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Macerie
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E-book232 pagine3 ore

Macerie

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Info su questo ebook

Durante un’alluvione una frana distrugge il paese di Antro e con esso svanisce ogni possibilità per Pietro di ricordare il proprio passato. Mentre tra le macerie ancora si scava, i sogni lo tormentano e lo guidano. Egli allora torna ad Antro e vi trova un ultimo superstite: Antòni. Lo porta a casa convinto che possa rendergli il passato ricomponendo la sua storia e quella del paese, e iniziano a succedersi i racconti. Antòni gli racconta “delle genti” ormai scomparse di Antro. Storie drammatiche e poetiche, difficili da credere, perché non tutto quello che lui racconta corrisponde a quanto i superstiti rammentano. Chi è allora Antòni? Mente dunque quando dice di parlare con i fantasmi di Antro? Difficile dirlo, ma pian piano le sue parole paiono indicare una via di redenzione per un’umanità colpevole e innocente insieme.

Claudio Piras Moreno è attore, poeta e scrittore. Ha svolto i lavori più disparati. Ha collaborato e collabora con diverse compagnie teatrali, in particolare con La Nuova Complesso Camerata di Bruno Venturi e Oreste Braghieri. Ha pubblicato Il crepuscolo dei gargoyle (fantasy), Il Signore dei sogni (luglio 2011), la raccolta di poesie Mare di ombre (giugno 2013) e quella di racconti L'icore umano (novembre 2012), il racconto che dà il titolo a quest'ultima raccolta ha vinto il secondo premio nel concorso "Lettere in aria" (2011). Macerie l'ha terminato di scrivere nel 2011, pubblicato inizialmente con un editore nel gennaio del 2014 e in proprio nel 2016: dopo aver ottenuto la rescissione. Nel 2018 ha pubblicato il romanzo di letteratura del mare In fondo al mare la luna. Nel 2019 ha tradotto e pubblicato due romanzi di Ignacio Mauel Altamirano, Zarco e Clemencia, e nel 2020 Le memorie di Mamá Blanca, dell'autrice venezuelana Teresa de la Parra. L'autore ha inoltre ricevuto menzioni speciali ed è stato pubblicato in antologie di poeti contemporanei. Nutre un forte interesse per la letteratura, la filosofia e l'economia. Per anni ha praticato karate e trekking.
LinguaItaliano
Data di uscita8 giu 2016
ISBN9786050453720
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    Anteprima del libro

    Macerie - Claudio Piras Moreno

    Macerie

    Claudio Piras Moreno

    A Daphne, fuori e dentro il libro

    Titolo | Macerie 

    Autore | Claudio Piras 

    Copertina: https://pixabay.com/it/ragazza-foresta-strada-bambina-1246690/ 

    © Tutti i diritti sono riservati all’Autore 

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza

    il preventivo assenso dell’Autore. 

    https://www.instagram.com/claudiopirasmoreno/

    Macerie

    Prologo

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    Epilogo

    Libri di Altamirano tradotti da me:

    Libri di Teresa de la Parra

    Libri miei tradotti

    Libri di Claudio Piras Moreno

    Prologo

    "La terra tace. Buio, ma carico di lampi di luce, perché tenebre simili si aprono sempre in rapidi spiragli che squarciano il buio stesso, mostrando quanto nascondeva. La terra respira e lo fa senza fretta, si guarda dentro, a suo modo parla, mormora, ma senza parole, con scricchiolii e sfregamenti: respira ancora. Il vento vi alita ovunque, le s'insinua nelle viscere e fischia. La terra se ne riempie i polmoni ed è pregna d'acqua, di vita: vermi, insetti, muffe, funghi e batteri. Che silenzio! Fatemi ascoltare: lo sentite anche voi quanto silenziosa si fa la vita? Nulla pare muoversi, eppure quanto movimento inconsulto, inarrestabile, nascosto, pieno di fiati che non sono tali. 

    Forse anch'io respiro, ma dell'acqua mi svuoto e dei pensieri. Sono sempre più secco, prosciugato di ogni linfa: il sangue non riempie più le mie vene e non mi scalda più come una volta. Ho sempre più freddo e meno voglia di parlare. Mi fanno male le ossa e sento un’oppressione al petto, non posso muovermi, il tempo mi divora, ne sento i morsi e i rimorsi. È doloroso il suo incedere sulle mie membra spolpate, ma ben peggiore è il suo retrocedere, per il mio animo tormentato. Dove mi trovo? Nello stesso posto di ieri, in quello di domani, di vent’anni fa e chissà ancora per quanto tempo. Vorrei muovermi. Sono l'unico a non poterlo fare: vermi, insetti e batteri sono tutto un contorcersi, strisciare e zampettare, mentre io resto immobile, quasi senza respiro. Da quanto tempo non mangio, non bevo, non faccio all’amore? Sento di essermi perduto alla vita, perché lei si è scansata da me e rocce e terra mi hanno sepolto. Mi ha lasciato da solo in questo antro, incastrato, non riesco quasi a parlare, se avesse potuto, mi avrebbe tolto persino il pensiero. Invece lui si muove, non è tanto arido, svuotato di sangue; non è così freddo, né gli piove dentro: respira e sospira.   

    Ma sento dei rumori. Forse stanno venendo a salvarmi..." 

    1

           Per mesi il cielo rimase sereno, o quantomeno non concesse neppure una goccia d'acqua. Vento sì, ne fece, e tanto. Tre, sei, nove giorni di maestrale, che tiene le persone nelle case, le barche nelle anse o nei porti e gli animali nervosi nei recinti; poi giorni di libeccio, non troppo forte ma abbastanza dispettoso; seguito da tramontane violente; e d’estate lo scirocco, afoso e umido, ma di un’umidità che bagnava solo le persone e non le cose; e infine il grecale, coi suoi canti di sirene che parevano promettere non si sapeva bene cosa. 

    Poi sole bianco bruciante, che faceva nascondere le persone a mezzogiorno, e siccome tramontava tardi sembrava non volersene mai andare. E notti calde affollate di zanzare che tenevano svegli fino all’alba, quando un sole rosso fiamma avvampava l’orizzonte e spegneva gli animi, il sangue nelle vene si tramutava in poltiglia e l’aria iniziava a tremolare. 

    Eppure, finita l’estate, in ritardo e a fatica, iniziò uno strano autunno: di giorno scaldava allo stesso modo, e solo la notte arrivava un po’ di fresco. 

    E ancora giorni di vento, che portava via la terra più leggera, mentre quella sotto si compattava divenendo impenetrabile all'umidità. E quando infine la pioggia arrivò, dapprima iniziò a scorrere sopra il suolo, creò solchi nella montagna. Poi, appena la terra si concesse, la penetrò in profondità – maggiormente dov’erano i solchi – ormai diventati tagli, lunghi e viscidi serpenti scuri; turbolenti torrentelli pronti a divellere persino le rocce e a segnare il monte. 

    Uno, due, tre giorni, poi tutto iniziò a gonfiarsi come un mantice, come un respiro nel sonno, un dubbio tormentoso. E sì che c’erano state delle voci, qualcuno aveva cercato di mettere in guardia su quanto stava per accadere. La solita Cassandra! avevano pensato gli altri. Possibile bastassero due gocce più del solito per mettere paura a un intero paese? Uomini grandi e grossi, abituati al duro lavoro; donne piccole ma forti, che al mattino si destavano per istinto e subito si prodigavano a fare il pane, il caffè ai propri mariti, la colazione ai figli, a vegliare la casa: loro mera estensione, di braccia, gambe e petto; prodotto della loro mente. 

    E donne simili non potevano non intuire che tutto quel piovere nascondeva qualcosa di malato e funesto. Lo sentivano proprio dalle case. Dalle mura fradice e lamentose, dal tetto stufo di far da scivolo, dalle tegole ormai ridotte a spugne; dove l'acqua cercava di salire dal pavimento e di scendere dal soffitto.  

    Ogni tuono faceva tremare la terra, pareva si stesse aprendo tutta la cima Fuscas, come un’anguria matura, crepitando fino alla base. 

    Voci assurde descrivevano alberi stremati, dai rami flosci e le radici scoperte; massi scavati intorno, fiumi esondati, la terra gonfia e satura, esausta da tanto piovere, pronta a vomitare acqua. Chiacchiere! Gli uccelli del malaugurio non smettono mai di cantare, e sì che emettono un verso ben sgradevole. E invece era venuta giù. Un fronte franoso di ottanta metri. Forse nel mondo ce ne sono stati di più grandi, ma questo era bastato a investire Antro in pieno, a seppellirla esaltando gli uccelli del malaugurio, promossi a veggenti, e a zittire gli increduli (sempre marchiati d’ignoranza); e stavolta il marchio era ben visibile: strati e strati di fango e pietre, muri venuti giù come tessere di un domino. Un paese intero distrutto. 

    E anche quanti si salvarono, una volta liberati dalla melma, dalle pietre, e lavati dal fango, non poterono dimenticare. Nella loro mente, indelebile più di qualunque inchiostro, il ricordo; nel loro cuore, incancellabile più di qualunque china, il senso di colpa. 

    Antro sepolta. La montagna se l’era scrollata di dosso, e ora del piccolo paese rimanevano solo fango e pietre. 

    Seguirono un ultimo giorno di pioggia e poi sole e vento, il cui soffio asciugò le carcasse delle case nel maldestro tentativo di negare quanto avvenuto. Ma le macerie erano là, e la tragedia restava vivida nei pianti e nella mente dei sopravvissuti, e per riflesso nei pensieri dei soccorritori, a cui la vista e l’immaginazione davano sostegno. 

    Sei giorni sono passati dalla frana, e di Antro, restano solo macerie. Abitazioni sventrate da una forza inarrestabile e feroce, che prima le ha voltolate verso il cielo e poi le ha invase col fango. È il settimo giorno, e nessuno più cerca superstiti, ma gli scavatori e le ruspe sollevano e caricano su camion metri cubi di detriti: pietre, mattoni, terra, enormi blocchi di granito e tufo. Tra loro si muovono alcune persone con pale e carretti, per dare una mano o recuperare quanto  loro appartenuto in un'altra vita. 

    Raimondo Mulas, un impresario che da subito aveva messo a disposizione i propri mezzi per rimuovere i detriti, avanzava tra le rovine. Lo seguiva l’amico Pietro Mura, giornalista di un quotidiano locale incaricato di scrivere l’ennesimo articolo sul disastro. In quei giorni si era scritto molto, anche troppo: perché a volte la scrittura ha caratteri simili a impronte dentali di sciacalli. 

    Pietro era di Antro. Da un paio d’anni viveva a Occiduo. Eppure, con la frana aveva perso un pezzo di vita, per la precisione il suo passato, l'infanzia, e ogni possibilità di ricordarli. 

    Quel mattino il giornalista si era presentato all’amico dicendo di voler assistere ai lavori di sgombero. In realtà stava seguendo i fili d’un sogno che lo avevano guidato fin lì. E ora camminava con lo sguardo fisso in avanti. La visione di Antro devastata si sovrapponeva all’immagine onirica, identica in ogni dettaglio, e in questa rassomiglianza vi era qualcosa di perverso. Persino la nebulosità tipica dei sogni era riprodotta dal fumo delle ruspe e dalla polvere che si alzava in una spessa nube irritando gola e occhi. 

    Poco distante, l’ingegnere Benedetti osservava i mezzi in movimento. Si lisciava i baffi un tempo biondi e ora quasi del tutto bianchi. Poi decise di andare a pranzo e si avviò verso l’auto. La polvere e il fango avevano ricoperto il veicolo di un velo color nocciola. L’ingegnere arricciò il naso – tanto sporco si riversa nelle opere dell’uomo – avviato il motore e ingranata la marcia, partì diretto al vicino paese di Occiduo. 

    Raimondo bestemmiò qualcosa. Mal lo sopportava e immaginava che la sua presenza ad Antro fosse quantomeno interessata. Quello era capace di speculare su tutto. 

    Come personaggi marginali d’un quadro, alcuni fantasmi ancora vivi vagavano tra le rovine: orfani d’ogni sensibilità. Impossibile stabilire se respiravano, pensavano, soffrivano. Risvegliati dal suono dell’auto dell’ingegnere in allontanamento si diressero anche loro alle proprie vetture. Erano automi, e sentivano la fame più come condizione mentale che come necessità del corpo. Si trascinavano dietro la vergogna e la colpa di essere vivi, quanto tanti dei loro cari non lo erano più. 

    Pietro s'appoggiò un fazzoletto sul naso e serrò le labbra. Il maglione gli stringeva il collo e il molesto opprimere, unito al sudore, acuiva la sensazione di soffocamento data dalla polvere, che gli penetrava sotto gli abiti, facendolo sentire sporco. Osservò pensieroso una ruspa. Con la benna leggermente sollevata spostava una parete di blocchi di granito, quasi intatta, caduta su due travi di ginepro. Sopra c’era stata una montagnola di detriti, e un camion la stava portando ora alla discarica. La pietra scivolò in avanti slittando sul legno. Con stridore sgradevole i cingoli grattarono su quanto rimaneva della vecchia strada selciata sottostante. Gli occhi di Pietro lacrimarono per la polvere e il fumo eruttati dal tubo di scappamento del mezzo, il naso si torse per l’odore nauseabondo esalato da sotto la parete appena spostata, e in bocca gli si acuì un sapore di putredine; la pelle sudata e sporca gli prudeva, e il rumore dei cingoli lo assordava. Nessuno dei sensi veniva risparmiato. Ognuno pativa la vendetta del paese sepolto dalla montagna e ripudiato dagli abitanti, che ad altro non pensavano se non a dimenticarlo. 

    Il ruspista Fernando Collu, sulla sessantina, capelli grigi, zio di Raimondo, dopo aver studiato con attenzione i movimenti dell’ingegnere ingranò la retromarcia. Con gran strepito fermò il mezzo a un metro dal nipote e da Pietro. Ovunque gli ultimi ritardatari si allontanavano. Era l’una. 

    «Andiamo a mangiare?» domandò una volta sceso dalla ruspa. Un tic nervoso gli fece tremare un occhio, ma non ebbe la forza di sollevare una mano per comprimere la palpebra in attesa che passasse. 

    «Va bene» accettò Raimondo facendo finta di nulla. Poi, rivolto all’amico: «Vieni con noi?». 

    Pietro scosse la testa. «Non posso, Bernardina mi aspetta per pranzo… faccio un ultimo giro e poi vado» mentì. La moglie in verità stava lavorando e sarebbe rientrata soltanto la sera. 

    Zio e nipote non insistettero, avevano soltanto un’ora e mezza per scendere a Occiduo, dove oramai vivevano, pranzare e tornare lì. Saliti sull'auto di Raimondo, i due sparirono lungo la discesa. 

    Appena scomparvero alla vista, Pietro iniziò a vagare da solo tra le rovine. Cercò di focalizzare i suoi ricordi, nondimeno gli era più facile rammentare il sogno che l'aveva condotto fin lì del suo stesso passato. 

    S'arrampicò su un muro pericolante, lo saltò, e cominciò a osservare. 

    Immersa per metà nel fango secco vide una biciclettina di colore rosa. La raggiunse. Cercò d'immaginarsi la piccola proprietaria ma non riuscì a rievocarne il ricordo, eppure doveva averla conosciuta. Ad Antro ci si conosceva tutti. Si abbassò notando il campanello sul manubrio. Allungò la mano per suonarlo e ne venne fuori un rumore spezzato, di ingranaggi rotti, per nulla simile al trillo originario. 

    Sotto due massi intravide un grosso bastone il cui manico presentava una forma ergonomica, dovuta più a un continuo utilizzo, che a una lavorazione raffinata. 

    Rialzandosi vide una melagrana ripartita in due e ne avvertì il profumo acerbo. Chiuse gli occhi e s'immaginò accanto una giovane ragazza la cui pelle emanava un identico aroma; con un sorriso le porse metà frutto e lei accettò. 

    Poco più in là notò un bicchiere da vino infranto. Si accovacciò per raccoglierlo. Sollevandolo in aria finse di brindare con un compagno invisibile. Si ferì, e con un moto di stizza decise di non indugiare oltre... Ma ancora un oggetto attirò la sua attenzione: una cornice d'argento a motivi floreali, vuota e incrostata di terra. 

    Si diresse dove la ruspa aveva rimosso la parete di pietra. 

    La lastra era scivolata sui grossi tronchi di ginepro e Fernando Collu nel girarsi per fare retromarcia non si era accorto di cosa ci fosse sotto: una bassa catasta di tavole, stoffe luride e terra indurita. Il giornalista vi si accostò. 

    Dopo un istante di turbamento, a mani nude scombinò il monticciolo, scavando e rovesciando, fino a eliminare ogni ingombro. Il puzzo avvertito poco prima si fece intenso. 

    Pietro rimase senza fiato. L’uomo era proprio lì, giaceva rigido, il volto emaciato e sporco, gli occhi sbarrati, e coi capelli incollati alla nuca. È davvero lo stesso del sogno? si chiese Pietro. Sembrava morto. I vestiti, logori e strappati, gli conferivano un aspetto ancor più miserevole. Stava sprofondato in posizione supina, tra fango e macerie, in parte assorbito dalla terra; l’espressione sofferente e scorata, come se nell’istante prima di morire avesse cercato di opporsi alla montagna per frenarne la caduta e salvare Antro e i suoi abitanti. O salvare se stesso da qualcuno.  

    Una mosca si posò sul viso del dissepolto. 

    Eccolo il relitto umano. Chi voleva vederlo ora è accontentato, può riversare su di lui la propria curiosità morbosa e smaniosa. Se lo goda, l’Uomo, immerso nel terreno in così gustosa scena. Grazie al suo sacrificio ognuno può sorbirlo come un frutto donato dalla terra. 

    2

    All’improvviso la bocca del morto si mosse e si udì un rantolo. Pietro si ritrasse velocemente, inciampando su una tavola. Cadde seduto all’indietro. 

    L’uomo aveva una fronte ampia e piatta, naso aquilino, mento sporgente, occhi sbarrati e immobili; tuttavia pareva guardarlo. 

    Pietro non ebbe più dubbi, era lo stesso del sogno. Si riscosse e con lentezza avanzò carponi fino a lui, infilandosi tra le due travi di legno. Esse, capì, avevano impedito alla lastra di pietra di schiacciarlo. 

    Dalle tracce lasciate dai cingoli comprese quanto lo scavatore avesse rischiato di schiacciarlo. Allungò una mano incerta verso il viso emaciato dell’uomo, cercando al contempo di scorgere un eventuale movimento del petto. Un lieve sollevarsi e abbassarsi gli sembrò di intravvederlo. Toccò la pelle, ma non accadde nulla. Il corpo era freddo. Trasse una piccola pila dalla tasca, l’accese e la puntò sulle iridi. Nessuna reazione. Sospirò. In quell’istante, l’uomo emise un altro verso e roteò gli occhi. 

    Stavolta Pietro rimase al suo posto e iniziò a tastarlo. Voleva assicurarsi che non avesse nulla di rotto. L'altro cercò di mostrarsi risoluto, ma si vedeva che pativa appena lo sfiorava. Oppure era paura? 

           Che fare? Se avesse chiamato aiuto lo avrebbero portato in ospedale e questo non poteva permetterlo. Fin dai primi momenti del sogno aveva intuito che lui era la chiave d’accesso al proprio passato, ad Antro e alla sua gente, e al loro svanire nell’oblio. Non sapeva il perché di questa certezza, ma gli si era così radicata nel cervello da non riuscire a dubitarne. 

       Doveva portarlo a casa sua e scoprire chi era, anche se facendolo rischiava una denuncia e le ire della moglie. Si chinò sull’uomo. Con quanta più delicatezza poté lo estrasse dal fango e lo prese in braccio. Era molto più leggero di quanto immaginato. Ascoltandone i lamenti e i mugolii raggiunse la macchina. Lo adagiò sul sedile posteriore, lo ricoprì con un telo, attento che avesse modo di respirare, e partì. 

           Nessuno aveva visto niente. 

    La macchina avanzò veloce seguendo l’asfalto in stretti tornanti e ripide discese. In meno di dieci minuti arrivò a una bassa casa circondata da un giardino, proprio all’inizio di Occiduo. 

    Il cancello si aprì e l’auto percorse il viale fino all’edificio. Infilò il garage. Da qui una porta immetteva in un andito. Così Pietro non dovette uscire all’aperto con il misterioso carico in braccio. Entrò nella stanza degli ospiti in fondo e si diresse verso il letto sulla sinistra. L’uomo soffriva. Doveva avere delle costole rotte. Pietro lo adagiò tra le lenzuola bianche e immacolate che subito si macchiarono di scuro, era davvero sudicio. Al chiuso si accorse di quanto puzzasse e

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