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Il dio sordo - Mia immortale amata
Il dio sordo - Mia immortale amata
Il dio sordo - Mia immortale amata
E-book976 pagine12 ore

Il dio sordo - Mia immortale amata

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Info su questo ebook

La Musica è il destriero cavalcato dall'Anima per viaggiare nel Tempo. L'anima di un giovane del XXI secolo viene risucchiata indietro nel Tempo dall'irresistibile potere della Musica, finendo nel corpo di un coetaneo della Vienna del 1808. Qui il protagonista assiste al leggendario concerto in cui Beethoven presenta la sua Quinta, entrando poi nelle sue grazie fino a diventare il suo servitore. Attraverso di lui, sullo sfondo storico fine-epoca-napoleonica/Restaurazione, viviamo le vicende di Beethoven: l'amore segreto, una donna che ha rapito il suo cuore ma che è ella stessa prigioniera di convenzioni e legami familiari; la passione per la Musica, dall’ispirazione che egli trova nella sua cara Natura, allo scrittoio dove forgia melodie e orchestrazioni, ai teatri dove a volte viene acclamato e altre deve fronteggiare la perplessità di un pubblico disorientato da una musica troppo precorritrice; l'inesorabile decorso della malattia, con improvvise speranze di guarigione e puntuali delusioni, fino alla struggente rassegnazione; i travagliati rapporti con la famiglia, tra gli attriti coi fratelli, l’odio “immotivato” per la cognata e l’amore incondizionato per il nipote, passando attraverso faide private e legali; e infine le sue paure di uomo, l’impotenza di fronte al Destino, la voglia di combatterlo e la speranza di vincerlo.

L'aspetto più importante è che questo libro è scritto per chi ama la lettura. Non bisogna essere ferrato in musica o un idolatra di Beethoven per apprezzare questa storia. E' un romanzo per chiunque voglia leggere di una bella avventura.

Inoltre questa non è una biografia “romanzata” nel senso che gli eventi sono stati inventati, ma nel senso che quelli comunemente narrati dalle biografie sono stati sceneggiati, dando cioè ampio spazio ai dialoghi e permettendo ai personaggi di interagire tra loro come in un film. Il Narratore – che è anche un personaggio della storia – diventa così una sorta di filtro, una macchina del tempo che permette al lettore di vivere le situazioni in maniera diretta.

La Musica è una “porta magica” che non solo collega Realtà e Sogno, Passato e Presente, ma rende immortali gl’intimi pensieri e i reconditi desideri lasciati a lei in eredità da Beethoven, un'eredità che Essa elargisce sottoforma di emozione solo a chi sa ascoltarla.

15 illustrazioni originali, a colori, completano l’opera raffigurando Beethoven e gli altri protagonisti in alcuni frangenti della storia.

Book trailer: http://www.youtube.com/watch?v=bAOPSTX-U58

Recensione radiofonica: http://www.youtube.com/watch?v=uFBZ9u49lug
LinguaItaliano
Data di uscita5 lug 2013
ISBN9788868551742
Il dio sordo - Mia immortale amata

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    Anteprima del libro

    Il dio sordo - Mia immortale amata - Antonio Scotto Di Carlo

    PREFAZIONE

    Questo lavoro, che ha le dimensioni del romanzo ma l’agilità di un lungo racconto, si svolge su più piani. È narrazione di vicende ma anche diario intimo, saggio e fiaba, realismo e sogno, logica e magia, volontà e destino. Il tutto scaturito dalla musica, da una suggestione musicale e dall'ammirazione per un celebre compositore.

    Differenti sono anche i livelli letterari della sua prosa che si distingue per spontaneità e naturalezza.

    L'alternarsi, da un lato, di un linguaggio parlato, attuale, informale, diretto, dalla gergalità corrente, con un lessico e con moduli linguistici ricercati quando non desueti non disdegnando citazioni eterogenee, talora fugaci talaltra più articolate, che vanno dal cinema d'evasione, al motteggiare pubblicitario, ai classici della letteratura e l'indugiare proustianamente, dall'altro, a digressioni o puntualizzazioni culturali, estetiche, filosofiche, danno vita a una prosa singolare, eclettica, trasversale, effervescente, un po' naif e insieme un po' scolastica, ma certamente fresca e vitale. In un certo modo quest’opera è la metafora del sapere moderno, inteso come contenitore di alternative culturali, come caleidoscopico riepilogo, come cocktail di trasversalità.

    Procedendo nel racconto la prosa diviene più serrata, l'azione più dinamica, e il dialogo costituisce l'elemento preponderante della narrazione rendendola viva e stringente.

    Entra poi in campo un nuovo elemento, la musica, presentata non già in modo generico, ma con riferimenti precisi e circostanziati alla scrittura, alla strumentazione, agli interpreti. È questa una caratteristica singolare, certo specifica e in qualche modo colta, ma il suo svolgersi è abile, cioè opportunamente frammentato, misurato, discreto, leggero, eppure coinvolgente nella sua appassionata estemporaneità.

    Quest’opera si può leggere in più modi, con più disposizioni d’animo e di pensiero: come racconto fantastico di evasione, come romanzo storico, filosofico, amoroso, come appassionato tributo alla musica romantica, persino come fonte per una pièce teatrale e, a suo modo, anche come biografia.

    Ci sono tanti modi per scrivere una biografia.

    Una biografia può essere rigorosa, analitica e comparativa di documenti e testimonianze. Oppure può avere un taglio celebrativo, agiografico ed enfatico. Può essere volta alla ricerca di riscontri oggettivi o intesa ad alimentare il mito.

    Nel caso di questo Beethoven, immaginato e romanzato nella sua quotidianità, si percepisce che lo scrittore non è motivato dallo scopo di identificare una verità storica e neppure dall’intento, così spesso esaltante quanto capzioso, di consacrare il personaggio, di farne un feticcio, ma piuttosto dall’amore per la sua musica.

    Il vero protagonista di quest’opera, il suo motore originario , è la facoltà evocatrice dell’Arte, intesa come forza che travalica le barriere del Tempo, l'aetas dei latini, e ne disinnesca il ruolo tragico e vanificante.

    Al di là della sua prosa, estemporanea, disinvolta e improntata al linguaggio corrente, al di là dei dialoghi semplici e diretti, incalzanti e briosi, al di là del vivido realismo della narrazione, oltre le citazioni e gli accostamenti a modelli letterari, questo romanzo è un luogo della mente, dove l’immaginazione e i dati storici, lo zelo filologico e la più spudorata e candida invenzione riescono, straordinariamente, ad entrare in sintonia e a fondersi.Questo è forse l’aspetto distintivo e più originale del romanzo.

    Luciano Domenighini

    a Claudio Baglioni

    Il cavaliere bianco e nero

    che camminando le vie dei colori

    ha preso una luce anche per me

    e

    a Franco De Angelis

    Non so cosa significhi avere un padre

    ma se posso almeno farmene un’idea...

    Grazie dottò!

    Ringrazio Peppe De Martino, Alberto Sposito e Roberto Sonaglia per il preziosissimo aiuto offertomi in segno di amicizia.

    Ringrazio la professoressa Mirella Aiello per l’affettuosa disponibilità nei confronti del suo ex alunno.

    PREFAZIONE

    PARTE PRIMA

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    PARTE SECONDA

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    PARTE TERZA

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    PARTE QUARTA

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Il dio sordo – IX

    Citazioni canzoni di Claudio Baglioni

    Sitografia:

    Bibliografia:

    PARTE PRIMA

    Capitolo 1

    Il cielo mi fissava con i suoi occhi onniscienti, splendenti di un azzurro vivo che imprimeva la sua tonalità alle acque di quel mare sconosciuto, mentre una nuvola gonfia di serenità lo attraversava sospinta dal vento; appena si dileguò, io, steso su una panchina, mi soffermai a scrutare l’immensa volta cercandone un’altra che venisse a passeggio a ore dodici. Ma all’orizzonte, nulla. Guardavo invano in ogni direzione, come chi tenta di scorgere l’amico tra la folla che scende da un treno appena arrivato. Eppure la porzione di cielo perlustrata era molto vasta, possibile non ce ne fosse una? Dovetti rassegnarmi a una lunga, forse vana attesa, e mi abbandonai alla lene armonia del silenzio.

    Quando riaprii gli occhi, tre nuvolette e una sorella maggiore erano come emerse dagli abissi dello spazio, formando un piccolo arcipelago. Da dove saltavano fuori? Un minuto prima avevo setacciato con zelo la superficie celeste visibile senza notarne traccia. E rivolgendo loro lo sguardo momentaneamente distratto da queste riflessioni, scoprii che ne era rimasta una soltanto, più grossa e di una foggia affatto diversa da quella che mi pareva di ricordare. Quando era mutata? Di sicuro intanto che ci ragionavo. E adesso? Dov’è finita? Dissolta, come gli anelli di fumo che incantano i bambini. Mi rimisi allora in fase di attesa.

    Provai ancora a registrare in un’immagine mnemonica la nascita di una nuvola, però mai fui capace di cogliere l'istante, poiché la concentrazione soccombeva sotto gli incessanti assalti della distrazione.

    Ma torniamo al mare sconosciuto.

    Fissavo il cielo. In esso avevo appena ritrovato quella sterminata distesa d’acqua ammirata dalla rupe a strapiombo conquistata in bicicletta e dalla quale, proprio sotto di me, avevo notato uno scoglio cui la bassa marea scopriva il capo, perfetto per riprendere fiato dopo lo strepitoso tuffo che mi accingevo a eseguire.

    Ero quel giorno steso sulla panchina di una terrazza aggettante su un altro mare – questo, conosciuto –, stranito già prima che le nuvole mi disorientassero. Poche ore prima avevo deciso di fare un lungo giro con la mia bicicletta da corsa e, indeciso sulla destinazione, mi era sovvenuto di quella rupe la cui reminiscenza aveva suscitato in me grande gioia – l’ultima volta vi ero stato bene.

    Stabilita la meta ero salito in sella e, agganciati i pedali, ero partito sotto il sole cocente di quell’afoso pomeriggio di luglio.

    La cosa inquietante era stata che più avanzavo, più mi andavo smarrendo nella certezza del percorso.

    ‘Eppure qui a destra dovrebbe esserci una svolta che sale’ mi ero detto vedendo nella mente la rupe, ma questo dubbio si schiantava contro la realtà di una via che era sempre stata – e rammentavo che lo fosse – pianeggiante e senza diramazioni.

    E il bivio per la mia rupe? In testa conservavo una piantina circostanziata del posto, ma la realtà la smentiva metro dopo metro.

    Incapace di scovare quel posto, avevo desistito e mi ero diretto verso la terrazza in cima alla collina.

    Solo quando fui a faccia a faccia col cielo mi resi conto che quel luogo lo avevo sognato. Un sogno camuffatosi da ricordo. La salita, la rupe, l’idea del tuffo, lo scoglio e quel mare, tutto incredibilmente vero ma inesorabilmente virtuale, e per un po’ mi ero sentito come il figlio del Re di cui Calderon narra le vicende.

    Ormai il desiderio di emulare Pantani era svanito con le nuvole, così mi alzai dalla panchina e me ne tornai a casa.

    Lungo la strada accadde un fatto inconsueto: fui affiancato e sorpassato da una femmina. Sovente in quel circuito urbano si trovano ragazze in mountain-bike, ma quella su una bicicletta da corsa era un’araba fenice. Siccome la solitudine rappresenta il nemico più ostico dei ciclisti – amplifica le sofferenze di fatica e sellino… –, quando s’incontra qualcuno, si tenta di accodarsi e proseguire assieme; spesso non ci si conosce neanche e s’ingaggiano delle tacite sfide che, se non altro, fanno dimenticare stanchezza e scomodità. Tuttavia, per non apparirle quale il solito maschio ‘sbavante’, le restai a una ventina di metri programmando di riagguantarla al ritorno, quando il falsopiano si percorre in discesa.

    Fatte tre curve, non la vidi più. Innestai un rapporto duro e cominciai a macinare pedalate. Nell’aerodinamica postura di cronoman spingevo come un forsennato, ma la sua sagoma non ricompariva.

    ‘Avrà cambiato strada’ mi rincuorai dopo cinque intensi minuti e, ansimando come un asmatico, ripresi la mia andatura compassata.

    All’improvviso invece sbucò dall’angolo, volandomi incontro nella corsia opposta come una valchiria sul suo destriero d’alluminio. Era una brunetta molto carina, in completino attillato blu cobalto, sulle cui labbra splendeva un sorriso beffardo, non so se per l’umiliazione agonistica inflittami o per lo stupore che mostrai lasciando la bocca aperta sotto gli occhi sgranati. Per timore di non riacciuffarla, accorciai il percorso e affidai alla mia muscolatura più possente il compito di raggiungerla lungo il falsopiano in discesa.

    Restammo insieme oltre due ore, senza mai parlarci e badando a rimanere incollati, io alla sua ruota nell’andata – era forte – e lei alla mia nel ritorno. Pur sfinito, mi stavo divertendo un mondo, sebbene chi non pratichi il ciclismo possa trovare incompatibili termini come divertimento e fatica.

    Poi lei si avviò per una salita vera. Sollevandosi sui pedali, i polpacci solidi e sudati le si tesero in quel sinuoso movimento dei grimpeur e le rotondità aderenti al pantaloncino azzurro si delinearono in tutta la loro sensualità. Provai a starle dietro, adesso sì sbavante, ma il mio peso mi fece perdere rapidamente fiato e terreno; per cui, al primo curvone rilassai muscoli e polmoni, girai la testa al cavallo e mi lasciai andare rassegnato per quei cento metri d’asfalto appena scalati. Alzai lo sguardo avvilito per godermela un’ultima volta: pure lei si girò e, in quel brevissimo momento, mi parve di cogliere sul suo viso un lampo di tristezza per il mio forfeit.

    Questo piacevole imprevisto, mi coinvolse al punto da farmi scordare dell’impegno che avevo quella sera.

    Festeggiavamo il primo anniversario del diploma, e alcune compagne avevano organizzato una di quelle riunioni-rimpatriate volte a disseppellire la parte di sé che il cambiamento di vita ha insabbiato sotto un presente nel quale essa sussiste solo in forma di ricordanza o nostalgia.

    Ognuno si reca a questi incontri con uno spirito particolare. C’è chi anela di ostentare i propri successi, chi spera di rivivere quel passato, chi si augura di ritrovare vecchi corteggiatori e chi ha il bisogno quasi fisico di spettegolare; quanto a me, desideravo soltanto ritrovare amici e amiche con cui avevo trascorso bei momenti.

    Di solito tendevo a eludere occasioni del genere, non perché fossi troppo introverso, ma per un profondo disagio verso il dialogo che non nasce spontaneo, come quando incappi in un vicino con cui hai rapporti di pura cortesia e che per cento metri fa la tua stessa strada.

    Sebbene non mantenessi più contatti con nessuno di loro, diventavo ansioso di rivederli al pensiero di respirare ancora una volta l’aria dei clan. Nelle classi spesso si creano due clan: quello dei ragazzi belli e scapestrati che non sono però prodigi d’intelligenza e applicazione, e quello delle virtuose e sensuali maliarde, ordinate e studiose, ma anche un po’ vanesie; ci sono poi gli outsider, ossia coloro cui manca qualcosa per diventare membri dei clan. I tipici outsider che il caso colloca con infallibile precisione in ciascuna classe sono: la secchiona, la brutta e antipatica, l’anacoreta, la brutta ma simpatica, il ciccione, l’organizzatrice tarantolata, lo scemo del villaggio e il brutto ma simpatico-intelligente. L’istinto spinge ognuno di questi ad accasarsi nei clan; tuttavia ciò non è sempre possibile, e a chi fallisce non rimane che associarsi in un circolo minore, ‘gli interessati all’apprendimento’, con la valida ma mendace motivazione che dopotutto si va a scuola per imparare. Io potevo definirmi un outsider sui generis, essendo intelligente e simpatico, ma che il soprappeso rendeva brutto e incline all’autoemarginazione. Forse fu per questa mia peculiarità che fui accettato nel clan dei belli e trattato dalle belle manco fossi il loro mentore.

    Per i compiti in classe i professori delle materie tecniche usavano dare tracce diverse per ogni fila onde impedire ogni collaborazione tra i compagni di banco; nelle due ore a disposizione, però, io svolgevo sia la mia che quella del mio vicino e da noi partivano i fogliettini per aiutare il resto del gruppo. E tutto nasceva da me! Così, per una sorta di tacito e affettuoso baratto, c’era chi mi portava in vespa, chi m’invitava a casa sua per giocare e chi durante le feste in discoteca mi rimaneva un po’ accanto poiché, in rispetto della decenza, preferivo non trascinare le mie poderose membra in pista. Insomma stavamo bene insieme, ci completavamo a vicenda ed eravamo accomunati da un’irresistibile simpatia. Venivo escluso solo quando i due clan socializzavano teneramente tra loro; in fondo però, era giusto, rimanendo io un semplice affiliato, sprovvisto dei requisiti vitali per aspirare a una bella. Ma a me poco importava, dato che il mio cuore era altrove.

    Con questo stato d’animo mi apprestavo a vivere quella serata speciale.

    L’appuntamento era fissato per le otto in Piazza Torquato Tasso. La mia intenzione sarebbe stata di arrivare con un ritardo intorno ai dieci minuti, avendo constatato in precedenti uscite come i puntuali e, peggio ancora, quelli che si anticipano divenissero spesso e volentieri oggetto d’ironia; ma l’avventura ciclistica con la brunetta mi aveva fatto attardare oltremisura.

    Rimasi lì per un po’ non sapendo neanch’io in cosa sperare (i telefonini non erano ancora estensioni di sé), mordicchiando nervosamente la piccola ancora d’oro della mia catenina e consolandomi nella ‘disamina’ delle ragazze agghindate che sfilavano per la piazza, specialmente quelle snelle in camicette e minigonne.

    Quando scoccarono le nove, rinunciai e mi risolsi a fare una passeggiata solitaria. E chissà che non avessi rincontrato quella moderna Brunilde, magari in abiti più femminili – la passione sportiva che ci accomunava sarebbe stata un’ottima scusa per attaccar bottone.

    Nei pressi della chiesa di San Francesco, notai sul sagrato una fila di persone che si dirigeva verso il tavolino dal quale la mia amica Angela espletava le sue mansioni di bigliettaia con la macchinalità del doganiere che pretendeva da Troisi 1 fiorino per ogni sconfinamento.

    Eh! feci dopo averla affiancata di soppiatto.

    Le prese un colpo. Poi mi sorrise.

    Era una giovane donna dai capelli corti e biondi, mingherlina, nei cui occhi turchesi brillava quel guizzo di vitalità che tanto affascina. L’avevo conosciuta l’estate precedente, in quel medesimo posto, allorché acquistando il biglietto per assistere al concerto di una famosa orchestra romana che si sarebbe esibita nel chiostro della chiesa, avevamo avuto modo di parlarci. Fino a quel giorno c’eravamo scambiati soltanto qualche occhiata di curiosità ogni volta che le passavo davanti durante le sue ore di prevendita, essendo io l’addetto all’ascensore per il Leonelli’s beach situato all’interno del giardino pubblico attiguo alla chiesa. Da lì era nata un’amicizia fondata sulla mutua collaborazione – io la rifornivo di monete e banconote di piccolo taglio per dare il resto, e lei mi lasciava entrare senza biglietto quando il programma ben si sposava coi miei gusti.

    Come va, tutt’a posto?

    Credimi, non li reggo più. C’è sempre chi ha da chiedere o da ridire aggiunse riferendosi agli spettatori.

    Abbassa la voce! bisbigliai, paventando che la sentissero.

    No, questi sono tutti paganti… Turisti stranieri specificò, poiché non avevo colto la finezza.

    Sai che devi fare? Appena inizia lo spettacolo, spranga le porte e appicca il fuoco.

    Eh, se penso che devo stare qui altre tre ore, è meglio prenderla a ridere.

    Mettici un pupazzo con un registratore, tanto ti tocca dire ogni volta le stesse cose.

    La coda si era esaurita.

    Quasi quasi ci faccio un pensierino.

    "Piuttosto, mia angelica creatura dagli occhi azzurri e i biglietti omaggio, chi c’è stasera?"

    Un quartetto di Bari tra i più rinomati qui al Sud rispose con tono professionale, dando una contatina all’incasso.

    Ce l’hai un programma?

    Me lo indicò sul tavolino e potei leggere:

    Ludwig van Beethoven – Quartetto n.10 in Mib magg. op. 74 ‘Delle arpe’

    Franz Schubert – Quartetto n. 14 in Re min. ‘La morte e la fanciulla’

    Johannes Brahms – Trascrizione per quartetto d’archi di 5 danze ungheresi.

    Alla faccia! Veramente mi fai entrare?

    Mica scherzo.

    Uà, grazie.

    È il minimo per il mio cambiavalute ufficiale.

    A proposito, nell’ascensore c’ho un sacco di mille lire. Ti servono?

    No, non ti preoccupare. Ormai sta per cominciare, e se vendo altri cinque biglietti è pure assai.

    Beh, allora io vado. Ci vediamo dopo.

    Buon divertimento.

    Oltrepassata indenne la ‘dogana’ delle maschere, mi diressi verso l’estremità esterna della fila anteriore, in modo da gustarmi la musica da vicino senza il patema di oscurare la visuale a chi mi stava dietro.

    Il lieto parlottio degli spettatori già accomodati – per la maggior parte eleganti persone di mezza e terza età – si temperava alla frescura illuminata dai riflettori, rendendo quella serata più gradevole di quanto già non fosse. Per fortuna, il ‘mio’ posto era ancora libero.

    Dopo aver dato una scorsa al programma guardai l’orologio: come è solito avvenire negli spettacoli, si era in ritardo.

    Nemmeno tre minuti e già cominciai a soffrire quella scomoda sedia di plastica cui la mia mole mal si adattava.

    Mentre mi contorcevo nella ricerca di una posizione, mi capitò di alzare lo sguardo e di notare una grossa nube di ovatta grigia che si stagliava su un cielo non ancora scuro; subito mi si proiettò nella mente lo strambo pomeriggio di riflessioni, realtà, incertezze e sogno, e ritornai sereno, in quel serafico candore che solo la contemplazione della natura sa ispirare.

    Perduto tra le stelle di quel meraviglioso firmamento venerato per millenni da infiniti occhi supplicanti carità celesti, meditavo sul Tempo.

    Per dare al Tempo consistenza o per illudersi di poterlo in qualche maniera ingabbiare, l’Uomo ha iniziato a conteggiarlo finché gli è diventato indispensabile contrassegnarlo con l’etichetta dei periodi storici. Cosa accadrebbe però se, addormentatici nel caro lettuccio, ci risvegliassimo su un’isola disabitata che la Natura ha conservata intatta? Saremmo in grado di desumere una data almeno approssimativa? Potrebbe essere il 1995 o il 2595. E perché no il 440 a. C.? E mentre ci scervelliamo per capirci qualcosa, ecco che si fa largo fra la vegetazione un imponente brontosauro che non ci nota nemmeno. D’incanto comprenderemmo quanto poco la consuetudine di nomare i mesi ed enumerare gli anni abbia a che spartire con l’essenza del Tempo, e quanto siamo simili a quei megalomani che dopo un’effimera immersione s’illudono di aver appreso i segreti dell’oceano. Ma per l’Uomo è basilare avere cognizione di tutto, così Erodoto e via via gli altri hanno registrato gli avvenimenti della propria epoca. Fu Guerra e Pace a instillarmi il sospetto che i fatti potrebbero non essersi svolti come i testi di Storia affermano. Da pigro studente qual ero, mi limitavo a imparare la lezioncina con l’unico scopo di rimediare una sufficienza, considerando inconsciamente il libro più un copione recitato da burattini che la narrazione della vita di popoli vissuti su questa stessa terra. Leggendo Tolstoj me ne resi conto e ogni personaggio si trasformò d’un tratto in uomo, sensibile alla gioia e al dolore come all’ambizione e all’ingiustizia, e mi sconvolse pensare a Napoleone non come l’eroe che avevo sempre ammirato, ma come un sanguinario invasore, notando di conseguenza quanto la Storia vari a seconda della nazione in cui viene insegnata. Inoltre, l’esistenza di più versioni del medesimo fatto stride inconciliabilmente col concetto di verità, e poiché neppure nel nostro avanzatissimo secolo è possibile – tranne forse che per i partecipanti – farsi un’idea di come si sia realmente svolto un fatto, dall’origine all’epilogo, passando per gli episodi del mezzo, mi veniva da sorridere della solennità con cui ci viene proposta la Storia. Esiste un solo testimone credibile, e non è Dio, avendo anch’Egli il Suo bel daffare nel dimostrare la Propria Paternità ai Musulmani, nel difendersi dall’escalation di Buddha e nel persuadere coloro che si ostinano a negare la Sua esistenza. Il testimone assoluto è quel Cielo ubiquo, disinteressato alle umane vicende, cui nulla è mai sfuggito. Quante cose cambierebbero se potesse parlare! Ma la realtà è che seppure vi riuscisse, noi troveremmo ragione e modo di imbavagliarlo.

    Un incipiente crepitio mi distolse dal mio raccoglimento: erano gli applausi liberatori che accoglievano i musicisti. Si apriva con Beethoven, e dalla nota sul programma appresi che quel quartetto era denominato Delle arpe per gli ostinati pizzicati del primo movimento. Conoscevo quell’opera e ne apprezzavo tantissimo il terzo tempo tumultuoso. Non vedevo l’ora di ascoltarlo. Riposi il programma nella tasca dei jeans, l’immancabile ritardatario prese posto, le luci si abbassarono e la musica ebbe inizio.

    Man mano che il pezzo fluiva dagli strumenti alla mia anima, venivo sopraffatto sempre di più da quel primo movimento che m’irretiva con le sue melodie flautate, smorzando l’attesa per il terzo. Dopo l’esposizione e lo sviluppo dei due temi, si arrivò alla ripresa (ossia l’ultima delle tre parti in cui è suddiviso il primo movimento di un quartetto). Non me ne capacitavo eppure, nonostante mi fosse passata per le orecchie decine di volte, mai avevo colto la grandiosità della coda finale.

    La magia stava tutta nella simultaneità dei suoni. Il primo violino era partito con delle note rapidissime e simmetriche, senza una sola pausa che le intervallasse; nel frattempo la viola intonava una frase malinconica, di una dolcezza disarmante, che prima di ripetersi su un altro accordo lasciava l’ultima nota protrarsi per un’intera battuta; nel frattempo il secondo violino riproduceva l’identica frase della viola proprio sulla battuta in cui la viola si soffermava sulla nota prolungata, e quando il secondo violino giungeva anch’esso su quest’ultima nota, la viola ricominciava il sublime dialogo; nel frattempo il violoncello s’intestardiva in pizzicati che da gravi diventavano gradualmente acuti, ripartivano dalle note basse e tornavano su. In pratica il passaggio durava meno di un minuto, ma in esso risuonavano centinaia di note, ognuna delle quali conservava posto e funzione in un’architettura trascendentale.

    Con gli occhi ammaliati e allibiti sul primo violinista, eretto, asciutto e brizzolato, che in controluce assumeva un’austerità divina in quell’impetuoso e inarrestabile incesso virtuosistico, provavo a distinguere il canto di ciascuno strumento nel formidabile ordito musicale. Era come se Otello (I violino), Giulietta (II violino), Romeo (viola) e Amleto (violoncello) declamassero all’unisono le loro battute, ma anziché un caotico vocio, si udiva un’armonia in cui si discernevano chiari i versi, e l’ascoltatore riusciva a cogliere l’ira del Moro intrecciata ai dubbi del Principe nel medesimo istante in cui gli acerbi amanti si giuravano amore eterno, mantenendo la coscienza che ciascuno di essi viveva la sua storia correndo incontro al proprio rovinoso destino. Tutti e quattro recitavano nella stessa tragedia, come se per incanto si fossero ritrovati insieme in un giardino dopo esser fuggiti dalle romantiche prigioni in cui il Bardo li aveva rinchiusi. Questo era ciò che quella magnifica coda sembrava descrivere.

    Scombussolato dall’inattesa e violenta implosione di sentimenti innescata da questa musica eccezionale, levai lo sguardo stravolto verso il cielo. Si era offuscato. Un vento mefitico prese a opprimermi l’olfatto e le braccia s’intirizzirono, mentre brividi mi battevano nelle reni come sferzate. La terra ribolliva sotto i piedi come la lava in un cratere. Volevo alzarmi e filarmela, ma le ginocchia si erano ossidate come paralizzato restava l’intento dinanzi alla compostezza di tutti gli altri.

    ‘Ma questi non si accorgono di niente?’ pensai tra me quando il suolo parve scuotersi.

    Ma che vi prende, non vedete? sbraitai, rizzandomi a fatica, Il terremoto!

    Un devastante dolore dalle viscere al torace mi piegò in due, come se l’intestino fosse scoppiato. La saliva mi colava dalla bocca, con sudore e gemiti che si fondevano nei miei tremiti di paura. L’affanno non mi consentiva di raddrizzarmi. Ogni respiro, una fitta. Una larga crepa si aprì tra me e il palco: sgranai gli occhi e, perdendo l’equilibrio, vi caddi dentro come attirato da una forza incontrastabile.

    Poi, silenzio.

    Quando i sensi stettero per tornare, avvertii subito di trovarmi supino per terra.

    Aprendo gli occhi non vidi alcunché. Era tutto buio.

    Lentamente cominciai a percepire lo spazio intorno a me. Su di me. Adesso distinguevo il cielo, un cielo spoglio di stelle, ma piantonato da grossi e statici banchi di nubi. Dall’inconfondibile odore, dovevo languire nell’erba bagnata. Però non stava piovendo. Mi sollevai e, coi denti che battevano frenetici come il cuore, presi a guardarmi in tondo, trepidante e terrorizzato nell’ignoto. Di nuovo vedevo tutto nero.

    Dove diavolo ero capitato? Dove mi avevano portato?

    Con le mani rattrappite dal freddo e le gambe che traballavano per l’apprensione, iniziai a rendermi conto del luogo non appena le pupille si adattarono all’oscurità.

    Camminavo incerto e circospetto, con piacevole e insolita leggerezza, attento più a non venir sorpreso da un presunto aggressore alle spalle o ai fianchi che a curarmi di dove stessi andando. Cercai l’ancora d’oro, palparla con le labbra mi avrebbe aiutato a sopportare la tensione. Non c’era. E la catenina, me l’avevano rubata. Subito la mano corse al portafoglio. Sparito anch’esso.

    In quel silenzio che le tenebre esasperavano, trovavo sostegno solo nel calpestio dei miei passi, anche se ogni tanto gli orribili versi di chissà quali mostruose creature e il terrore – là dove udivo rumori tipo il grattare – che qualche topo di campagna mi morsicasse i piedi, mi stringevano i polmoni in un cappio.

    Cominciò a piovere. Sperai che i lampi mi ridessero la vista, ma si trattava di un semplice acquazzone. Almeno in principio, dato che dopo pochi minuti dei bagliori rischiararono l’aria e colorarono l’ambiente; tuttavia non potei soffermarmi a ‘fotografarlo’ poiché tuoni spaventosi, rimbombandomi nello stomaco come arance gettate in un pozzo, mutavano in tremito ogni abbozzo di pensiero.

    Mi ci volle un po’ per riavermi.

    Un forte vento iniziò a soffiare e ai flash dei lampi si unì la luce della Luna. Potei capire di trovarmi in una radura, sebbene l’anima seguitasse a dibattersi nel panico come i piedi nell’acquitrino.

    Corsi fino alla boscaglia che intravedevo a intermittenza sulla destra e mi ci addentrai.

    La tempesta non accennava a placarsi, così trovai opportuno ripararmi sotto un rovere che pareva offrirmi quel senso di protezione che dà un fratello maggiore.

    Lì, sentendo gelo e fifa penetrarmi le ossa, stabilii di aspettare il sereno e il giorno.

    Capitolo 2

    Quando mi ridestai definitivamente – non dormii granché, sobbalzando più volte ai rumori della natura e dell’immaginazione –, un timido sole filtrava tra i rami, e dall’alto cadevano giù a turno le gocce di pioggia attardatesi a riposare sulle foglie.

    Avevo ancora negli occhi il terrificante sogno appena fatto: affacciato alla ringhiera della Villa di Sorrento, avevo assistito alla tremenda eruzione di quel Vesuvio per anni contemplato nel suo riposo, respirando la paura di uno spettacolo favoloso e infernale, con lapilli che conquistavano il cielo come fuochi d’artificio.

    I panni fradici, stinti e irriconoscibili, gli stivali sudici e l’aria probabilmente stranita dovevano conferirmi l’aspetto di un pezzente.

    Meno male che per la riunione avevo sistemato la barba.

    ‘Già, la riunione! Mi dovevo incontrare con… no. Il concerto! Poi c’è stato il terremoto, e il Vesuvio… ma quello era il sogno. Oddio!’ e mi portai la mano alla fronte, poiché proprio non mi raccapezzavo.

    Uscito dalla fustaia forse da una direzione diversa da quella da cui c’ero entrato, mi ritrovai in una brughiera. Da nessuna parte scorgevo l’ombra di un sentiero né tantomeno riconoscevo il posto. Un sole pallido, che non riscaldava affatto, parve rendere le cose in un certo senso più chiare, poiché gli stracci che indossavo, non erano i miei. E gli stivali? Quando mai avevo portato gli stivali! Guardando in giù feci un’ulteriore inquietante scoperta: la grossa pancia, non c’era più.

    ‘Che diavolo…’

    Quante volte avevo sperato di svegliarmi e non ritrovarmi più addosso quell’odiatissimo lardo!

    ‘Miracolo! Miracolo? Ma che cacchio stai dicendo?’

    Così la Ragione incenerì l’estemporaneo e insano entusiasmo.

    Tirai via la camicia dai calzoni e scoprii il ventre per controllare. Non più strati mollicci ornati da peli e smagliature, ma un addome normale, con pelle liscia e sul quale si notavano pure labili tracce di muscoli.

    Il pensiero che fosse anche questo un sogno si fece largo immediatamente, ma l’ansia rimase ancorata a quel paesaggio ignoto e nitido. Infatti, non appena la coscienza trova un buco nel mondo sognato, si piomba nella disadorna anticamera del risveglio; invece ogni cosa intorno a me rimaneva definita e immutata. Io rimanevo immutato. Con uno sforzo di concentrazione tentai di scardinare quel fosco labirinto onirico: alitare su un incendio non avrebbe dato risultati migliori. Gli occhi caddero poi sulle mani. Non le riconoscevo più. L’orologio, il braccialetto d’argento, le unghie curate per suonare la chitarra, la delicatezza di dita affusolate che avevano maneggiato una penna o al massimo pigiato i pulsanti dell’ascensore, tutto sparito a vantaggio di due palmi tozzi e callosi.

    Spaesato e confuso, seguitai a ritenere il sogno l’unica spiegazione possibile e, aspettando di svegliarmi, ripresi il passo.

    Nell’aria non si udiva il caratteristico frinire estivo, ma solo sporadici cinguettii di uccelli isolati.

    Un’altra cosa che mi turbava era il freddo che ammantava quel luogo, benché la mia sensazione potesse essere falsata dai vestiti bagnati e dalla notte passata all’addiaccio.

    Dopo un po’ di girovagare senza meta, una via.

    ‘Dovrà pur condurmi da qualche parte.’

    Camminavo credo da un quarto d’ora, felice di sentirmi leggero ma scosso da quei mutamenti del corpo, quando vidi un barroccio trainato da due ronzini venire nella mia direzione.

    Scusate, sapreste dirmi dove siamo? chiesi con la maggiore affabilità possibile a quel curioso omino.

    Vas? e aggiunse qualcosa che non saprei riportare.

    Mi sono perso. Potreste darmi qualche informazione?

    Vas? e ripeté con tono seccato quella frase astrusa che pareva in tedesco.

    ‘E che ci fa un contadino (tale pareva dagli abiti) tedesco a Sorrento?’ pensavo, anche se il fatto allarmante – oltre alla sua espressione, che per certi versi rifletteva la mia – riguardava il suo atteggiamento, a tal punto naturale, così omogeneo con quell’ambiente mai veduto prima che ero io a sentirmi un intruso.

    Timoroso di reiterare la domanda, rimasi impietrito a fissarlo.

    Dopo aver brontolato qualcos’altro, egli tese le briglie e incitò gli animali a ripartire senza che potessi farci niente, tramortito com’ero da quegli strani eventi che stavano assumendo i contorni di un incubo.

    ‘Un sogno non è, altrimenti a quest’ora mi sarei svegliato. Ma allora che sta succedendo?’ e angustiato da questo interrogativo, andai avanti.

    Guardavo le mani, mi lisciavo l’addome. Era tutto così irreale. Surreale.

    Passati alcuni minuti, udii uno scalpiccio alle mie spalle e mi voltai. Un altro carro, con un altro contadino, stava per sopravanzarmi in quella strada polverosa.

    Gli feci cenno di fermarsi. Nel viso, questo pareva più disponibile di quell’altro. O forse era solo un’impressione dettata dal biondo rosseggiante dei riccioli e della folta barba.

    Scusate, siccome mi sono perso, sapreste darmi qualche indicazione?

    Vas?, seguito da quell’odiosa e indecifrabile frase fu la risposta.

    Sorrento? dissi cambiando strategia.

    Sorento?

    Andate a Sorrento?, ma egli seguitava a ripetere quel nome con una sola R.

    Sorrento, Napoli! esclamai tremando, presago di un infelice responso.

    Napole? Ja, Neapel. Italien! e scoppiò a ridere.

    La paura mi azzannò. Sin lì l’incertezza, per quanto atroce, aveva pur lasciato uno spiraglio alla speranza; adesso però, quel Neapel intriso di ilarità somigliava a una sentenza.

    Sì, fatti un’altra risata qua!

    Probabilmente non capì, ma l’indicazione della mia zona pubica e il tono usato dovevano essere stati abbastanza eloquenti, visto che diventò di colpo ostile, facendo per andarsene.

    No, no. Napoli, Italien! ripresi col sorriso sulle labbra, augurandomi che trovasse di nuovo comiche quelle parole.

    Per fortuna s’acchetò.

    Du e lo indicai a Neapel?

    Ich? In Neapel? e mi annichilì con un risata tanto spontanea da farmi sentire buffo più di un pagliaccio.

    Ja, Neapel… mormorai titubante.

    Oh main froint compitò cercando di adeguarsi al forestiero, ich in Vien.

    Vien? Vienna! Come Vienna? e trasecolai non meno che se fossi davanti a un marziano.

    Cercai di calmarmi, mentre egli pareva mi compiangesse per il mio stato confusionale.

    Qui indicai con terrore Austria? Come si dice… uhm, Osterrish?

    Ja, Usterraich.

    E come cacchio ci sono finito in Austria? balbettai sapendo già di non ricevere risposte.

    Il buon uomo dovette intuire il mio dramma poiché scese e, fissandomi con un’espressione dispiaciuta, mi poggiò una mano sulla spalla, come a darmi coraggio; poi, indicando me e in un secondo tempo il carro, fece: Vien?

    Non sapendo cos’altro fare, annuii e salii sul carro, sedendomi tra i sacchi senza dire altro.

    Durante il tragitto non riuscivo a capire come io, che in vita mia ero stato due volte a Roma e una a Firenze, potessi trovarmi a Vienna, senza neppure possedere il passaporto. E c’erano altre cose che non quadravano, a partire dai vestiti dei contadini che mi sembravano strani. Poi mi guardai di nuovo le mani, e a confronto tutto parve perfettamente sensato.

    Attendevo che a momenti quel sentiero campestre si ‘modernizzasse’, ma non mutò fino alle porte della città.

    ‘E l’asfalto? Le macchine? Le insegne elettroniche dei negozi? Allora la tanto celebrata Vienna non è poi così all’avanguardia! Ma forse è il lato antico della città’, pensai poi più realisticamente.

    Il mio smarrimento fu un po’ attenuato dai primi crampi a uno stomaco che non vedeva cibo dalla sera antecedente l’avventura in bicicletta; risolsi pertanto di fermarmi al primo bar e divorare una colazione abbondante come quelle di Trinità e Bambino. Ma come avrei pagato? Non avevo scellini, e chissà se avrebbero accettato le lire.

    ‘Ma quali lire?’ mi dissi guardando quei pantaloni che non erano i miei.

    Intanto eravamo entrati in Vienna da un po’, ma vedevo solo persone abbigliate in modo antiquato, qualche arrotino agli angoli delle strade, carrozze al posto di automobili e terra battuta anziché bitume.

    Ma sei sicuro che questa è Vienna? borbottai quasi fra me e me.

    Vas? e dopo che mi fui spiegato a gesti, Ja,Vien.

    Mi sembrava di vivere in un film.

    A questa impressione, l’inconscio richiamò il quesito di Troisi rivolto a un abitante del luogo, ‘Ma che, veramente siamo nel 1400?’

    Non poteva essere. Eppure tutto ciò che vedevo avvalorava questa conclusione.

    Davvero non mi restava che piangere, specialmente perché parlavo bene l’inglese e il francese, ma in tedesco conoscevo Ja, i pronomi e i numeri fino a dieci.

    Il carro si fermò e il contadino mi fece segno di essere arrivato. Il contesto rievocò un altro termine.

    Danke bittsce gli dissi supponendo di ringraziarlo, e gli tesi la mano.

    Ich Markus scandì stringendola, prima di allontanarsi col sorriso compiaciuto di chi ha fatto una buona azione.

    Rimasto solo, diedi un’occhiata in giro e mi misi a riflettere sulle mosse successive. Mi sentivo un pelo più tranquillo, malgrado lo sgomento per la deduzione – realistica nei fatti, ma inammissibile nella teoria – rimanesse inalterato.

    La priorità concerneva il ritorno a casa.

    Già, ma quale casa? Se effettivamente avevo viaggiato per quell’inesplorato condotto, non avrei neppure ritrovato la mia famiglia. Quest’ultimo però non era un tormento insopportabile, poiché gli zii disamorati coi quali vivevo di sicuro non mi sarebbero mancati. Allora perché era stato quello il primo pensiero? Forse l’istinto cercava un punto fermo in mezzo a quella grottesca e vacillante rappresentazione, e lo cercava nella ‘casa’, dove dovevano per forza esserci le radici di me.

    La mia indole ordinata m’impose di analizzare con calma lo stato delle cose e stilare una lista mentale degli obiettivi da perseguire: se non altro questa tecnica avrebbe conferito a ciascun problema la sua dose specifica di agitazione.

    In quel momento avevo fame e m’incamminai per quelle vie per me così anacronistiche.

    Il senso d’ansietà persisteva nel cuore e nella mente. Da solo, in un paese straniero, senza sapere come ci fossi arrivato, impossibilitato al dialogo e trapiantato (a quanto pareva) in un’epoca passata, tutto questo mi manteneva in una tensione che avvertivo a ogni respiro, come se mi stessero prendendo lo stomaco a calci ininterrottamente. E l’assenza della linea di mezzeria così come gli indumenti – signorili o poveri che fossero – dei passanti, i rumori ‘artigianali’ e l’aria fin troppo nature che inalavo non mi confortavano affatto.

    Appunto studiando un ragazzo intento a spingere un carretto, mi avvidi che i miei abiti erano simili ai suoi e che, come lui, riuscivo a mimetizzarmi nella calca. Il sentirmi squadrato da tutti, da ogni parte, era dunque un’errata percezione. Ciò alleggerì il cuore, anche se quella nuova sensazione di leggerezza che provavo a ogni passo, seppur gradevole, mi teneva in costante preoccupazione.

    Passando vicino a una bottega, l’inebriante fragranza del pane caldo mi s’incuneò fin nella gola e per qualche minuto mi scordai del resto. Come fare a procurarsene un po’? Optai per un mio cavallo di battaglia: la gente è di solito restia a concedere elemosine sottoforma di denaro, nondimeno dinanzi all’estremo cartello ‘Ho fame’, temendo forse di essere imbrogliata o attribuendo alla moneta un valore maggiore che alle cose.

    Ma vorrei vedere pontificavo con l’interlocutore di turno, "se uno di questi disgraziati entrasse in una pasticceria o in un supermercato questuando per una ciambella o una confezione di biscotti in scadenza, quale mostro gli rifiuterebbe uno delle migliaia di articoli da vendere?"

    Forte di questo ragionamento, strisciai le suole degli stivali su di un asse per ripulirli dal fango rappreso ed entrai.

    Là dentro, non v’era dubbio alcuno che gli sguardi dello stempiato panettiere e dei tre clienti puntassero su di me come i fucili di un plotone.

    ‘Sarà per i miei abiti sozzi.’

    Il piano era di impietosire il proprietario mettendomi in ginocchio, giungendo le mani in preghiera e indicando l’oggetto dei miei desideri, il tutto arricchito da un’espressione inconsolabile, contando sulla presenza dei clienti, agli occhi dei quali egli non si sarebbe certo coperto d’infamia.

    Le cose non andarono come avevo auspicato, dato che fui sbattuto fuori, evitando i calci grazie alla solerzia con cui me la diedi a gambe. Forse la mia strategia era produttiva solo nell’opulenta società occidentale del XXI secolo, non in un tempo dove forse i mendicanti superavano in numero i clienti.

    Mi sedetti su una colonnina di pietra lì accanto e, ripensando alla scenetta che mi aveva visto malcapitato, non potei fare a meno di ridermela. Un’ombra m’interruppe: una cliente della bottega, una vecchia signora, doveva essersi mossa a compassione poiché mi stava di fianco con una pagnotta in mano. Sentii i lineamenti tirarsi nel momento in cui me la porse con un sorriso materno e caritatevole.

    Mi disse qualcosa, ma ovviamente non afferrai.

    Danke mormorai, fissandola commosso.

    A volte ci si schermisce dietro un’aria sfrontata per non capitolare sotto l’insensibilità del prossimo; poi una semplice gentilezza, specialmente quando inattesa, infilza la corazza come uno spillone un cuscino. Ancora toccato dalla bontà di quella donna, mi appartai in un angolo della strada, distante dal viavai di gente.

    Intanto che grufolavo, mi chiedevo come mai la maggior parte della gente trova umiliante suscitare pietà, perché è per questa radice che chi la prova verso gli altri tende a negarlo, come sono sicuro avrebbe fatto la donna se le avessi saputo domandare ‘È perché vi faccio pena?’. Il timore di offendere. Alcuni addirittura preferiscono confessare di aver compiuto un gesto per egoismo, cattiveria o invidia piuttosto che per pietà.

    Non ci si dovrebbe vergognare di fare pietà né sentirsi in imbarazzo nel provarla. Invece molti valutano l’orgoglio un pregio in tal senso, non avvertendo la differenza tra pietà e paternalismo, troppo profonda per chi sente con la mente o che, idolatra della propria razza, non si accorge che l’unica, grande differenza tra Uomo e Animali è proprio la capacità di provare pietà. Si dice sia scientificamente dimostrato il divario d’intelligenza tra essi; ma più praticamente mi domando se, trasferendo intatta questa formidabile intelligenza umana nel cervello di un canguro o di un delfino, questi riuscirebbero a suonare un’arpa o ad allacciarsi le scarpe, e se non sia l’assoluto disinteresse per l’Uomo e le sue attività il deterrente circa rivendicazione e tutela del loro ingegno. Infatti, osservando un qualsiasi animale, è indubitabile che esso effettui un processo mentale con tutti i crismi del ragionamento riguardo le cose che gli interessano, dall’improvvisa circospezione nell’attimo in cui fiuta un pericolo, alle vere e proprie strategie militari per la caccia, fino ai gatti che accendono la luce e all’incredibile uccellino che, ‘abitando’ in un garage, ha imparato a gravitare all’altezza della cellula fotoelettrica per aprirne la serranda. Viceversa, neppure nei documentari si vede un animale mostrare compassione, se non verso un soggetto della sua stessa specie. Gatti che dilaniano e seviziano povere lucertole per diporto, cani che inseguono e sbranano gatti per non imborghesirsi, leoni che circondano il bufalo più piccolo o quello ferito, orche incuranti della simpatia di foche e otarie, eccetera. In conclusione, perché tutti sperano nella misericordia di Dio nell’aldilà, ma si sentono oltraggiati dal medesimo sentimento nell’aldiquà? Una ragione forse c’è. Che il principe di Elsinore avesse ben radiografato il Codardo?

    Queste riflessioni mi riportarono alla mente la filosofia che avevo sposato, una filosofia che mi guidava nel mio cammino da un anno e dalla quale solo l’eccezionalità degli avvenimenti mi aveva distolto. Proprio Shakespeare mi aveva insegnato quanto meschina fosse la viltà di rifugiarsi sempre nell’essere; per cui avevo scelto di non essere, non inteso come drastico rimedio, ma quale distacco spirituale dalle vicende in cui il Caso mi avrebbe posto. Il vademecum per questa vita ascetica – in senso molto lato – me l’aveva offerto Proust, secondo il quale l’equilibrio interiore su cui costruire la propria esistenza non si trova discendendo l’agevole china del desiderio, ma risalendo l’impervio pendio dell’introspezione, cercando l’appagamento nella solitudine, in se stessi, e riducendo i rapporti umani a un diversivo per combattere l’Abitudine, unica, vera e invitta nemica della Bellezza. Affascinato da questa soluzione che, in armonia con la mia indole, pareva sanare i miei mali, avevo cominciato a perseguirla, delegittimando le relazioni con cose e persone affinché non diventassero muri maestri che, cedendo sotto gli imprevedibili colpi della casualità, facessero crollare l’edificio della mia vita. Attuata la separazione, ciò che giudicavo necessario era iniziato ad apparirmi a volte trascurabile, altre superfluo, fino al punto che perfino la morte aveva visto smorzarsi il suo funesto e tragico ascendente – la paura che c’incute trae linfa e potere anche dal nostro dispiacere di lasciare i tesori con cui beatamente ci trastulliamo sul piedistallo del Caso.

    Che ognuno sia il piedistallo della propria esistenza!

    Finita la pagnotta, mi alzai per sgranchirmi un po’ sforzandomi al contempo di svegliarmi, ma ormai non ci credevo quasi più che si trattasse di un sogno; allora provai a ‘datare’ il ghigno sardonico del mostro che mi aveva rapito.

    Studiando i palazzi sulla base delle mie pur ridotte nozioni, potevo asserire che il Barocco avesse già impresso il suo stile sull’architettura della città, e la nutrita schiera di lampioni a olio con la conseguente assenza di elettricità contribuiva a restringere il campo dei secoli.

    L’imbrunirsi del cielo mi consigliò di accantonare provvisoriamente la faccenda e di trovare un ricovero per la notte.

    Vagando per una stradina desolata, col freddo che s’intensificava assieme al buio, mi ritrovai presso quella che, a giudicare dal vociare, doveva essere un’osteria. Un’idea mi baluginò davanti agli occhi.

    Saliti i due scalini, scostai l’uscio ed entrai. L’ambiente non era come me l’aspettavo. Gran gazzarra, luce soffusa e gente di tutti i tipi: soldati, signorotti, giovinastri e donnine, alcuni seduti ai tavoli con un boccale davanti, altri all’in piedi con un bicchiere in mano. Sulle prime m’intimidii e quasi girai i tacchi; poi però conclusi che in tanto bailamme mi sarebbe stato più facile accostarmi a qualcuno per udirlo parlare nella speranza di captare qualche parola nella mia lingua.

    Girellai per un po’ in mezzo a loro con le orecchie ben aguzze, ma non un suono dolce tra i rudi fonemi.

    Ero demoralizzato. Di nuovo il senso di perdizione che la vecchia signora aveva smorzato con la sua compassione tornò a essere un macigno sul cuore.

    Perso per perso, salii su di una sedia.

    C’è qualcuno che parla italiano? gridai.

    Quelli che mi si trovavano intorno tacquero e mi prestarono attenzione, col silenzio che si propagò rapido nell’intera sala.

    C’è qualcuno che mi capisce? invocai.

    Una voce maschile proferì qualcosa, ma il tono e le susseguenti risate degli astanti non facevano pensare a un aiuto.

    Scesi dalla sedia, sfiduciato e imbarazzato. Ma dove sarei andato? E poi problema e sensazioni si sarebbero riproposti. Tanto valeva provare a risolvere subito. Risalii sul pulpito e rinnovai la supplica per la terza volta, con la maggior parte dei clienti tornata ai propri affari.

    Cercavo sui volti di quegli estranei un altro bacio della pietà, e mi sentii vibrare quando incrociai lo sguardo celeste apparentemente dispiaciuto di una ragazza bionda.

    Dalla mia sinistra udii invece le parole più meravigliose del mondo.

    Venite, venite qui.

    Mi voltai e scorsi una mano farmi dei segni. Incredulo e sollevato raggiunsi il mio benefattore, mentre l’atmosfera tornava a essere chiassosa e allegra come quando ero entrato.

    Più nessuno badò a me. Le novità divampano e si spengono come cerini.

    Mi attendeva con aria incuriosita e sicura un uomo basso, atticciato e calvo il quale mi squadrava dal suo monocolo. Vestiva un cappotto di pelliccia e dava l’impressione di essere un signorotto.

    Diamine, avete attraversato una palude! esclamò più per rilassarmi che per schernirmi – almeno così mi parve dal suo tono gioviale.

    Ricordate il temporale di stanotte? Mi ha colto alla sprovvista nel bosco esordii esultante per il primo passo in quella nuova realtà.

    Non ho mai visto nulla del genere.

    Sono messo così male?

    Peggio. Ma prego, accomodatevi e bevete una mezzetta con me! m’invitò, facendo un cenno verso il banco.

    Per la prima volta da quando stavo lì, sentii chiaramente l’ansia rientrare e compresi l’enorme potere di affratellamento della lingua – cosa che in patria sfugge –, al punto che mi sarei schierato a favore di quell’amico in qualsiasi controversia e pure se avesse avuto torto marcio.

    Cos’è, birra? domandai dopo aver assaggiato quella bevanda scura, riscontrando un sapore solo vagamente simile a quello cui ero abituato.

    Birra, birra… fece, dando delle monete all’oste, E dite, come mai siete in cerca di qualcuno che parli l’italiano?

    Beh, sono venuto a Vienna per… per trovare lavoro improvvisai, dando al nome della città un’inflessione quasi interrogativa, causa inconsci residui di riluttanza.

    Un lavoro?

    Vedete, al mondo non mi sono rimasti parenti e, stufo della tapina esistenza che conducevo in Italia, ho scelto la via dell’avventura spiegai diventando via via più sicuro.

    Come mai siete venuto a Vienna?

    Come mai sono venuto a Vienna? ripetei con identica intonazione, augurandomi che mi venisse in mente qualcosa.

    Avete avuto fegato e fortuna ad arrivare fin qui.

    Più grande è la città, maggiori sono le opportunità proferii cercando di mascherare l’inquietudine provocata dalle sue parole.

    Giusto! e finì la sua birra, Siete simpatico e sembrate un bravo giovine. Quali sono le vostre attitudini?

    Mah, non saprei… mormorai sorpreso dalla domanda, Facevo l’ascensorista.

    "E quali uffici svolge un ascensorista?"

    Ascensorista? No, ho detto aiuto-barista. Lavo tazze, bicchieri…

    Ah, ho capito annuì, estraendo l’orologio dal taschino e inarcando le sopracciglia, Spero mi scuserete, ma si è fatto tardi. È stato un piacere aver fatto quattro chiacchiere con un compaesano.

    Mi sorrise, si alzò e si diresse verso l’uscita.

    Quel cambiamento fu tanto repentino che non ebbi neanche l’impulso di seguirlo. E dire che nel suo atteggiamento avevo intravisto la volontà di soccorrermi. Un lampo però mi scosse e, spronato dalla paura di perdere quel contatto, gli corsi dietro.

    Una volta in strada, cercai con lo sguardo e lo vidi andar scomparendo a passo svelto nel buio.

    Scusate, vi posso chiedere un’ultima cosa? feci, raggiungendolo.

    Oh, siete ancora voi! sobbalzò, Dite, dite pure m’incoraggiò, senza tuttavia rallentare.

    "Come si dice lavoro in tedesco?"

    Busceftigun.

    Eh?

    Busceftigun.

    "Ehm… E lavapiatti?" lo incalzai, trovando irripetibile quel vocabolo.

    Tellavescia.

    Tellavescia compitai, cercando di marchiarlo nella memoria.

    Grazie, anche per la birra.

    Arrivederci e buona fortuna.

    Buonanotte e con lui salutai la possibilità di risolvere subito qualcuno dei miei problemi.

    Prima di dimenticare il termine appena imparato, tornai in quella bettola.

    L’oste stava servendo alcuni uomini in uniforme. Mi avvicinai a lui con la circospezione e l’apprensione di un gatto che scorge una grossa polpetta sugosa nella ciotola di un pitbull addormentato. Intanto che lo fissavo, tentavo di riscrivere mentalmente quella parola, ma egli, accortosi con la coda dell’occhio della mia insistenza, si voltò di scatto verso di me.

    Ich Tellavescia feci con timidezza, mimando il gesto di lavare i piatti.

    Nain e aggiunse qualcos’altro con cui credo mi spiegasse che non gli servivo.

    Lasciai perdere – invero non ci speravo molto – e me ne andai preoccupandomi di dove passare la notte.

    Passeggiando e ruminando pensieri, giunsi in uno spiazzo dove alcune carrozze sostavano come in attesa di clienti.

    Aspettai qualche ora, percorrendo quel largo immerso nel gelo e rischiarato dalle fiamme di un paio di lampioni nell’intento di scaldarmi.

    ‘Ci siamo!’ pensai quando quattro vetture partirono tutte insieme nella stessa direzione e senza passeggeri.

    Aiutato dalla scia luminosa delle loro lanterne, le seguii.

    Si fermarono dinanzi a un fabbricato poco distante che aveva tutta l’aria di una rimessa. Mi fermai pure io, restando a osservare immobile e protetto dall’oscurità.

    Sistemate le carrozze a ridosso del muro, i vetturini, distratti in un’allegra e incomprensibile conversazione, portarono dentro ciascuno il proprio animale. Approfittando anche del rumore degli zoccoli e dei nitriti, mi accodai lesto e furtivo all’ultimo. Quei secondi furono lunghissimi, ma fortunatamente l’ansia e il pensiero di venire scoperto non s’incontrarono, essendo la mente troppo presa a seguire i glutei del baio. Appena fui all’interno, una veloce panoramica a individuare un nascondiglio e subito volai ad acquattarmi dietro una catasta di balle di fieno nei pressi del portale.

    I pochi minuti che gli occorsero per sistemare le coperte sui dorsi dei cavalli mi fecero passeggero di un treno che corre un binario senza fine; i quattro seguitavano a ridacchiare e probabilmente sarebbero stati clementi anche se mi avessero scoperto, ma i miei patemi rimasero tutti a bordo con me.

    Stavolta la fortuna mi arrise.

    Quando furono andati via, cercai una coperta, rastrellai della paglia per un comodo giaciglio e vi trascorsi la notte in moderata e freddolosa serenità.

    Un particolare ‘aroma’ mi destò il mattino seguente e, prima ancora che aprissi gli occhi, un passato dimenticato mi ritrovò sulla via di comuni sensazioni.

    Da bambino, nel giardino della nonna, spesso assistevo mio zio nel governo del bestiame, impastando mangimi, trasportando secchi d’acqua, rifornendo la greppia, ripulendo il canale dal letame, caricandolo con la pala sulla carriola e andando infine a spargerlo per concimare. Il contatto continuo con quell’ambiente aveva reso quegli odoracci accettabili, poi gradevoli; a volte addirittura mi dava piacere respirarli.

    Tira, tira in gola! Questo è il modo migliore per prevenire la tubercolosi soleva ripetermi lo zio.

    Mai indagai sulla veridicità di questa asserzione, ma come ogni cosa detta a un bambino, per me assunse il valore di un dogma.

    La soddisfazione più grande però, consisteva nel vivere il processo di quel ricordo involontario, divenendo in quegl’istanti tutto talmente reale che per un attimo credetti davvero di trovarmi nella stalla del nonno e che Vienna fosse stata un incubo. Lo scenario che mi circondava non tardò tuttavia a ritornare il medesimo nel quale rammentavo di essermi appisolato; di diverso c’era solo un chiarore proveniente da un’apertura in alto e nel quale distinguevo le mosche giocare ai quattro cantoni.

    Mi avviai verso l’uscio e vi poggiai su l’orecchio. Non udendo alcun rumore, lo scostai.

    Porca… mormorai andando subito nel panico, poiché era serrato dal di fuori.

    Spinsi forte un paio di volte abbozzando un grido di aiuto, ma mi trattenni. Oppresso da un senso di perdizione, studiai ansioso il quadro finché non notai due ante, queste chiuse dall’interno. Mi sentii rinascere. Oltrepassai le balle di fieno, tolsi l’asse che le bloccava e le aprii guardingo: essendoci solo un vecchio che pareva stesse urinando nascosto in mezzo a due delle vetture, sgusciai via come una mangusta.

    Un sole tiepido illuminava il mio cammino lungo quell’acciottolato irregolare, e il desiderio di sapere quando fossi finito tornò a imporsi alla mia attenzione.

    Veniva verso di me, per la via ancora deserta, un ometto tozzo, con feltro e il collo affondato nelle scapole. Camminava proteso in avanti con le mani giunte dietro. Quando fummo a pochi metri, gli occhi cercarono il suo viso di straforo, potendo indugiarvi poiché, assai pensieroso, egli studiava il suolo che stava per calpestare. Una strana sensazione s’impossessò di me, come se quel volto, un po’ brufoloso, dominato da una fronte ampia e munito di mascelle marcate, non mi fosse del tutto nuovo; tuttavia il ricordo corrispondente tardava ad affiorare, perdendosi in un’immagine confusa all’insegna di un dirompente rosso scarlatto. Nell’attimo in cui ci incrociammo mi colpì il suo sguardo inanimato. Sentii il cuore vibrare.

    Una volta passato, desideroso che quell’immagine diventasse nitida, mi volsi indietro per attingere ancora dalla sua figura: ero sicuro non m’avesse notato, e mai mi sarei aspettato di trovarlo impalato a fissarmi. Con lo scatto istintivo e sgarbato di chi, intimidito, tenta di dissimulare la propria invadenza, tornai a guardare avanti e proseguii. Sperai mi chiamasse, ma non accadde.

    Rimuginando su questo strano incontro, non mi resi conto di essermi inoltrato per un sentiero in terra battuta, fuori dal centro cittadino.

    Giunto a un abbeveratoio che da lontano avevo preso per una fontana, attesi incerto se dissetarmi o meno, paventando un’infezione letale.

    Che l’acqua fosse potabile o meno divenne l’ultimo dei miei assilli dopo quanto vidi lì dentro. In quello specchio limpido, fluttuante a causa di un’ape che provava in vano a riprendere quota, sullo sfondo di un cielo cilestrino, era riflessa la faccia di un giovane estraneo. Un maremoto interiore mi annichilì. Mi guardai intorno, ma c’ero soltanto io. Gli occhi temevano di rituffarsi in quella vasca, e le labbra tremanti davano loro manforte; tuttavia, la brama di capire si alleò col tempo e dopo pochi istanti, attratto come da una morbosa calamita, abbassai di nuovo lo sguardo. Mi palpai le guance, il naso e infine il mento. Ero proprio io. Lacrime di paura presero a grondare mentre cercavo nel cielo, nell’erba e negli alberi circostanti un segno che chiarisse cosa stava accadendo o che mi aiutasse a debellare quell’implacabile senso di impotenza. L’assenza di risposte m’indusse a osservarmi ancora. Un viso tondo, né paffuto né scarno, orlato da capelli corti e castani, più piacente rispetto al mio, era tutto quello che riuscivo a discernere sul fondo scuro.

    Tremavo.

    Avevo bisogno di pensare, ma soprattutto di liberarmi di quell’immagine.

    Mi distesi sul prato come amavo fare io, con gli occhi a cavalcare le nuvole.

    Capitolo 3

    Paradossalmente, quest’ultima sconcertante stranezza fu il tassello che evidenziò il filo logico dell’intera situazione. Esaminando a uno a uno i vari aspetti (vestiti, dimagrimento, mani, luogo, lingua ed epoca), c’era di che uscir di senno; adesso però, prendendo per buona l’ipotesi di una trasmigrazione della mia volontà, della mia coscienza e della mia memoria nel corpo di un coetaneo viennese di un secolo passato, un po’ di luce filtrò in quella selva oscura.

    ‘Forse uno scambio di identità organizzato da Dio. O forse sono morto e sto vivendo la fase successiva. Non lo dice il Bardo che nessuno è mai tornato per ragguagliarci? O forse ancora sono stato proiettato in una dimensione parallela.’

    Di sicuro mi sentivo meno peggio fluttuando tra congetture verosimili che orbitando nel Nulla, in balia dell’Inconcepibile.

    Non saprei dire quanto tempo rimasi lì sdraiato, se mi assopii o meno. Rammento solo un’ombra che mi destò.

    Una bimba lentigginosa, coi capelli fulvi legati in una coda di cavallo, si era interposta tra me e il sole. Subito il timore che potessi spaventarla mi avvinse; invece ella mi sorrise e iniziammo a parlare, ognuno nella propria lingua, senza riuscire a comunicarci null’altro che i nostri nomi. Trascorsero cinque minuti, poi fummo interrotti dagli strepiti di una scalmanata – presumo la madre – che ci veniva incontro con una sporta in spalla, allarmata forse dall’espansività della sua piccola verso uno sconosciuto, anche se lei la impaurì molto più di me. Non capii se il suo sbraitare fosse rabbia, paura o dissennatezza, ma si calmò solo quando presi ad allontanarmi.

    Quell’ulteriore impatto con l’idioma teutonico mi convinse che se non avessi trovato alla svelta un connazionale, difficilmente avrei fatto passi avanti.

    Tornando verso il centro, meditavo sulla mia condizione. Come avevo fatto per un giorno intero a non rendermi conto del mutamento esteriore? Tuttavia, seguitando a guardare il mondo dalla stessa abituale altezza e non avendo avuto modo di specchiarmi, non mi sembrò più così incredibile. Avrei dovuto insospettirmi dalla voce. Ma quanto avevo parlato? Giusto poche battute e, frastornato com’ero, non avevo colto l’effettiva lieve differenza. E poi, la propria voce ascoltata dall’interno perde parecchi dei suoi segni distintivi. Riguardo alla voce della mente, è facile che serbi il medesimo timbro per tutti.

    Il pensiero di incontrare qualcuno che mi riconoscesse per le strade a quell’ora ravvivate da persone e carrozze, mi sollevava. Ma come avrei giustificato l’improvvisa ‘amnesia linguistica’? E se mi fossi imbattuto in qualche ‘nemico’? Un flusso di terrore mi attraversò le arterie. Pensai poi che non potevo difendermi comunque da questa eventualità e, rianimato dall’indifferenza generale verso di me, mi scrollai di dosso ogni timore.

    Assorbito in parte lo shock per il nuovo corpo, mi vedevo adesso come un emigrante delle telenovele, e fu questa sensazione che mi riportò alla mente la tendenza degli allogeni a riunirsi in comunità. Che a Vienna esistesse un quartiere italiano?

    In una piazzetta che fungeva anche da crocevia, sostavano dei vetturini con le loro carrozze; il traffico scemava a vista d’occhio e ne dedussi che potesse essere l’ora di pranzo o giù di lì.

    Da una vettura appena fermatasi, scendeva, sola, una dama di raffinata eleganza; il colorito bruno e la fisionomia mediterranea suggerivano origini italiane, forse della Sicilia. Quando il cocchiere risalì a cassetta (le aveva aperto la portiera), le andai incontro con cautela, cercando di farle una buona impressione, sebbene gli abiti luridi e miseri non favorissero la mia intenzione; commisi però l’errore di fissarla, sicché sgranò gli occhi e prese a borbottare con l’aria minacciosa di chi è spaventato, reiterando più volte la stessa breve frase. Il vetturino si sporse e io, temendo il peggio, la superai senza scompormi, strozzandole in gola le sue parole con la mia indifferenza.

    Sul versante opposto della strada, un signore barbuto con tanto di mantello, feltro e bastone discuteva animatamente con un altro vetturino; senza dare nell’occhio e con aria disinvolta, mi fermai dietro di lui, ma poiché l’alterco era in tedesco, passai oltre.

    Che strozzino! Tié, pigliati ’sti denari, basta che mi porti alla locanda! sbottò il signore barbuto, magnetizzando la mia attenzione.

    Non feci in tempo a riavvicinarmi che il vetturino era già montato in serpa. Si avviarono per la strada che faceva angolo con quella da cui ero venuto e iniziai a correre per non perdere le tracce di quel potenziale salvatore: stava a venti metri, che in pochi secondi divennero quaranta. Avessi avuto la mia bicicletta!

    Per fortuna li vidi svoltare a sinistra all’altezza di un grande edificio che, grazie alle affinità cromatiche col Palazzo Reale del Fontana, presi a riferimento. In affanno e certo di non riagguantarli più, mi fermai a tirare il fiato nell’auspicio che da lì partisse un rettifilo nel quale li avrei almeno intravisti in lontananza.

    Girato l’angolo, la carrozza era ferma a un tiro di schioppo e un uomo, ben vestito come il cliente, stava

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