Lo sguardo del sopravvissuto
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Anteprima del libro
Lo sguardo del sopravvissuto - Roberto Delfino
633/1941.
POETA OGGI
Qui, dove non giunge l’orda di vane
candele, che si disfano se il sole
più cuoce, in questo tempo di pavoni,
l’onda irosa del balbettio continuo
sbatte forte contro l’esiguo e liso
bastione di difesa. Basta il fiato
a provocare il crollo d’una terra:
l’invasione non conosce più bighe
e l’archibugio nuovo è l’apparire.
Issata è la palma, l’alloro è a terra.
La sabbia assai lucente s’assottiglia,
all’erosione cede i suoi granelli.
Oltre un canneto fitto e la sterpaglia
l’integro suolo accetta le ciurmaglie
sdraiate all’ombra cupa del nonsenso,
per tutte le conchiglie omologante,
e filtra un fioco raggio tra i palmizi
godibile per chi vive per poco.
Caduta ormai è l’esatta architettura,
la baia briosa giace già nel fondo,
mentre il mio piede, sopra brevi lingue,
non cerca vie di fuga verso i lidi
tranquilli del banale, e più non trema
per l’ultimo, imminente smottamento.
LINK
La pioggia sferza la terra. Guardavo,
scostata la tenda, scorrere l’acqua
nella discesa e volgere ciottoli
verso tombini. Ritorna il sereno.
Volavano uccelli sopra le case
fumanti, mentre gocce in disarmo
crollavano a tuffo dentro ai barili.
Non ha più fiori la casa frontale
e il tempo ha scorticato la facciata.
Splendevano i balconi a primavera
e la fanciulla allegra consegnava
al vento azzurro e chiaro i suoi sorrisi,
molliche e sguardi intensi a piccionaie.
S’ode quest’oggi stridore di freni
d’una macchina scura. Se n’andava,
seguito poi dal pianto dei rimasti,
un altro dei fantocci terraioli,
tolto alla fila e messo nel drappello
di chi silente sta se il caro chiede,
lumaca senza bava a lasciar traccia,
né memore di porte un po’ socchiuse.
Vivo il presente ed altre primavere,
dell’inverno che viene già conosco
il volto: soli e piogge, neve e vento,
qualche sorriso breve come rosa
e il solito viaggio di qualcuno
verso il cipresso e l’ultima carraia.
VIA
Urlavano i fili del bucato,
le antenne tremolavano sul mare
dei tetti inumiditi,
beccheggiavano luci sulle vie
tracciate dagli scafi.
Era calda la stanza, nostro guscio
nelle sere di dicembre. Il camino,
in ardore per vederci su poltrone accanto,
vomitava sagome di fumo
nel cielo a tratti inciso da saette.
A volte qualche parvenza
a lato ci giungeva,
spinta da un vento ch’eludeva
le cigolanti movenze del cappello.
E risucchiata fosti tu per sempre
dopo la canna fumaria
del reparto.
Anch’io partii lontano,
ma dicono tra i vivi
gli assurdi documenti dei comuni,
seppur non visto tra le gambe
dei passanti in mezzo ai corsi.
Rimasero i ceppi nel capanno;
sono anch’io la cenere non raccolta
dell’ultima accensione.
Ruota nel cielo un rombo e scuote vetri:
il silenzio non ha squarcio d’altre voci.
Si muovono nel vano solitario
le lingue di fuoco della vita
andata, impressa sui muri
brevemente e spenta,
riflesso che s’acquatta
con l’allargarsi nero sul tizzone,
ed è un camino
l’abitacolo che ingloba il respiro
affannoso del ceppo
memore di fronde.
La casa adesso è vuota
all’altro capo del binario.
I MIEI POVERI VECCHI
Fermi sulle panche, con i calzoni
alzati a metà del polpaccio;
si muovono, invece, in alto,
nel cielo sorridente del bel giorno,
le chiome arcuate delle palme.
Un rimuginare continuo d’altri tempi
vaga tra volti e menti,
tra la striscia del cappello spodestato.
Età che segno più marcato pose
nella calotta d’un animo d’illuso!
È alta la fronda della palma;
ora più alta nel cielo senza nubi.
L’ombra si sposta sul sedile a fianco:
l’esodo dei vecchi si