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Il balcone
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E-book265 pagine3 ore

Il balcone

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Info su questo ebook

Un balcone che si affaccia sul mare, circondato da un paesaggio surreale, in un luogo non ben definito, senza tempo. Una donna contempla l'orizzonte, come avvolta da un'aura misteriosa. All'improvviso un salto nel vuoto, un’esperienza indescrivibile che sfugge a qualsiasi spiegazione logica. Un sogno ad occhi aperti o un'esperienza reale ai limiti del conosciuto?

Due mesi dopo, Andrea, il protagonista di quella strana esperienza, parte alla volta dell’Andalusia per passare il suo compleanno in compagnia di alcuni vecchi amici. In quel di Granada conosce Sarah, una giovane esule siriana che si è rifugiata ad Almuñecar, dopo che la guerra civile le ha portato via la casa e la sua famiglia. Tra i due nasce un amore così improvviso e spontaneo che li porta subito a condividere molto più di una semplice passione. Tuttavia sembra che quell’amore e quell’incontro non siano dovuti soltanto al caso, e Andrea incomincia a credere che quel sogno non fosse soltanto un sogno, e che Sarah potrebbe essere proprio la donna che aveva visto – o immaginato? - su quel balcone misterioso.
 
LinguaItaliano
Data di uscita5 gen 2015
ISBN9786050347234
Il balcone

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    Anteprima del libro

    Il balcone - Andrea Dilorenzo

    profondo.

    Introduzione

    Un giorno, senza pensarci tanto, iniziai a mettere nero su bianco un sogno che avevo fatto e che, stranamente, - e non so proprio il perché, poiché il ricordo dei sogni, per quanto possano essere nitidi, si dilegua e si dimentica così tanto facilmente - non voleva proprio abbandonare i miei pensieri.

    La descrizione che feci di quello strano sogno diventò, poi, il prologo e il tema principale de Il balcone.

    Andrea Dilorenzo

    Prologo

    Mi trovavo su un balcone che, per ampiezza e profondità, pareva es­sere uguale a quello che si profilava fuori la mia camera da letto, sebbene differiva molto da esso per via di alcuni dettagli che ora de­scriverò.

    Il parapetto, di un bianco immacolato e morbido come un blocco di gesso appena estratto, aveva la forma di una mezzaluna ed era sor­retto da piccole colonne, larghe, ma non molto, anch’esse bianche ed equidistanti tra loro, che gli conferivano un aspetto regale, di un’epoca indefinita, oserei dire in stile greco, poiché le cime di que­ste erano ornate da capitelli scolpiti allo stesso modo di quelli degli antichi templi ellenici. Di fronte, in basso, si scorgevano alcune rocce, di cui tuttavia non riuscivo a vedere dove terminassero, e tutt’intorno il mare che, per via di piccole onde dirette a ovest, pa­reva essere leggermente mosso.

    Probabilmente quel balcone era parte di una costruzione molto più grande di quello che l’angolatura della mia visuale riusciva a vedere; chissà... forse un palazzo alto, maestoso, con decine o addirittura centinaia di stanze. Dai pochi dettagli che riuscivo a percepire avrei giurato che mi trovavo piuttosto in alto, forse sulla cima di una fale­sia viva, simile a quelle che si affacciano sull’Oceano Atlantico, nelle Asturie.

    Benché il cielo fosse terso e limpido come l’acqua pura che sgorga della sorgente, non saprei dire con assoluta certezza quali fossero i colori e le sfumature che il disco solare è solito donare agli osserva­tori più acuti o a quelli dagli animi più sensibili.

    Ciò che più richiamava la mia attenzione era la quiete e il silenzio che permeava tutte le cose: pareva che la voce del vento avesse lo stesso timbro di quella delle onde e di qualsiasi altra cosa su cui avessi potuto posare lo sguardo e, al contempo, nulla sembrava ina­nimato, sebbene una calma apparente troneggiava su tutto il paesag­gio circostante.

    Inspiravo ed espiravo profondamente, i miei polmoni si saziavano con voluttà di quell’intangibile purezza, ciononostante non riuscivo a percepire nessun odore di sorta.

    Malgrado i miei occhi fossero rivolti verso quella distesa d’acqua senza fine, ebbi la netta impressione che, se mi fossi voltato, avrei visto alle mie spalle una infinità di piante e fiori policromi serpeg­giare in un dedalo di alberi irti e folti, e corsi d’acqua d’ogni sorta, e animali e insetti di ogni specie tra di essi.

    Tuttavia qualcosa mi impediva di distogliere la vista da quell’oceano sconfinato e, nel contemplarlo, d’un tratto una profonda sensazione di malinconia pervase tutte le fibre del mio essere, come quando si dice arrivederci a una persona cara, consapevoli che non la rivedremo mai più.

    Eppure io non ne soffrivo di questo mio stato interiore e, con di­stacco, osservavo me stesso in quel che si dice un sogno, se così mi è dato chiamarlo. Ecco, è proprio questo il punto: non sapevo se stessi sognando o cosa…

    È difficile dare una descrizione esaustiva di ciò che si saggia nel silenzio. Pare proprio che, quando si è varcata la soglia dello scibile, solo lo spirito può camminare indomito su quel sentiero non trac­ciato. Il pensiero discorsivo non ha libero accesso, le parole indu­giano alla vista di quel vuoto sconfinato.

    La mia mente, attonita, non lesinava elogi alla vista di quel luogo di pace, e, languidamente, discorreva, vagliandone la sua misteriosa e infinita bellezza.

    Lei, all’improvviso, comparve alla mia destra.

    O, forse, era già lì e non me n’ero accorto. Era a pochi passi da me, di spalle.

    Una lunga e soffice veste bianca sfiorava appena il suo corpo, scoprendo solo le sue braccia. La brezza sollevava i suoi lunghi capelli

    neri corvino, denudando, all’altezza delle spalle, la sua candida e liscia pelle bianca e una sottile collana nera che cingeva la sua nuca.

    La calma che pareva trasparire dal suo silenzio era, però, tradita dal suo respiro, a tratti irregolare, che io percepivo nonostante la brezza e alcuni passi che ci separavano l’uno dall’altra: era come se volesse parlarmi di qualche questione di estrema importanza, ma senza riuscire a trovare le parole adatte.

    Fece come per voltarsi, ma ebbe un’esitazione e rimase lì dov’era.

    Avrei voluto chiamarla per nome e avvicinarmi a lei, almeno per un istante, ma, ahimè, non avevo la benché minima idea di quale fosse, né tantomeno sapevo cosa stessi facendo io stesso lì, su quel balcone, in quel luogo senza tempo.

    Meditando su cosa sarebbe stato più opportuno o meno proferire, in quella circostanza, anch’io tacqui.

    Intanto che tutto il mio essere era assorto nel contemplare quel paesaggio surreale, m’accorsi che il vento diveniva sempre più intenso, le onde si levavano maestose innalzandosi per molti metri al di sopra del livello del mare; pareva che avessero ognuna una volontà propria, e, sebbene ci fosse come un fitto brulichio di spuma che fremeva agitandosi istericamente sulle loro creste, le si poteva distinguere molto chiaramente le une dalle altre.

    Le acque del mare si facevano sempre più scure e di colori vivi, lividi, mesti, che mutavano in rapida successione, passando dal verdazzurro al blu, dal grigio al nero, e poi ancora dall’arancio al viola, sebbene di una tonalità da me sconosciuta, simile all’ametista, ma con sfumature di altri colori che tutt’oggi disconosco.

    D’un tratto il buio pervase la mia mente, con la subitaneità di una freccia scoccata senza preavviso, spargendo come un velario greve sulla mia coscienza.

    Poi ci fu come una grande esplosione di luce. Lo spazio e il tempo si dilatarono in un istante.

    Miriadi di stelle e una infinità di fili luminosi, sottili e morbidi come cotone dorato, avvilupparono ciò che rimaneva degli ultimi frammenti di pensiero logico e razionale che, disorientati, vagavano nella mia mente come orfanelli spauriti; questi correvano qui e là alla ricerca di un riparo, di un luogo a loro caro e sicuro nei meandri della mia memoria, in cerca di una qualche risposta che avrebbe dato loro la salvezza; ma uno ad uno cadevano nel vuoto più assoluto, nel nulla senza fine, come i dannati nella bocca dell’Ade.

    Poi tutto si tramutò in silenzio.

    Prima parte

    I

    Com’era solito accadere a Foggia, senza nessun preavviso di sorta, il mite e noioso autunno, che tanto caratterizzava il subappennino dauno, aveva ceduto il passo a un inverno gelido, il più freddo degli ultimi dieci anni. Una nebbiolina umida e lattea mulinava attorno a quel poco che era rimasto delle stagioni calde, e la natura suburbana, intrappolata tra smog, asfalto e cemento, sonnecchiava come cullata da una melodia languida e silenziosa. Delle nuvole nere e argentate correvano inseguite dal tenue lucore del sole che, sebbene fosse già molto pallido, vegliava come un padre compassionevole su quei poveri disgraziati che correvano qui e là alla disperata ricerca di un parcheggio o chissà dove. Il cielo dauno, ora terso, ora incupito, pareva come annoiato dall’iterazione di quella visione sepolcrale.

    Si preannunciava una giornata corta e senza particolari emozioni.

    Da due mesi avevo iniziato a lavorare come aiuto cuoco nella cucina di un piccolo ristorante situato nel centro della città, una di quelle trattorie che solitamente possono passare inosservate a prima vista, sebbene si mangi benissimo. All’esterno non v’era nessuna insegna, ma solo una grande targa sul muro, in cima all’entrata. I piatti del menù erano quelli della tradizione tipica locale, l’ambiente familiare e accogliente, e la clientela era molto variegata; a mezzogiorno solevano venire spesso alcuni professionisti, come il notaio Poli o il dottor De Martinis, un ginecologo dall’aria molto distinta; la sera, invece, era frequentato per lo più da studenti o piccole comitive di ragazzi sui trent’anni, amanti della buona cucina nostrana.

    Era il mio ultimo giorno di lavoro e faceva troppo freddo per andare in bici; perciò mi avviai a piedi, a passo moderato.

    Infagottato in un pesante cappotto di velluto, mi diressi verso il sottopassaggio che si trovava all’incrocio tra viale Fortore e via Scillitani. Il vento soffiava pungente e ostinato, costringendomi a camminare di buona lena.

    Di spianate alberate e giardini immacolati neanche l’ombra. Via Scillitani era deprimente e disadorna per metà del suo tratto, benché, dopo una piccola galleria sulla quale si ergevano i binari, svettavano degli alberi dal boschetto della Villa Comunale, le cui mura lambivano tutto il viale.

    Dai viticci che, avviluppati, si inerpicavano sul muro grigio e consunto che fiancheggiava la strada, aggettavano una fiumana di grandi e rugosi pampini madidi di pioggia da cui cadevano piccole gocce argentate che si staccavano lentamente dalle piante, e che, per un breve istante, prima di toccare l’asfalto, assumevano delle perfette e sensuali forme lanceolate. Un’enorme e oblunga pozzanghera costeggiava tutto il marciapiede su cui stavo camminando e, voltandomi, di tanto in tanto, prestavo attenzione alle auto che, giungendo dalla galleria alle mie spalle, si dirigevano verso il centro della città. Non era raro imbattersi in qualche frustrato che, chissà per quale ineffabile ragione, sfrecciava a tutto gas facendo zampillare l’acqua delle pozzanghere, inzaccherando così tutti i malcapitati che, dopo un acquazzone, si fossero trovati a camminare lungo quel dannato marciapiede.

    Scarmigliati, vestiti con abiti tristi e logori, i vecchi sedevano sulle panchine prospicienti la Villa Comunale e anche su quelle che si profilavano lungo tutto il corso antistante, che era bordato da grandi alberi di tiglio tutti rinsecchiti e mutilati, e lunghe file di auto parcheggiate, anche in doppia e terza fila. Certuni, in solitudine, rimanevano a fissare i passanti, come inebetiti, per ore e ore; altri, in gruppo, discorrevano del più e del meno o, latrando in un dialetto arcaico, giocavano lanciando delle monetine per terra, un passatempo molto antico di cui non ricordo il nome, sebbene molto simile alle bocce.

    Già da alcuni giorni i negozi sul corso avevano cambiato i cartellini dei prezzi e modificato l’esposizione della merce, e avevano adornato le vetrine con addobbi paludati e desueti. Il Natale era alle porte. Alcune attività erano chiuse per via della crisi economica che aveva investito non solo l’Italia, bensì anche tutto il resto del sud Europa. C’erano molti venditori ambulanti che animavano le vie del centro, poiché quella mattina c’era il mercato del Rosati , uno dei più antichi e frequentati della città, e nell’aria aleggiavano le grida dei commercianti che si contendevano la clientela a suon di battute e laconiche filastrocche, decantate rigorosamente in dialetto.

    Giunsi a Il Moro della Daunia – questo il nome della trattoria dove lavoravo – con soli dieci minuti di ritardo.

    Quando aprii la porta il calore e il profumo intenso e speziato del brodo di carne accarezzarono come di sbieco il mio odorato che, rinsavendo all’istante, non sapeva più dove dar naso per gli effluvi di salumi, formaggi e altre leccornie che inalava avidamente. All’interno l’aria aveva un bouquet antico, per via dell’odore della legna secca che ardeva nel camino e della cera lacca invecchiata che rivestiva alcuni mobili d’epoca, e che davano al ristorante un’aria aristocratica ma sobria, tipica di quelle vecchie case di campagna appartenute a qualche nobile decaduto.

    Varcai la soglia sbirciando con sguardo furtivo in direzione della sala e asciugai la suola delle mie scarpe sul tappetino intirizzito posto all’entrata.

    «Ciao! Scusate il ritardo, ma sono venuto a piedi. Fa un freddo cane… » deprecai – seppur accennando un sorriso -, e andai di corsa in cucina, a scaldarmi vicino il termosifone.

    «Buongiorno, Andrea» mi disse Olga, la cameriera, che stava aiutando Alina - la moglie del proprietario - a pulire la sala.

    Alina, invece, non mi aveva ancora salutato e mi buttava delle occhiatine che non promettevano niente di buono.

    «Andrea, per piacere, non stare lì impalato. Alfredo sta per arrivare e ci sono da tagliare ancora le cipolle. E poi devi preparare le melanzane alla griglia. Dai, su» mi ingiunse Alina.

    « Zi, badrone » risposi io, con una punta di sarcasmo. «Dammi cinque minuti che mi cambio.»

    Rompipalle dissi tra me e me, avevo le mani ghiacciate dal freddo e ci avrei messo soltanto uno o due minuti a riscaldarmi.

    Nel frattempo, Alfredo, il proprietario e cuoco della trattoria, era già di ritorno dal mercato.

    Canuto, gli occhi piccoli, acerrimo nemico dell’esercizio fisico, aveva sempre l’aspetto un po’ trasandato per via della barba incolta e dei capelli corti e crespi che parevano sempre unti; la montatura piccola e fragile dei suoi occhiali da vista stonava con la sua mole enorme e sgraziata, e, per di più, aveva la cattiva abitudine di mettersi le dita nel naso, cosa che la moglie gli aveva fatto notare più e più volte, tuttavia con scarsi risultati.

    Nelle buste che aveva con sé c’era della frutta di stagione, del pesce azzurro, delle pagnotte di pane di grano duro, marasciuolo, rucola, borragine, sprucida e altre erbe spontanee che conoscono solo i terrazzani [¹] .

    «Ti piace il pancotto?» mi domandò Alfredo, mentre posava le buste sul tavolo. «Oggi facciamo pancotto e involtini di melanzane con ripieno di caciocavallo e basilico.»

    «Sì, sì. Poi, con questo freddo, sai come va giù… » gli risposi, e un brontolio riverberò tra le pareti del mio stomaco.

    «Vado un attimo di fronte a comprare le sigarette. Di’ a Olga di tagliare il pane. Ah! Aspe’, mmh… dille solo una pagnotta e anche di non fare le fette troppo spesse, come ieri. Anzi, no… meglio una e mezz’, va!» mi disse Alfredo, e uscì.

    Olga si era appena cambiata. Stava fumando sul ciglio della porta della cucina che dava sul retro del ristorante, dove Alfredo aveva piantato alcune erbe aromatiche e altre piante come alloro, salvia e altre ancora, che lui era solito usare per cucinare o per adornare alcuni piatti.

    «Mi ha detto Alfredo che c’è da tagliare il pane, se vuoi ti aiuto» le suggerii.

    «Sì, ora arrivo» mi disse Olga, mentre dalle sue piccole labbra carnose esalava uno sbuffo di fumo che subito svanì nella nebbia.

    Contemplai il suo profilo circonfuso dalla luce lattea del sole, che era ancora velato dalle nubi; il suo sguardo fisso nel vuoto mi dava l’impressione che non sapesse neanche lei a cosa stesse pensando.

    «Ti va di uscire?» le domandai, e mi avvicinai a lei di qualche passo.

    «Stasera?» mi domandò lei, come colta di sorpresa, e si voltò di scatto, facendo ondeggiare i suoi lunghi capelli biondo rame.

    «Sì, certo. E quando, se no?»

    «Può darsi. Dove mi porti?» mi chiese Olga, dopo che gli angoli delle sue labbra si levarono un po’ all’insù, in un sorriso malizioso.

    «Non lo so» le risposi, non avendo programmato niente. «Comunque oggi è l’ultimo giorno che lavoro qui, non mi ricordo se te l’avevo già detto. Può darsi che non ci rivedremo più. O, almeno, non così spesso.»

    «Chissà, potrebbe essere un bene. Il mio ragazzo inizia a essere sospettoso» mi rammentò, con una non so quale aria di spregio mondano.

    «I maschi sono sempre sospettosi» osservai.

    «E le donne sono prudenti» ribatté lei, quasi all’istante.

    «Tu lo sei?» le domandai, sporgendomi verso di lei, e i nostri volti quasi si sfiorarono.

    «Certo, mi piace stare tranquilla» mi disse lei, quasi a fior di labbra, poiché la mia vista lambiva la sua bocca, come per ricordarle cosa avevamo fatto la notte precedente.

    «Capisco. Però la tranquillità a lungo andare annoia» ribattei io, con un tono che rasentava la millanteria, e me ne andai in cucina.

    Alle tre del pomeriggio era rimasto in sala solo il dottor De Martinis. Aveva finito di pranzare da poco e se ne stava seduto a leggere il quotidiano.

    Alfredo mi chiamò. Sapevo che era arrivato il momento della paga.

    «Andrea, ascolta: quando finisci di sistemare tutto, vieni alla cassa. Io sono lì, ti aspetto.»

    Quelle tre parole - vieni alla cassa - mi fecero uno strano effetto, come quello che farebbe una sirena antincendio a una favilla. Mi venne voglia di prendere quello che mi spettava e tornare a casa di corsa, senza salutare nessuno. Cominciai a canticchiare una rumba di Camaron de la Isla: " Volando voy, volando vengo, vengo… ˮ.

    Era tutto il giorno che aspettavo quel momento. Mancavano solo pochi giorni al mio trentesimo compleanno.

    Dopo una decina di minuti lo raggiunsi alla cassa, come mi aveva detto. Era seduto sullo sgabello che c’era dietro il bancone. Io rimasi in piedi. Lui estrasse dalla tasca della giacca un pacchetto di chewingum alla menta e me ne offrì uno.

    «Bene, bene. Allora… avevamo pattuito trenta euro al giorno. È così, giusto?» mi domandò, come se già non lo sapesse.

    Io annuii con il capo e lui incominciò a contare le banconote: Cento, duecento… (trenta euro sono pochi, lo so, ma il lavoro non era pesante; e poi, a quei tempi, non era così facile trovare qualcosa).

    «Qui ci sono ottocento euro, più cento euro come extra per il tuo impegno. Sei stato bravo» mi disse Alfredo, e adagiò una piccola mazzetta sul bancone.

    Mi lasciò un po’ spiazzato, poiché l’avevo sempre considerato un po’ tirchio, anzi molto tirchio. Bene, dirò che era la persona più taccagna che avessi mai conosciuto. Però è anche vero che avevo sempre adempiuto a tutti i miei doveri con zelo, senza considerare che una giornata lavorativa di otto ore veniva retribuita - di solito - con quaranta euro. Questo era il minimo sindacale. Quindi, se avesse dovuto pagarmi come doveva, nonostante quelle cento euro di extra, avanzava ancora qualcosa. Ma non volli essere venale fino a quel punto, andava bene così.

    Notai che sul suo volto era comparso un sorriso quasi beffardo, come un ghigno neanche troppo celato, tipico di quelli che fanno una buona azione e se ne compiacciono, auto adulandosi tacitamente per la loro magnanimità. Quale che fosse il motivo di tanta generosità, in quella situazione, non mi sarei messo mica a lambiccarmi il cervello sul perché mi avesse dato un extra. Accettai di buon grado e pensai che qualche spicciolo in più non poteva che essermi utile.

    «Grazie, grazie, non dovevi. Comunque sono stato bene qui, ti ringrazio molto. Ci vediamo sicuramente in giro, Alfre’» gli dissi, dandogli una pacca sulla spalla, e andai dall’altra parte a cambiarmi.

    Non avevo nessuna intenzione di trattenermi oltre il dovuto in qualche stupida conversazione su questo e quello, avevo solo voglia di fumare una sigaretta e tornare a casa per comprare il mio biglietto online .

    Sì, l’avevo già deciso da molto tempo.

    Per essere più precisi fu esattamente lo stesso giorno che trovai lavoro al ristorante. Proprio quel giorno incominciai a fare certi programmini che mi avrebbero portato chissà dove.

    Dunque, andai di corsa a cambiarmi e salutai Alfredo.

    Il dottore era ancora seduto al tavolo, stava sorseggiando del vino. Ci salutammo tacitamente, con un cenno del capo. Alina e Olga erano uscite senza che me ne accorgessi e non sapevo se fossero uscite solo per un momento o se fossero andate a casa. Ma non mi importava molto, avevo altro per la testa, e me ne andai.

    Arrivai a casa dopo circa venti minuti.

    Quel silenzio sepolcrale,

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