle ali, che lo fece risalire impennando. Un istante dopo aveva già superato le torri, mentre sotto di lui anche tutto il resto della cattedrale iniziava a brulicare come un alveare.

    Decine e decine di creature di pietra si stavano risvegliando dall’incantesimo dei loro scultori. E uno dopo l’altro, su ogni guglia, pinnacolo e sporgenza, altri mostri facevano esplodere le ali, schizzando via la roccia in frantumi, e preparandosi a spiccare il volo.

    I musi deformati dal tempo e le bocche consumate da tutta l’acqua vomitata si muovevano a scatti, e le ruvide orbite vuote cercavano la luce. I becchi schioccavano e le zampe graffiavano la pietra bianca.

    Confondendosi ai versi rauchi e gracchianti di quegli esseri grotteschi, i batacchi delle campane urtavano il bronzo facendo vibrare il suono di quell’ora indefinita. La chiesa tremava per il gran movimento eppure nella distesa dei tetti nessuna finestra si apriva, tutto era immobile, irreale. Quelli che stavano dormendo pensarono di certo che i rumori di fuori facessero parte dei loro sogni. Anche se un sogno alla fine lo era, quello del sonno della ragione.

    Alcuni mostri saltavano da un arco all’altro della cattedrale come monumentali uccelli impazienti, in attesa che anche gli ultimi nati si preparassero. I più grandi invece si stiravano le ali perdendo grossi pezzi che franavano sulle tegole.

    Le cattedrali erano il loro nido e probabilmente le avevano costruite loro; esattamente come gli uccelli usano rami, legnetti e fili di paglia, i mostri dovevano aver spostato pietre, roccia e marmo per farle.

    Ma adesso dovevano dirigersi a sud per unirsi agli altri che li stavano aspettando a Parigi: era giunto il tempo di migrare.

    Dal tetto della cattedrale lo stormo di gargoyle spiccò il volo tutto assieme, come un’agitatissima frotta di pipistrelli. Nerissimi, enormi e pesanti si alzarono nel cielo, portati dalle loro mastodontiche ali. Era incredibile che il vento potesse sostenere quei bestioni, eppure presero subito quota e in un attimo la chiesa si ritrovò spoglia e il cielo rosato pieno di urlanti uccelli di pietra.

    Lo stormo di gargoyle volava veloce sopra le case, l’aria passava loro addosso e i mostri lasciavano cadere una pioggia di sassi che qualcuno ancora a letto pensò fosse grandine.

    Sorvolarono le nebbiose strade ancora vuote e videro i lampioni spegnersi al loro passaggio.

    Le ali sbattevano e i loro visi imperturbabili, congelati in espressioni sconcertanti e grottesche, si dirigevano contro il sole.

    Erano già arrivati a spostarsi sulle colline quando alle loro spalle la città di York, appena superata, venne scossa da un tuono che correva sottoterra.

    Il sole sorse anche su Roma, scoprendo le statue e le colonne, trascinando via in silenzio il velo d’ombra che eclissava la città. Gli occhi bianchi delle statue sul ponte di Castel Sant’Angelo tornarono a brillare, e le loro ali furono appena mosse dal vento. Il colonnato di San Pietro apparve come un domino, una colonna dopo l’altra, come se l’alba volesse contarle. I raggi del sole incendiarono l’acqua della fontana di Trevi e domarono i suoi cavalli, corsero veloci fino in fondo al Tevere e percorsero via dei Fori Imperiali tutta d’un fiato, fino a invadere Colosseo, sollevando turbini di polvere calda dalle gradinate.

    Solo allora il terremoto scosse anche le antiche fondamenta di Roma.

    Lontano, dalla campagna, si vide alzarsi lentamente un’enorme ombra scura, qualcosa di smisurato. Sembrava che in mezzo ai palazzi un gigantesco e nero pallone aerostatico stesse risalendo adagio per prendere quota. Superò i tetti e divenne una mezza sfera che spargeva sotto di sé un acquazzone di pietre.

    Era il cupolone di San Pietro che aveva preso il volo vibrando e alzandosi imponente nel cielo chiaro. Salì fino a confondersi nella foschia, mentre da tutta la città stormi di mostri sfrecciavano via in branchi simili a nugoli di incubi.

    E allora tutte le chiese, le cattedrali e le basiliche sciolsero gli ormeggi. Ovunque cupole e campanili si sollevavano dal suolo e bucarono le nuvole come se stessero galleggiando nella luce. Ancorati al fondale per secoli, si alzarono in quel liquido rosa diretti in un luogo diverso. Non erano di certo fatti per questa terra.

    Il Pantheon, ondeggiando instabile come un piatto cinese in cima a una bacchetta, prese a volteggiare storcendo le mura. Poi se ne partì fischiando.

    In cima alla scalinata di piazza di Spagna, la chiesa di Trinità dei Monti era già a duecento metri dal suolo, mentre San Paolo, questa volta, non venne distrutto da un incendio, ma da un soffio di vento.

    A Firenze gli splendidi marmi bianchi e verdi di Santa Maria del Fiore si riempirono di crepe come se un rampicante di ferro stesse divorandoli voracemente. Una parte franò sulla destra, alcuni archi sul fronte si ruppero, poi il capolavoro del Brunelleschi ascese come tutte le altre cupole della città.

    Il Ponte Vecchio rimase a posto, il David invece scomparve fra le nuvole, proprio come le altre sculture di animali in bronzo che rigiravano nel cielo come palloncini.

    E a Pisa, quella volta, in piazza dei Miracoli il miracolo ci fu sul serio. La cattedrale lasciò cadere i teli e fu soffiata via come un castello di carte, seguita dal battistero e dalla torre pendente.

    La sfarzosa San Marco, indecorosamente a bagno nell’alta marea d’una Venezia che stava annegando nella decadenza, offesa decise di andarsene. Tutti avrebbero pensato che fosse stata l’acqua a portarla via.

    Nella grigia Milano le guglie del Duomo, una foresta pietrificata con solo piccioni per abitanti, partirono verso l’alto come una raffica di frecce, che miravano dritte al centro del sole. Oltre la nebbia.

    Nei movimenti del mattino, in tutta Europa le cattedrali maledicevano il suolo: a Barcellona i pinnacoli della Sagrada Familia presero a vorticare furiosamente, partendo uno dopo l’altro verso il cielo uguali a razzi, e l’affollatissima facciata di Santiago si sfoltì. In Francia, le spettacolari cattedrali dalle architetture di rovi, come quelle di Beauvais, Laon e Amiens abbandonarono i borghi per concedersi al cielo e seguire le nuvole.

    Nella sanguigna e mutilata cattedrale di Strasburgo il babelico orologio meccanico si inceppò, e la morte non riuscì a far toccare la campana alla sua falce.

    Anche nell’Illinois una piccola chiesetta in legno persa nella campagna sparì misteriosamente, lasciando a bocca aperta tutti gli abitanti del paesino che si ritrovarono a fissare un prato senza messa e sacerdote.

    Ovunque, quasi di soppiatto, i monumenti più grandi e stupefacenti mai realizzati si congedarono dagli uomini.

    Era Parigi però il luogo del raduno, dove la grandiosità della situazione superava di gran lunga tutte le precedenti.

    Nell’aria rosata, un vortice nero dominava il cielo e oscurava la città. Non erano corvi. Il turbine di mostri volava in circolo frastagliando i raggi del sole in fili tesi e sottili che si abbattevano sui tetti in una pioggia di luce. Lo stormo dei gargoyle aveva raggiunto una dimensione impressionante, la spirale di ombre aveva ormai un raggio che si estendeva oltre la città.

    Solo la musica di un tango sarebbe potuta arrivare vicina a esprimere quale fosse la portata dell’evento, quale sensazione travolgente, quale energia sospesa.

    Poi le vetrate di Notre Dame esplosero, i cristalli finirono in frantumi, saltando via come schegge, ma non caddero al suolo: coloratissimi e tintinnanti, si misero a volare sulla Senna, disperdendosi in un’infinità di farfalle lucenti.

    Ma adesso era tardi, non si poteva più aspettare.

    Lo stormo di gargoyle virò tutto assieme, senza preavviso, in un unico movimento fluido, calcolato e preciso. L’ondata di mostri se ne partì lasciando spazio al giorno e proseguì il lungo viaggio verso sud ovest.

    Le ampie ali rocciose tagliarono i vapori bianchi delle nubi, oltrepassarono le montagne, percorsero tutta la costa francese per arrivare a quella spagnola, e poi furono libere di spiegarsi sulle infinite acque dell’Oceano Atlantico.

    E mentre le ombre correvano veloci sulle onde, i loro musi erano torvi, in fuga dall’alba, in migrazione verso un luogo più freddo e lontano. Molto lontano.

    Molto lontano.

    Era il 1944 quando accadde, l’epoca in cui iniziarono i grandi bombardamenti. Questo fu quello che successe veramente, e se non si sa è perché la gente non se ne preoccupò più di tanto. Non c’era tempo per pensare a come mai ad alcune cattedrali mancassero i pezzi o perché altre fossero state addirittura rase al suolo. Forse l’errore di qualche pilota, forse un ordine dato male. E se qualcuno aveva visto, se ne rimase in silenzio, per paura di essere preso per pazzo, o per paura di esserlo.

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    2

    Binario nove

    Lisa si alzò sulla punta dei piedi. La valigia era troppo pesante per il suo fisico minuto, e i lunghi capelli neri le erano finiti davanti agli occhi. Cercò di spingerla sul portabagagli, ma un tacco le cedette di colpo. Cadde all’indietro e vide precipitarle addosso la valigia che s’aprì in una valanga di vestiti.

    «Tutto bene, signorina?»

    Lisa alzò lo sguardo dal disastro che la ricopriva e vide un uomo sulla settantina che le porgeva una mano. Sorrideva e aveva una camicia fatta di vento. Guardò ancora la mano tesa con i suoi grandi e timidi occhi scuri. Non disse niente e lasciò che l’aiutasse a rimettersi in piedi.

    «Grazie... sì, non mi sono fatta niente... è gentile a volermi aiutare» gli rispose scostandosi dal volto i capelli e facendo di tutto per non incrociare il suo sguardo.

    L’uomo le sorrise ancora con noncurante tenerezza e le tolse dal capo una graziosa mutandina di pizzo nero che le era piovuta fuori della valigia.

    «Questa credo sia sua.»

    Il viso pallido e sottile di Lisa avvampò mentre riprendeva l’indumento. Era terribilmente imbarazzata, ma l’uomo cercò di aiutarla guardando con benevolenza fuori dal finestrino. Rimise tutti i suoi abiti all’interno della valigia in pochissimo tempo; fortunatamente quelli per ballare il tango non si erano rovinati. Poi si sedette.

    Il treno non era ancora partito ed erano soli nello scompartimento, una di fronte all’altro di fianco al finestrino. Si scambiarono ancora un’occhiata, poi l’uomo prese un’agenda e abbassò la testa per scrivere.

    Lisa era ancora raggomitolata nella vergogna, ma la sua attenzione fu catturata da ciò che accadeva all’esterno. I binari, uno di fianco all’altro, terminavano contro una spiaggia di cemento e su alcuni erano arenati dei treni, mentre sulle banchine si muovevano molte persone che sembravano andare avanti e indietro, facendo dietrofront appena oltre i bordi del finestrino. Vicino alla carrozza sfilò anche un drappello di militari e Lisa nel vederli deglutì alcuni brutti ricordi.

    Il lunghissimo viaggio che la attendeva era già abbastanza scioccante. Non si era mai spinta così lontano, e ingenuamente pensava quasi che non si potesse, ma Buenos Aires, proprio come Constitución in cui si trovava, era sempre stata una stazione. Inevitabile partire o arrivarci, impossibile fermarsi. E questo da molto prima del 1949.

    Dalla fessura in cima al finestrino le voci continuavano a entrare come fumo, riempiendo sempre più lo scompartimento.

    «Mi raccomando! Chiama quando arrivi!» si sentivano urlare voci invisibili, oppure «Dai! Dai! Corri che ce la facciamo!»

    La stazione era coperta e i suoni della gente, dei passi e degli annunci si distorcevano come dentro a una grande conchiglia di metallo. Ogni tanto, quando un treno partiva, si sentiva anche il rumore del mare.

    Lisa scivolò sul sedile rimanendo a fissare attraverso la copertura della stazione il cielo azzurro e freddo. Era luglio, ma luglio era uno scherzo cattivo, voleva dire solo freddo. Il sole della mattinata riscaldava appena e solo se ti toccava, ma quel poco che arrivava ad accarezzarle il viso le bastò per sospirare e lasciare che i suoi occhi si chiudessero.

    Non aveva dormito. A impedirglielo era stato lo stesso scioccante evento del giorno precedente che l’aveva spinta a partire. L’aspettavano più di tremila chilometri, e non aveva la minima idea di dove l’avrebbero portata. L’invito non diceva nulla di chiaro.

    Il fischio del treno si espanse nella stazione come il lamento di una balena. Uno scossone e la locomotiva prese ad arrancare verso l’uscita della grande costruzione di metallo.

    Presto abbandonarono Constitución insieme a uno stormo di piccioni e l’andatura accelerò.

    Il signore davanti a Lisa non aveva ancora smesso di scrivere e teneva le gambe accavallate, muovendo il piede come se stesse canticchiando a mente. Fuori intanto la città se ne andava via con il suo corteo di palazzi ed edifici. Il sole dritto negli occhi e Buenos Aires che si avvicinava sempre di più a Lisa per ogni metro percorso sui binari in direzione contraria.

    Aveva sempre vissuto là, non s’era mai allontanata, le sue mani non avevano toccato altro che Buenos Aires da quando era nata e i suoi piedi, come i suoi pensieri, non avevano camminato che sulle strade di Buenos Aires: quella non era solo la sua città, era il suo mondo. Ed era un mondo affascinante, non potevano esserci posti più seducenti di quello, perché là c’era tutto.

    Non sapeva da quanto Buenos Aires esistesse, qualcuno l’aveva addirittura definita eterna quanto l’acqua e l’aria. Era una città di tutti i luoghi e di tutte le epoche, senza tempo, dalle infinite facce che guardavano avanti al passato e indietro al futuro. Forse era la vera Atlantide. E chi abitava a Buenos Aires lo sapeva: vivere nelle sue strade porta inevitabilmente a essere molti di sempre.

    Buenos Aires era enorme eppure fatta apposta per gli uomini, i palazzi alti al massimo quattro piani, ed era piena di monumenti, quasi nostalgica verso una storia che non aveva mai avuto ma da cui era nata. Un nuovo mondo che non ha dimenticato le culture che lo avevano generato per inventarne una nuova. Buenos Aires, comunque, non sarebbe mai stata una città intera se non si fosse trovata distesa sulla costa, perché la sua altra metà sarebbe stata sempre riflessa nel mare.

    Ma il mare non si vedeva fra gli edifici che si susseguivano all’orizzonte come un domino gigante, il treno correva troppo e si spostava sempre più verso l’entroterra.

    Lisa ricadde a sedere un po’ malinconica dopo aver chiuso le tendine. Sospirò dandosi della stupida per non essersi portata nemmeno qualcosa da leggere; sul comodino aveva un giallo ancora da iniziare e non esiste niente di meglio che un giallo quando non si vuole pensare. Mancavano ancora seicento chilometri prima di arrivare a Bahía Blanca, e nove ore da far passare in modo diverso che tormentandosi.

    Poi il treno entrò in una galleria.

    3

    San Telmo

    Fuori da un bar del quartiere di San Telmo uno dei primi clienti vide passare un postino in bicicletta. Correva per le strade ricoperte di pietre con le ruote sgonfie, e il pacco che portava nel cestino saltava a ogni scossone come se contenesse un gatto. Passò in piazza Dorrego e svoltò in una strada laterale evitando un tram. Quando si fermò e alzò la testa per controllare l’indirizzo, era di fianco a un palazzo grigio alto e stretto, che sembrava essere stato bruciato da un incendio il giorno prima. Ma l’odore di fumo veniva dal chiosco all’angolo che vendeva salsicce.

    Prese il pacco e salì le lugubri scale del palazzo fino all’ultimo piano.

    Il postino guardò il nome di fianco alla porta: «Lisa Littlebit». Aspettò un poco prima di bussare. Si lisciò i capelli corti con una mano: il nome era di una donna e ogni lasciata è persa. Dopo quattro respiri profondi, di quelli che si prendono prima di una lunga apnea, avvicinò le nocche al legno della porta, ma si arrestò. Le dita si gelarono.

    A smuoverle fu lo scricchiolio che sentì alle spalle. Si voltò e vide che l’altra porta affacciata sul pianerottolo era socchiusa. Dietro alla catenella lo stavano spiando due occhi piccoli e lucenti come quelli di un topo. Una voce squittì nell’aria.

    «Hai intenzione di bussare o devo stare qui tutta la mattina a vedere cosa succede?»

    Il postino sconcertato smise di guardarlo e picchiò ansiosamente sulla porta.

    La voce del roditore assunse un tono ancora più fastidioso.

    «Non penso che ti abbia sentito, la signorina rientra tardi dal lavoro. Sei giovane, metti un po’ di energia in quello che fai... se avessi io la tua età non batterei solo la porta» tossicchiò e deglutì con il suono di uno scarico otturato.

    Sulla fronte del postino scivolò una goccia di sudore, e picchiò in modo più concitato.

    Lisa si stropicciò gli occhi e cercò di soffocare uno sbadiglio.

    «Chi può essere a quest’ora?» pensò, guardando il vecchio orologio sul comodino. La lancetta segnava le otto. Si sedette sul bordo del letto scostando i due gatti che occupavano gli altri tre quarti del materasso e appoggiò le mani sulle tempie, come se volesse riavvitare la testa.

    Guidata dalle luci sottili che attraversavano le persiane chiuse trovò la vestaglia buttata su una poltroncina insieme ad altri vestiti. Strinse con forza la cintura alla vita ricordandosi dei brutti scherzi che le aveva giocato e andò alla porta. Non c’era lo spioncino, così si appoggiò per sentire meglio.

    «Chi è? Non aspetto nessuno» disse con le labbra intorpidite dal sonno.

    Sentì la voce dall’altra parte come un nodo nel legno.

    «Sono qui per recapitarle un pacco.»

    Lisa sospirò. Quei pacchi non erano per lei, faceva solo da intermediaria fra il suo vicino e la madre.

    Preparò controvoglia un sorriso e aprì la porta.

    Il postino era un ragazzo di bell’aspetto, anche se teneva lo sguardo basso e aveva l’espressione di qualcuno con una pistola puntata alle spalle. Il vicino con la faccia da topo non c’era più, era rientrato in casa tossendo rumorosamente, ma solo lui se n’era accorto. Lisa non capiva e controllò il cordone della vestaglia. Non si era mosso, ma chiuse meglio la scollatura. Le piaceva che gli uomini la guardassero negli occhi.

    «Dovrebbe mettere un paio di firme» disse lui indicando due spazi bianchi sul foglio.

    Solo allora, mentre passava la penna a quella mano gentile, la vide in viso.

    I loro sguardi rimasero per un attimo sospesi a mezz’aria.

    Gli occhi dolci, le labbra sottili, e

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