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I Cerchi delle Maree
I Cerchi delle Maree
I Cerchi delle Maree
E-book354 pagine5 ore

I Cerchi delle Maree

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Info su questo ebook

Elara di Beijish, ultima erede di un'ignota dinastia del Nord Europa, ripercorre un'esistenza vissuta alla soglia del razionalmente inaccettabile.
Ci sono esistenze in cui non si possa che appartenere altrove. A volte si trova la strada di casa.
Per qualcuno, immagino che questa possa essere anche la vostra storia.

LinguaItaliano
Data di uscita14 dic 2018
ISBN9780463332450
I Cerchi delle Maree

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    Anteprima del libro

    I Cerchi delle Maree - Sara Valpione

    I cerchi delle maree

    I

    Piove.

    Piove sul mondo.

    Mi piove dentro.

    Resto qui, sotto una volta informe di foglie sgrondanti e tronchi ricoperti di muschio umido. La terra è confusa nell’erba e nell’acqua.

    La luce immobile, cinerea, arriva dall’orizzonte incastonato negli ultimi tronchi prima del precipizio, a dieci metri dai miei piedi; là sotto, il mare. Il suo perpetuo ansimare d’acqua abbraccia il fragore infinitesimale dell’acqua che scroscia sulle foglie e dalle foglie schianta a terra.

    La paura è una risacca sottile, fredda e bagnata, una domanda antica che respiro con l’odore del bosco; vorrei che la pioggia mi sciogliesse così come scioglie la terra in rivoli di fango; senza dolore e facendomi scivolar via invece di svanire; ma l’acqua soltanto imbeve i miei capelli freddi e la carne lacera; resto qui come un sasso sul fondo di un fiume.

    Aspetto. Ricordo. Smettere di esistere.

    Dal cuore profondo del bosco risuona un chiurlo d’uccello, eppure il mondo sembra nato ora, ancora disabitato.

    Forse resterò qui, semplicemente, nel dolore freddo delle ferite, chiusa fuori da tutto.

    Restare sulla soglia. C’è un altro tempo, oltre a quello che riesco a pensare. Il tempo immobile. L’Altra sono io.

    Paura e stanchezza sono la marea del crepuscolo. Il mondo è affidato all’esistenza semplice delle cose, non ci sarà più nessuno per vivermi. Ricordo quando sembrava che ogni cosa cantasse. Lo sento nella carne, come senza congedare il tempo non ci sia possibilità di sentire davvero; e mi inghiottirà il niente... solo perché al contrario riesco a ricordare, ma non a sentire. La lingua in cui è scritto che cosa sia essere ossa e sangue che dorme è il silenzio su cui canta il canto del sonno, ma ora sono un incantesimo che si va disfando.

    Tengo l’anima di Jason chiusa nello zaino. Himeko mi solleva e mi sembra strano non cadere in polvere.

    E tutti gli altri sono con me sotto la pioggia incessante, anche se ad allungare la mano riaffondano nei ricordi. Se la terra non sente i loro passi non ha importanza, sono qui con me.

    Posso iniziare a cantare la mia canzone? Ciò che lascio si chiude a cerchio, escludendomi, cullandomi, andando a posarsi nella polvere del tempo che passa.

    E non fa male, Dio…

    II

    È strano risentire la mia voce prender possesso delle stanze deserte. Le eco si incurvano per i corridoi rincorrendo gli anni, dita che accarezzano e s’incuneano nella pietra, qualcosa si tende e si rilassa in istanti concentrici che condensano i giorni dall’inizio alla fine. Una risposta in una lingua che non conosco.

    Perché sono tornata? Perché sono tornata qui? Me lo sapete dire voi, colonne altere e soffitti affogati nell’ombra? Adesso mi sembra di averlo scordato, mi sembra di non essermi mai mossa di qui. Rispondo all’appello di una necessità ereditata dalla nostalgia.

    Eccomi a guardare l’ombra lucida d’acqua e sangue che si allarga sul pavimento, serpeggiante come la coda di un drago, tra le lastre di marmo scuro. Una pozzanghera nera che si apre come un’alba cieca, ed è una domanda a cui non si può rispondere.

    La luce ossea del mondo sconvolto trabocca dai vetri delle finestre in fondo a questo salone enorme e muto, un respiro aperto sul cielo… la luce si allunga silenziosa sul pavimento, una cosa addormentata ma viva; una perla tiepida che nei miei occhi sembra avere un peso. Sono vuota come queste stanze, sono spoglia; solo pioggia e cose perdute sulla pelle, e dentro carne straziata ed il rumore del mare.

    Dio, tu dove sei?

    Dove siete tutti?

    Sono ancora qui… e poi gli altri… no, Berenice, non tornerò, sono a casa, ora. Chissà se capiresti.

    Torno con una follia in grado di sentirvi, ma se la paura mi piove addosso c’è solo il buio.

    Notte, notte che scendi lavata dalla pioggia, silenziosa e bella notte, sono a casa.

    III

    Sono tornata a casa.

    Qui tutto ha inizio, sono queste le mura che tengono sul palmo la fine. Forse, prima o poi arriverà anche lei.

    La luce di striscio ferisce il bel volto di Eidreid, etereo sui velluti scuri della tela sopra il caminetto, e poi cola, lenta come miele caldo, dalla finestra, sul tavolo di ciliegio, con tenerezza.

    Ogni cosa è come la ricordo. Voglio credere che non abbiano toccato nulla. Come sono arrivata qui?

    dire, dire, dire… finalmente il silenzio.

    Sento spalancarsi il vuoto, se vacillerò impazzirò di terrore… non posso, davvero non posso volare via?, semplicemente, dimenticarmi per un istante e non tornare più… l’Altra aprirà gli occhi. Sono io che torno in dietro.

    Lontano il respiro roco ed infinito del mare, dell’oceano, infinito e perpetuo; chiudo gli occhi e son qui da sempre.

    IV

    Gli anni che lascio dall’altra parte del mare sono distanti e muti come il volo dei gabbiani. Avevo conosciuto Joeseph Metekis tre anni prima che iniziasse tutto.

    V

    Questi sono altri ricordi.

    Sono tornata a casa, e finalmente sento di appartenere fin nelle ossa a questo garbuglio di roccia e salsedine. Io sono roccia e salsedine. Roccia e salsedine e vento e silenzio. E, dio, è libertà, quella che sento in questo momento; la mia anima è in pace.

    Avevo conosciuto Joeseph Metekis tre anni prima che iniziassi a svegliarmi. Sono cambiate così tante cose, da allora: nel frattempo il mondo è finito e ricominciato. Ci sono ricordi che ora son poco più di coaguli di pensieri, ed altri che sono fantasmi vividi come dubbi irrisolti. Fino alle ferite inferte da una creatura amica che non mi ha riconosciuta in tempo e una poltrona che ha atteso tre secoli e mezzo per raccogliermi. Cuscini impolverati di velluto bordeaux sui quali - guardalo…- è sbocciato un fiore nero che si sta nutrendo di sangue. Quanto me ne resta? Nelle arterie e nelle vene, scivolo via col mio sangue per ascoltare la ninna nanna dei fantasmi del velluto… ci sono cose che parlano anche ora.

    ogni cosa è sempre per l’ultima volta

    Avevo conosciuto Joeseph Metekis una mattina di tarda estate, in un’aula bianca, bianca… bianca per le pareti spoglie e per la luce del sole che nei miei ricordi calcifica ogni cosa. Tra l’aroma citrino di detersivo per pavimenti e l’odore acre di essere umano sudato e deodorato. In mezzo a sconosciuti, me ne stavo paralizzata col mio disagio di nuova arrivata a trimestre inoltrato, con la mano estranea della vicepreside sulla spalla, mentre aspettavo che i bidelli aggiungessero un banco di fianco a quello del primo della classe. Cominciai a pensare a lui per i suoi occhi, perché non riuscivo a ricordare di che colore fossero… e perché dovevo pensare a qualcosa che non fosse quella specie di spaventoso buco buio che era il futuro, perpetuamente sconvolto senza preavviso dagli esodi lavorativi dei miei genitori. Mi cibavo di tutti i gesti che ad un’ingenua innamorata quale ero potevano suggerire una simpatia celata timidamente; accarezzando il dubbio di essere corrisposta, aspettavo che il romanticismo di un caso fortuito lo portasse a dichiararsi. Pomeriggi interminabili.

    Davanti al caminetto spento il mio gatto sonnecchia con noncuranza accanto alla testa di Himeko. Il tappeto mi racconta una storia che avevo dimenticato. Jason aveva un occhio scuro ed uno pieno di buio e metallo, Joeseph aveva gli occhi viola come i fiordalisi, e se devo pensare a lui, è lo Joeseph che ancora non aveva nulla a che fare con noi, che ricordo. Dopo due anni, sei mesi, tre settimane e un giorno morì il nonno e mio padre ci fece fare trasloco per l’ultima volta. Attraversammo il Paese e venimmo a prendere possesso di questa inutile roccaforte sull’oceano. Ero un’estranea. E non riesco a parlarti.

    I suoni si amalgamano e girano come una spirale che cade… li richiama la pietra, io resto al buio ed ogni cosa è silenzio. La Rocca. Siam qui da sempre. Nella nostra singolare parabola il resto del mondo si è dimenticato di noi. E guardami, Elara che eri: sono io, non tu, l’ultima di un’oligarchia insignificante di cui in realtà siamo i sudditi. Talmente insignificante da sopravvivere contro ogni buon senso. Siamo radici avvinghiate alle pietre attraverso le generazioni: l’anima affondata nel promontorio e questo rudere di tempi andati a picco sul mare, e pure io sono tornata in dietro. Ho percorso la mia fuga a ritroso e sono tornata a casa… Elia, si chiamava così il figlio del farmacista? O Enea?, uno dei tanti che è restato un ragazzino solo nei miei ricordi… Elia, no, non c’è nessuna maledizione. Soltanto, nelle notti di tempesta il mare pare accanirsi su questi strapiombi con maggior furia che altrove, quasi voglia inghiottire questa terra interrotta e farla precipitare giù, nell’abisso d’acqua buia.

    VI

    E poi… l’ostilità per queste mura che mi imprigionavano distante dal mondo ed il silenzio che riempiva le stanze vaste e deserte, membra in disuso di una creatura arenata, così enorme da atterrirmi con la sua mole e la mia nullità… tanto spazio inutile, che costava noia attraversare ogni volta, allo scoperto. Tanto spazio vuoto come la solitudine. Poi il tempo mi ha modellata su queste pareti, filando lentamente un senso di appartenenza appassionato e totale sull’ordito della familiarità, e gli anni di lontananza han dato un nome alla serenità del vuoto. Casa.

    È un congedo, questo? chiama per nome ogni cosa e poi lasciala andare per sempre, tanto più se del passato non resta nulla, nessuno. Solo la Rocca, ma che memoria vuoi che serbi? Questa è una tomba per i secoli. All’inizio, quando agognavo che Joeseph venisse a salvarmi, mi pareva di sentirli prendere consistenza per frusciare, invisibili, come tende sulla pietra talmente vecchia da potersi considerare un pezzo della scogliera. Credevo che mescolati alla polvere ci fossero i morti ed avevo paura di trovare mummie rinsecchite nelle stanze chiuse a chiave. E mi terrorizzavano i temporali, ti ricordi?… intanto aspettavo. Il tempo girava su se stesso come la macina di un mulino. Sussultai in ogni risuonare di telefono o campanello per tre mesi e mezzo. Ti ricordi quel tonfo d’angoscia che pareva rimbalzare via echeggiando per i corridoi deserti? prima per lui, e poi per lei, e poi il fango di una strada di provincia, una notte che pioveva: mi è capitato di sognarlo, poi, dall’altra parte del mondo. Aveva bevuto. Ora so cosa voglia dire giacere sulla terra con le tenebre, quelle vere, a caderti addosso, la pioggia fredda entrarti nella carne macellata ed annegarti l’anima nel nulla. Sei morto così. Eri ancora tu, quando ti portarono via.

    e poi chiamò Pamela. Per lei non ha mai chiamato nessuno. Lui aveva fatto un incidente ed era in coma; di lui mi ricordavo? del mio vicino di banco?

    Questo lo ricordo bene. Pensavo che avrei dovuto sentirmi come se il mondo fosse precipitato in quell’istante facendomi sprofondare. Invece no, al contrario, mi parve di svegliarmi da un sogno torbido. Fu strano, come se ogni cosa fosse d’improvviso più limpida, in un batter di ciglia, davanti ai miei occhi, mentre io venivo lasciata deserta, disabitata. Mi è successo ancora, poi. Ma quella fu la prima volta. Tre settimane dopo, o forse erano quattro, forse cinque, che importa?… mi avventuravo nella foschia fredda del mattino sul treno delle 4.08, per andare a dirgli addio. Il cuore gonfio di amarezza e quella determinazione, segretamente, determinazione, come se stessi andando a riprendermelo. E speranza… o forse questa la sto aggiungendo ora. Fu l’ultima volta che fui sola al mondo con Eidreid; se lo avessi saputo, sarebbe cambiato qualcosa?

    Sedevo con il capo appoggiato al finestrino sporco, ancora mi assopisco nel sobbalzare ritmico sulle rotaie; guardavo, senza vederlo, il paesaggio distendersi e scivolar via nell’ombra appena rischiarata dall’alba più cruda, indolore. Ricordo il cane che mi guardò negli occhi… e anni dopo mi sembrò che si chiudesse un cerchio, che mi venisse ricordato, o restituito, qualcosa lasciato in pegno, nello sguardo di una mucca al pascolo. Di fronte a me Eidreid, avvolta nel suo vecchio mantello di velluto dello stesso verde dei suoi occhi, e mi chiedevo se non avrebbe avuto caldo… ricordo la morbidezza con la quale la luce scolpiva le pieghe del tessuto ed impolverava i suoi capelli di fuoco, ricordo il profumo dei suoi vestiti e l’odore di treno che non sopporto più; quando entrò il primo raggio di sole nello scompartimento… l’odore, l’odore… ogni cosa, è ancora qui, sono solo io ad andare perduta…

    VII

    Così bella da far male, la luce… Eidreid, tu… amica mia, mi manchi tanto. Quando mi piombò addosso nel corridoio buio dopo che un fulmine aveva fatto saltare la corrente nell’ala Nord. Come pioveva, la notte che arrivammo qui. I temporali devastarono tutta la regione, pioveva come se avesse dovuto spaccarsi il cielo per vomitare Dio. Pareva che l’aria si fosse addensata in tempesta, e faceva paura il vento che barriva contro i vetri piombati, pensare di dover dormire in un letto addossato ad una parete a picco sul baratro… siamo finite a ruzzolare sul pavimento, io devo aver urlato come un’ossessa, ma almeno quando mi sono calmata la paura del temporale se l’era già portata via lei col colpo che mi aveva fatto prendere. Un lampo, e dalla descrizione che me ne avevano fatto riconobbi la treccia color carota di mia cugina.

    Non ricordavo che il sole fosse già così basso… là in fondo, oltre le mura della Rocca, oltre il mondo. Addio sole, potremmo anche non rivederci più. Himeko mi ha abbandonata qui, invece di restituire la veglia funebre.

    Se non te ne fossi andata così presto, Eidreid.

    Forse rimpiango di più i mesi passati con te che non quelli con Jess. Quando ancora ero… ma è davvero passato così tanto tempo? Abbiamo continuato a tenerci aggrappate l’una all’altra come la notte dell’uragano. Per quasi un anno siamo restate così, noi due sole alla ventura nel mondo, ed accanto a te per la prima volta mi son sentita… qualcuno. Quanto bene ti ho voluto, ti voglio, Eidreid. Ho paura, sei sempre stata l’unica in grado di farmela passare, sono ancora quella ragazzetta impacciata, e tu sei sempre restata con me, male che andasse mi restavi tu, inizio ad intorpidirmi, forse ho già iniziato da un pezzo, ho paura? Oh, sì che ho paura, tutta una vita non mi ha preparata a questo, se allento la presa sugli istanti smetto di esistere, smetto di esistere… Forse ho sbagliato tutto, forse sei l’unica persona che avrei dovuto tenermi stretta al cuore. Ma la solitudine non era rotta, c’eravamo in due, in due ma la mancanza di… un senso? Restava. Come ti ho conosciuto io sola, come a me soltanto sei appartenuta, umana in fondo all’animo impassibile. Sei l’unica persona che vorrei qui ora. L’unica che potrebbe stringermi forte per non farmi morire sola. Ma non verrai a stringermi le mani bagnate.

    Eppure sei lì, con me, nella penombra. Muta, amica mia, con me. Comprendi. Io sola so che comprendi…

    Sono arrivata alla fine del mondo.

    E… va tutto bene.

    VIII

    Sono a casa.

    In camera. Le ombre azzurre della sera sigillano l’aria di questa stanza che mi si richiude addosso.

    Fine di un capitolo.

    L’ho rivisto. Non mi ricordo cosa mi aspettassi. Gli ho detto addio assieme a mezza classe, mentre mia madre e le altre arrotolavano i commenti di circostanza alla maledizione ai motorini di rito.

    È impossibile che quel ragazzo che se ne andava in giro sbronzo abbia mai avuto nulla in comune con chi per tanto tempo ha abitato i miei pensieri, a parte il viso e la voce. Forse un po’ di bene me l’ha voluto davvero, chi può dirlo?, forse tanto stupida proprio non sono stata… e la partita tra speranza e dubbio si chiude.

    Ho pianto tanto, in ospedale, ho pianto perché lui era lì più morto che vivo; dopo aver parlato con sua madre ho pianto per me perché mi son ricordata che prima o poi sarò al suo posto. E sono tornata a casa libera e desolata.

    Perdonami, tu che nulla sai di tutto questo, che nulla sai di me, e di nulla ti rendi conto nel tuo letargo funebre. Oh, sì, perché sai, alla fine credo perfino di aver pianto per il sollievo.

    In questa casa che sembra una tomba. Non ho più niente a cui pensare.

    Povero Joeseph. Ti farei ridere, se tu sapessi.

    Ridere? Dovevo finirci io, su quel letto bianco, io, che non ho un senso, non ho un posto, e se mi guardo dentro trovo pure che sono giunta a provare sollievo per quello che è successo, se trovo il coraggio di confessarmelo mi rendo conto della tentazione grande di vestirmi della vedovanza, oh, sì, sarebbe un gran bel gioco, vero, Elara?, e magari poi attendere che qualcuno venga a chiederti il perché di tanta tristezza. Forse mi renderebbe interessante. Non ho mai voluto che lui morisse. Non ha un senso morire così a sedici anni, senza avere trovato un minimo di significato all’esistenza.

    Non può morire.

    Ti prego, dio. Non può morire…

    IX

    I giorni si susseguono, le settimane passano. Sono stata a trovarlo un’altra volta, accompagnata da mia madre, gli ho portato dei fiori. Non tornerò più, quella resterà l’ultima volta che l’avrò visto, comunque debba andare a finire.

    Mi chiedo che senso abbiano avuto questi due anni e mezzo. Continuo a chiedermi che senso abbia tutto. Se non ne ha uno, a che serve? A che serve il dolore, la stupidità, l’errore, a che servo io…

    Eidreid mi salva dal vuoto. Mi aggrappo a lei, riempie il mio tempo, e non penso più a nulla. Le invidio il mondo imperturbabile in cui pare sospesa. Mi sento piccola di fronte a lei. Nulla sembra toccarla, mentre io sono costantemente in balìa di disperazioni ingiustificate.

    Finché in questa casa esistono anche i miei, esistono persone e quindi conflitti, avrò sempre bisogno di qualcuno per non essere sola come una reclusa. Un po’ alla volta forse non mi sentirò più a disagio dentro la mia vita. Io credo che in fondo lei capisca quello che ho dentro sotto le parole che farfuglio, sento che mi vuole bene anche lei. Credo che abbiamo bisogno l’una dell’altra per il semplice fatto che siamo vive. Perché non si riesca a esistere anche da soli io lo ignoro. Forse perché senza testimoni svaniremmo nell’aria… Forse non sono più sola.

    Eidreid. Sei come il nonno, Eidreid? Quello che mia madre odia e di cui mio padre mai parla. Giù al paese dicono che fosse tanto strano, quando parlano di lui finiscono sempre col raccontarti come è morto: la malattia lo condusse fino alla tomba, ma non ve lo fece entrare. Perché Armand di Beijish, dopo aver sostenuto per più di due anni il sussurro di un morbo sibilante, che a suo comodo gli aveva consumato i giorni, si prese l’unica rivincita possibile: si sparò un colpo alla testa. Il medico si chiese, ed il paese continua a chiedersi, come sia riuscito nelle sue condizioni ad andarsene a zonzo per la casa per prendere e caricare la pistola; l’unica a non farsi domande fu quella che non se ne fa spesso, neppure nel momento di stringere le dita del nonno sul grilletto della mauser del secolo scorso. Com’era il nonno, Eidreid? Quanto della famiglia ho preso? Troppo poco…

    Delirium

    Non ho più niente a cui pensare, e mi rendo conto solo ora che il rumore del mare si sente sempre. Mi ero dimenticata dell’acqua. Il mare è come la bocca spalancata di un morto. Grida buio, come la gola nera di un morto.

    I miei non mi badano neppure. Per loro è una storia chiusa. E per me è chiusa? Per me, che non ricordavo?

    Si sente sempre.

    Oggi siamo andate a vedere i campi di grano. Siamo state via fino a sera. Mi ci ha portato lei. Dice che ogni anno aspetta che maturi il grano. Abbiamo camminato per tutto il giorno lungo la scogliera, tra le rocce consumate a dirupo sul mare e le sterpaglie amare battute dal vento. Poi il sentiero, giusto un filo polveroso nel gomitolo di rovi. I campi di lavanda, e poi la distesa infinita del grano che respira il vento selvatico. Avere le ali, e lanciarsi nel vento con la pianura di giallo folto che si getta in avanti dopo il lento declino dei prati incolti… se mi abbandono mi rendo conto che anche nella disperazione più profonda ci sarebbe qualcosa per cui varrebbe la pena di vivere. Eidreid mi parla della terra, mi parla della vita della terra, ed i campi di grano rinascono pulsanti sangue caldo nel riflesso dei suoi capelli al vento. La lavanda è un cielo caduto a terra, un cielo senza l’inquietudine dell’infinito e dello sconosciuto. Un turbamento indefinito mi ha accompagnata sempre, ma credo di aver sfiorato la pace…

    In biblioteca ho trovato un quaderno. Dietro la copertina c’è una data di vent’anni fa, e un nome: Morgana. La nonna morì dando alla luce mio padre più di venticinque anni prima. Quindi deve essere per forza di mia zia, anche se non credo che fosse quello il suo nome. D’altra parte non so quanto valgano i nomi, qui; mia cugina è registrata nel Libro delle Nascite come Moira, anche se nessuno l’ha mai chiamata così, per quanto ne so.

    Il quaderno ha poche pagine, scritte a mano con grafia sottile e sbiadita. Sono ninna nanne. Sulla copertina c'è scritto Dodici ninna nanne macabre ed una preghiera della sera, ma di ninna nanne ce ne sono solo nove. Non riesco a togliermele dalla testa. Mi appartengono.

    Dietro uno scaffale ho trovato pure un quadro. Credo che sia quello che ha segnato l’ombra chiara che si vede appena sulle pietre sopra il caminetto. Deve essere una burla, perché è datato 20/12/1628, ed è il ritratto di Eidreid.

    O forse è un’ava che le somigliava. Che le somigliava tanto. Mi da una sensazione strana pensare che i tratti si siano nascosti e conservati attraverso gli anni, i secoli, come un’eredità il cui senso sfugge, una sfida assurda al tempo e alla morte. Mi chiedo che ci facesse dietro la libreria. Vorrei che Eidreid fosse spettro della famiglia. Vorrei poterci credere. Se avessi un fantasma per amico la mia vita non mi sembrerebbe così insignificante.

    Quanto sei stupida, Elara.

    Arriva l’autunno. Ogni cosa passa. Le foglie si staccano dai rami senza rumore, cose morte che cadono a terra in silenzio. Il vento d’ottobre ha preso possesso del mondo, delle mie vesti, del mare. Il bosco delle betulle sembra in fiamme, se mi alzo in piedi posso vederlo, l’incendio giallo là in fondo, fuori dalla finestra, illuminato dalla luce cruda del mattino. Ecco: esistono solo gli alberi che da sempre guardano dentro questa stanza. Mi sembra che la mia presenza sia ridotta a qualcosa di sconfinato ed inconsistente, come l’aria. Anzi, io non esisto. Sono solo una voce che neanche so da dove viene. Sono qui affacciata, mi sembro una cosa sconosciuta e profondità incolmabili si aprono sotto di me… io sono l’aria in questa camera, io sono fuori dal tempo… vorrei piangere per l’inutilità di ogni cosa. Vorrei piangere perché mi sento tanto sola.

    Il mare è una creatura terribile e distante. Quando arrivai qui avevo paura dei temporali. Povera piccola idiota che eri, Elara.

    Un po’ alla volta io ricordo. Io ero già stata qui. Quante cose avevo dimenticato. Dove erano andate a finire? dove ero andata a finire? Avevo dimenticato che io non ho paura. Ed ora sto imparando che se il mare urla io urlo con lui.

    Di nuovo vaneggio. Sono le cinque e mezza di mattina… devo smettere di alzarmi all’alba per vedere il cielo che apre gli occhi.

    Mormora una voce nascosta, una familiarità che non riesco a comprendere e che cadendo nella mia anima va a restituire sfumature e tepore a ricordi che non ricordo.

    Mi accorgo di un vuoto sconcertante nella mia storia. Anni interi di cui resta soltanto l’acqua gelida che mi riempie i polmoni. L’acqua fredda è ancora qui, non ho mai ricominciato a respirare. Ma mi sembra di esserci pure nata, nell’acqua. Non mi ricordo di quando ero piccola... e poi cosa? Un momento fa lo sapevo.

    Sono sbagliata. Informe, informe e caotica.

    Torno a letto o comincio a vestirmi per andare a scuola? Non ho voglia di andare a scuola. Non ne ho mai voglia. Non ho conosciuto nessuno, non mi sono impegnata per farlo. Mi mimetizzo bene, in seconda fila a guardare fuori dalla finestra. Il ridicolo è che questa volta qualcuno è pure venuto a parlarmi. Ragazze terribilmente belle e gentili e ragazzi depressi per i quali evidentemente non sono abbastanza brutta. Poi c’è uno spostato che con aria complice mi ha chiesto se è vero che alla Rocca ci sono i fantasmi. Gli ho risposto sì ovvio ne stai fissando uno. Non so cosa Eidreid ci abbia trovato di buffo quando gliel’ho raccontato.

    Quando non c’è la nebbia si può vedere la Rocca come un’ombra squadrata, scura, sovrastante il bosco che sale sul promontorio, oltre la cintura urbana di questa piccola cittadina dai balconi di legno e le strade pulite.

    Non riesco a dormire. Dormo sempre meno.

    Sto scrivendo accucciata sul pavimento della sala esagonale. Anzi. Della Sala Esagonale. Ho freddo. Le lastre di marmo gelido stanno diventando una cosa sola con il mio sedere e le mie gambe. Non lo so, perché sono qui. In questa stanza il silenzio rintocca con voce di cristallo, il silenzio è la luce della Luna che resta imbrigliata sui vetri alti della cupola del soffitto. Che ci faccio qui? Che senso ha che io sia qui?

    E soprattutto: ci sarà mai nessuno a rispondermi?

    Scrivo al chiarore azzurro della Luna che si spande nel cielo sopra la Rocca. La notte viene a dormire in questa stanza, la notte che ha il suo nido profondo in seno agli abissi del mare,

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