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Home restaurant e social eating. Guida all'attività di ristorazione in abitazione privata
Home restaurant e social eating. Guida all'attività di ristorazione in abitazione privata
Home restaurant e social eating. Guida all'attività di ristorazione in abitazione privata
E-book654 pagine7 ore

Home restaurant e social eating. Guida all'attività di ristorazione in abitazione privata

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Il testo affronta il tema legato agli home restaurant e al social eating, un nuovo modello di business – figlio della sharing economy – tramite il quale è offerto il servizio di ristorazione in abitazione privata. Sebbene in Italia siano già stati presentati disegni e proposte di legge, allo stato attuale non esiste una disciplina chiara che regolamenti gli home restaurant e il social eating. Occorre fare riferimento alle diverse disposizioni normative attualmente vigenti e applicabili, fra l'altro, a questa nuova forma di business. Ed è ciò che si propone di fare il testo.

Il libro è un'utile guida per chi vuole avviare un'attività di ristorazione in abitazione privata, un testo completo che conduce il lettore lungo il complesso percorso di avvio, costituzione e gestione di un home restaurant. Dagli aspetti fiscali (con particolare riferimento al social eating svolto in via occasionale e all'attività di home restaurant esercitata a carattere imprenditoriale o abituale), tributari (Iva, imposte sui redditi e altri tributi) e previdenziali, ai requisiti igienico-sanitari e di sicurezza alimentare (HACCP), alla disciplina applicata alle attività di somministrazione di alimenti e bevande al pubblico. Tali aspetti sono indubbiamente di fondamentale importanza anche in funzione dei diversi regimi fiscali previsti dal legislatore.

Un capitolo, poi, è stato dedicato alla redazione del business plan (lo strumento che guida l'imprenditore nel processo di sviluppo della propria attività), all'analisi SWOT e al break-even point.

Ma non solo: chi avvia un home restaurant deve conoscere anche le principali tecniche di promozione e di marketing, le piattaforme di sharing economy, le strategie che permettono di raggiungere le prime posizioni nei motori di ricerca.

Infine è stato dedicato un capitolo alle principali agevolazioni, ai contributi e ai finanziamenti del settore.

All'interno del testo numerose schede, modelli di comunicazione, facsimile e tabelle.
LinguaItaliano
Data di uscita12 dic 2016
ISBN9788822876492
Home restaurant e social eating. Guida all'attività di ristorazione in abitazione privata

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    Anteprima del libro

    Home restaurant e social eating. Guida all'attività di ristorazione in abitazione privata - Nicola Santangelo

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    Prefazione

    La sharing economy , chiamata anche economia collaborativa o economia della condivisione, si riferisce a nuovi modelli di business all'interno dei quali soggetti privati, con l'aiuto di specifiche piattaforme, offrono beni e servizi in cambio di un contributo economico. Nascono, quindi, forme inedite di business e nuove opportunità di occupazione e trovano spazio insolite fonti di reddito. La sharing economy, pertanto, crea nuove opportunità per i consumatori e per gli imprenditori o prestatori di servizi. I primi, infatti, potranno avere accesso a nuovi servizi, ad un'offerta più ampia e a prezzi più bassi. I secondi, nella qualità di privati che condividono beni, risorse, tempo e competenze su base occasionale o imprenditori che agiscono nel quadro della propria attività commerciale, artigianale o professionale e offrono servizi in maniera continuativa e con specifico impiego di mezzi e di persone, potranno sviluppare nuovi modelli di business che ruotano intorno alla cosiddetta economia della condivisione. Questo perché il principio basilare della sharing economy è proprio la condivisione stessa: ciò che avanza si mette a disposizione di tutti; questi potranno averne accesso in cambio di un contributo economico. Si condivide l'ufficio, la casa, l'auto, la bicicletta. Perfino le idee, i prodotti di consumo, il divano e, come si dirà in questo testo, si condivide anche un posto a tavola.

    E' questo un fenomeno talmente importante da avere attirato l'attenzione delle Istituzioni. La Commissione Europea, nel mese di giugno del 2016, ha presentato una comunicazione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni. La Commissione, si legge nel documento denominato A European agenda for the collaborative economy , ha apprezzato l'importanza della sharing economy e ha ritenuto che questa possa dare un contributo importante alla crescita e all'occupazione nell'Unione Europea, se promossa e sviluppata in modo responsabile, equilibrato e sostenibile.

    Via libera alla sharing economy in Europa, quindi, ma con responsabilità affinché possa dare una spinta alla competitività e contribuire alla crescita. E questo può avvenire esclusivamente rispettando la normativa nazionale di riferimento. Ma è proprio qui che nascono i primi dubbi. Innanzitutto perché molti Stati membri non hanno ancora pensato ad una specifica normativa, secondariamente perché la sharing economy rende meno nette le distinzioni tra consumatore e prestatore di servizi, lavoratore subordinato e autonomo, prestazione di servizi a titolo professionale e non professionale. L'invito che la Commissione fa agli Stati membri è quello di riesaminare la normativa nazionale vigente al fine di garantire che i requisiti di accesso al mercato continuino ad essere giustificati da un obiettivo legittimo e siano anche necessari e proporzionati. Divieti assoluti, continua la Commissione, nonché restrizioni quantitative all'esercizio di un'attività costituiscono normalmente misure di ultima istanza che in generale dovrebbero essere applicate solo se e laddove non sia possibile conseguire un legittimo obiettivo di interesse generale con una disposizione meno restrittiva. Gli Stati membri, pertanto, devono agevolare e sostenere lo sviluppo della sharing economy evitando, laddove non sia del tutto indispensabile, di applicare restrizioni o veti.

    Ed è proprio grazie alla sharing economy che abbiamo assistito alla nascita e allo sviluppo delle cosiddette piattaforme di collaborazione ossia intermediari che mettono in comunicazione, attraverso un marketplace, i prestatori e gli utenti e agevolano le transazioni tra di essi. Negli ultimi anni si è registrata una notevole crescita di tali piattaforme. Ognuna di esse è specializzata in una specifica attività. In tale ambito si sono distinte in maniera particolare, come vedremo in questo testo, le piattaforme che si occupano di social eating.

    Il social eating è quella branca della sharing economy che copre in particolar modo gli aspetti legati alla ristorazione e al consumo di alimenti e bevande: si condivide un posto a tavola, si aprono le porte della propria cucina a ospiti sconosciuti, si propongono i piatti legati alle proprie tradizioni. In cambio di un contributo economico. Tutto questo, come verrà attentamente spiegato nel testo, potrà essere svolto in maniera occasionale (magari per il piacere di cucinare per i propri ospiti) oppure in via professionale. In questo caso l'imprenditore che opera nell'ambito del social eating avvierà un'attività che prenderà nome di home restaurant.

    Il pranzo e la cena, contesti in cui tradizionalmente avviene una forte aggregazione tra i componenti della famiglia o tra amici, si arricchiscono di una componente social, i cui effetti sono amplificati dal web. Internet è utile esclusivamente per aggregare persone: si crea un evento, si scrive un menu, si stabilisce il prezzo, si definisce il numero degli invitati. E poi si cucina per coloro che hanno scelto di partecipare. Ospiti e cuochi si incontrano intorno ad una tavola apparecchiata, all'interno di una cucina privata, per condividere passioni comuni e interessi. O, perché no, per fare affari. E' questa la formula vincente del social eating. Chi offre pranzi e cene lo fa in molti casi per condividere la passione per il buon cibo, per trasmettere le tradizioni, per conoscere nuove persone. Ma lo fa anche per arrotondare il bilancio familiare, per creare un'entrata alternativa o per avviare un nuovo business. Già, perché il bello del social eating è che questa attività può essere esercitata in maniera occasionale oppure sotto forma di impresa.

    A dire il vero, l'attuale normativa comunitaria non stabilisce esplicitamente quando un servizio esce dall'ambito privato per entrare in quello professionale. Tutto ciò è lasciato alla libera discrezione degli Stati membri: alcuni di essi, ad esempio, definiscono come professionali i servizi forniti dietro retribuzione, mentre i servizi tra pari si basano sul semplice rimborso dei costi sostenuti dal prestatore di servizi; altri Stati, invece, operano questa distinzione applicando delle soglie minime e tenendo conto del livello di reddito generato o della regolarità con sui si fornisce il servizio. In tale ambito la Commissione ha offerto alcune linee guida cui gli Stati membri potrebbero ispirarsi per stabilire quando una prestazione si qualifichi come professionale o meno. Si tratta di indicazioni che prese singolarmente non sarebbero sufficienti a qualificare un prestatore di servizi come professionista ma che se combinate tra di loro offrono indubbiamente interessanti spunti di riflessione. In sintesi, per stabilire se una attività è esercitata in via professionale o meno occorre tenere conto di tre differenti condizioni: la frequenza occasionale dei servizi (intesa come esecuzione della prestazione in maniera marginale ed accessoria anziché regolare); la finalità di lucro; l'entità del fatturato (maggiore è il fatturato generato dal prestatore, più alta è la probabilità che questi si qualifichi come professionista).

    Fare chiarezza in tale ambito risulterebbe utile anche ai fini fiscali. Questo perché chi opera all'interno della sharing economy, al pari degli altri soggetti, è sottoposto alla vigente legislazione fiscale. Gli aspetti relativi alla normativa delle imposte sul reddito delle persone fisiche e delle società e dell'imposta sul valore aggiunto non sono da sottovalutare. Inoltre, massima attenzione va rivolta all'adempimento degli obblighi fiscali.

    La sharing economy, e in special modo il social eating, sono ancora agli albori ma già molti imprenditori ne stanno apprezzando le notevoli potenzialità. Stiamo parlando di un mercato esordiente, con numerose aree inesplorate e floride, in rapida crescita e, per questo, ricco di interessanti opportunità. Meglio, quindi, attivarsi per tempo se si vuole arrivare preparati all'appuntamento con l'economia collaborativa.

    Tutto ciò premesso, è facile intuire come la forma imprenditoriale del social eating, ossia l'home restaurant, generi realmente nuove opportunità di business, produca nuove forme di ricavi e consenta agli individui di lavorare con modalità flessibili. E' l'occasione per quanti vogliono diventare imprenditori, avviare un nuovo business oppure approfittare di un'opportunità per arrotondare il bilancio familiare. E' per questo che ho pensato ad un testo dedicato al social eating e agli home restaurant: guidare gli imprenditori nell'avvio di un'attività di ristorazione in abitazione privata, aumentare la loro consapevolezza in materia di obblighi fiscali e tributari, evidenziare i principali requisiti igienico-sanitari e di sicurezza alimentare. E poi, ancora, pianificare l'attività d'impresa attraverso la redazione di un business plan, promuovere la propria attività tramite i tradizionali canali di marketing e le principali forme di advertising, sfruttare a proprio vantaggio l'intermediazione delle piattaforme online, accedere ad agevolazioni, finanziamenti e contributi. Un testo pensato per gli imprenditori ma utile anche ai professionisti (commercialisti, ragionieri, consulenti del lavoro, fiscalisti, tributaristi) che saranno chiamati a seguire gli home restaurant sotto l'aspetto amministrativo, contabile e fiscale.

    La formula del social eating e degli home restaurant è stata (e continua ad esserlo) fonte di preoccupazione per i soggetti della ristorazione tradizionale che l'hanno interpretata (erroneamente) come una forma di concorrenza sleale in quanto esercitata senza dover ottemperare a specifici obblighi di legge cui sono soggetti i ristoratori tradizionali. Tale tesi, come vedremo, è assolutamente inattendibile poiché anche gli home restaurant, al pari dei tradizionali ristoranti, sono soggetti a regole ben precise. Inoltre non potrebbe essere in alcun caso un business concorrenziale ai tradizionali ristoranti poiché l'home restaurant va a coprire esclusivamente una nicchia di mercato lasciata scoperta. L'home restaurant, a parere di chi scrive, rappresenta la naturale evoluzione del più nobile concetto di ristorazione.

    In tema fiscale la Commissione Europea, parlando di sharing economy, è stata chiara: gli Stati membri dovrebbero mirare a obblighi proporzionati e a condizioni di parità e ad applicare obblighi fiscali funzionalmente analoghi alle imprese che forniscono servizi comparabili. Quindi se da una parte non sono previsti maggiori oneri per chi fa social eating e sceglie di avviare un home restaurant, alla medesima maniera non si può essere troppo tolleranti. Per dirla in sintesi, chi avvia un home restaurant deve necessariamente rispettare gli obblighi previsti per le tradizionali attività di ristorazione. A cominciare dalla legge che si applica alle attività di somministrazione al pubblico di alimenti e di bevande in quanto, anche se i prodotti vengono preparati e serviti in locali privati coincidenti con il domicilio del cuoco, rappresentano comunque locali attrezzati aperti alla clientela. Gli home restaurant, poi, prevedono il pagamento di un corrispettivo e, pertanto, sono da considerarsi attività economica in tutti i sensi.

    Sotto l'aspetto legislativo, l'articolo 64, del D.Lgs. n. 59/2010, come modificato, dall'articolo 2, comma 2, del D.Lgs. 147/2012 prevede specifici obblighi per chi avvia un esercizio di somministrazione di alimenti e bevande al pubblico. Attenzione anche alle disposizioni dettate dell'articolo 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, nei casi in cui è prevista la segnalazione certificata di inizio di attività da presentare allo sportello unico per le attività produttive del comune competente per territorio. Per i soggetti che esercitano l'attività senza autorizzazione o senza aver espletato i necessari adempimenti sono previste sanzioni amministrative. Il processo di avvio di un'attività d'impresa oggi è notevolmente semplificato: una sola procedura sostituisce ogni autorizzazione, licenza, permesso o nulla osta per l'avvio di un'attività imprenditoriale, commerciale o artigianale. In sintesi, sono stati pressoché azzerati i tempi di attesa per l'avvio di una attività. Non solo: una sola comunicazione consente all'imprenditore di iscriversi al Registro Imprese, richiedere la partita Iva, aprire una posizione assicurativa Inail e quella previdenziale Inps.

    Per non parlare, poi, del trattamento fiscale delle attività commerciali svolte in maniera occasionale: l'articolo 67, comma 1, lett. i), del D.P.R. n. 917 del 1986 include fra i redditi diversi quelli derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente e concorrono, unitamente agli altri redditi posseduti dal soggetto, a formare il reddito complessivo. Diversamente, laddove l'attività commerciale si configuri come abituale, i redditi sono qualificati come redditi d'impresa ai sensi dell'articolo 55 del TUIR.

    Anche in termini di imposta sul valore aggiunto, il presupposto soggettivo dell'imponibilità dell'Iva sussiste qualora le prestazioni di servizi siano non occasionali ovvero non rientranti in un'attività esercitata per professione abituale. Niente Iva, quindi, ma solo se l'attività viene esercitata non in modo sistematico o con carattere di stabilità e senza organizzazione di mezzi che è indice di professionalità dell'esercizio dell'attività stessa. Diversamente, l'attività svolta in modo sistematico e con carattere di stabilità rientra nel campo di applicazione dell'imposta ai sensi di quanto previsto dall'articolo 4, comma 1, del D.P.R. n. 633 del 1972. Ma anche in tale ambito c'è molto da approfondire: il nostro ordinamento prevede, infatti, la possibilità di optare per un regime fiscale agevolato, il regime forfetario di cui all’articolo 1, commi da 54 a 89, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, che di fatto esonera i contribuenti dal versamento dell'imposta sul valore aggiunto e da tutti gli obblighi contabili e dichiarativi previsti dal DPR 633/1972 e permette di accedere ad un regime fiscale vantaggioso (reso ancora più conveniente per i primi anni di attività) e di un regime previdenziale agevolato (la contribuzione dovuta alle gestioni artigiani e commercianti avviene, su opzione, in percentuale rispetto al reddito forfetario). Ma per accedere al regime agevolato occorre rispettare una serie di requisiti. Anche in ambito contabile i soggetti che rientrano in determinati limiti sono esonerati dalla tenuta delle scritture contabili ordinarie in luogo di un regime contabile semplificato. Anche qui i vantaggi sono notevoli: minori oneri in termini di adempimenti e, quindi, minori costi.

    Attenzione anche alle norme generali in materia di igiene dei prodotti alimentari quali, ad esempio, il possesso dell'attestato dell'analisi dei rischi e controllo dei punti critici (HACCP) ai sensi del regolamento (CE) n. 852/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, sull'igiene dei prodotti alimentari.

    Ma questo è soltanto l'inizio. Grande attenzione anche alla forma giuridica dell'impresa. Nelle imprese individuali il soggetto giuridico è una persona fisica ossia l'imprenditore. Costui è responsabile per le obbligazioni assunte e risponde degli obblighi aziendali anche con il proprio patrimonio personale. Come si vedrà, l'impresa individuale è solitamente di dimensioni limitate: l'imprenditore conserva autonomia decisionale, ha un rapporto diretto con i propri lavoratori in quanto non sussistono filtri gerarchici, vi è facilità di comunicazione e di coordinamento. Quando, invece, due o più persone si mettono insieme per un perseguire un fine comune ecco che si parla di società. In tal caso occorre scegliere se costituire una società di persone o di capitali. La differenza non è da poco considerando che nelle società di persone vi sono soci che, laddove il patrimonio della società non sia in grado di soddisfare i debiti, rispondono personalmente delle obbligazioni sociali. Di regola, invece, nelle società di capitali a rispondere delle obbligazioni in caso di insolvenza è il patrimonio della società stessa. Ma l'imprenditore potrà scegliere di avvalersi della collaborazione dei propri parenti o affini. In questo modo si dà vita ad una impresa familiare, disciplinata dall'articolo 230-bis del codice civile. Sotto il profilo tributario il reddito dell’impresa familiare è dichiarato nel suo ammontare complessivo dall’imprenditore, unico titolare dell’impresa, il quale può imputare parte del suo reddito ai familiari per un ammontare non superiore al 49%. Le perdite, invece, vanno imputate per intero al titolare dell’impresa familiare.

    Non si scoraggi il lettore che vuole avviare un home restaurant di fronte a tutte queste nozioni. Troverà tutto spiegato attentamente nelle pagine di questo libro. Ogni problematica sarà opportunamente esaminata, i dubbi saranno sciolti, le perplessità saranno affrontate. Il lettore comincia da qui un viaggio che lo condurrà all'interno della sharing economy, imparerà a fare social eating e conoscerà una nuova forma d'impresa chiamata home restaurant. Prenderà atto dei requisiti igienico-sanitari e degli aspetti contabili, fiscali e previdenziali della nuova impresa. Sarà in grado di redigere un business plan, lo strumento che guida l'imprenditore nel processo di sviluppo dell'attività d'impresa, e riuscirà a ricavarne una importante guida strategica, ad evidenziare i propri punti di forza e di debolezza nonché le opportunità e le minacce del mercato, ad individuare i fattori chiave per il raggiungimento degli obiettivi prefissati, a calcolare il break-even point e a eseguire una SWOT analysis. Ma non solo: poiché chi avvia un home restaurant deve conoscere anche le principali tecniche di promozione e di marketing, le piattaforme di sharing economy, le strategie che permettono di raggiungere le prime posizioni dei motori di ricerca. Niente deve essere lasciato al caso e nulla può essere sottovalutato.

    Buon business.

    Nicola Santangelo

    PARTE I – Aspetti generali dell'home restaurant

    1. Introduzione all'home restaurant

    1.1 Il mercato della ristorazione in Italia

    La ristorazione in Italia ha assunto un aspetto di fondamentale importanza non solo per l'elevato grado di qualità raggiunto in questi anni ma anche, e soprattutto, per aver saputo conquistare una indiscutibile posizione di prestigio a livello internazionale. La domanda di ristorazione in Italia è vastissima sia da parte di consumatori locali che da turisti provenienti dall'estero e questo ha permesso lo sviluppo di una molteplicità di formule adatte alle esigenze, ai gusti e alle abitudini di tutti. E' sufficiente fare un giro nel cuore di ogni città per sorprendersi di fronte ad una vastità di esercizi di ristorazione: bar, ristoranti, trattorie, osterie, fast-food, slow-food, mense, self-service, paninoteche, take-away, coffee shop. Ed è proprio questo aspetto poliedrico della ristorazione che ha permesso l'evoluzione di numerose e diversificate strutture. Il territorio italiano, come vedremo di seguito, è ricchissimo di imprese di dimensioni micro-piccole.

    Da non sottovalutare, inoltre, il ruolo che ha assunto l'imprenditoria straniera all'interno del mercato italiano della ristorazione. Nel corso degli anni sono sorte numerose attività di ristorazione gestite da imprenditori immigrati. Si tratta, solitamente, di ristoranti che richiamano le tradizioni e gli usi dei propri paesi di origine. Confesercenti stima che le imprese straniere operanti nel settore dell'alloggio e della ristorazione nel 2015 sono pari a 40.411, il 7,7% del totale delle imprese straniere in Italia.

    La ristorazione in Italia presenta un mercato alquanto frastagliato e segmentato, dove i ristoranti di alta qualità dedicati ai consumatori di élite riescono a convivere con attività più modeste, che offrono piatti legati maggiormente alla cultura, alle tradizioni e al territorio. Molti ristoratori, poi, hanno scelto di concentrare i propri sforzi e operare all'interno di una nicchia di mercato ancora più ristretta, offrendo il loro servizio ad uno specifico cluster di clienti. Non è raro oggi trovare i cosiddetti ristoranti a tema, ossia strutture ristorative la cui offerta è relativa ad uno specifico tipo di cucina o di piatti. L'idea di rivolgersi ad un ristretto cluster di clienti è risultata vincente per molti ristoratori che hanno saputo coniugare la tradizione con la sperimentazione e l'innovazione. Operando all'interno di un mercato ristretto, infatti, l'acquisizione della clientela risulta meno difficile poiché i bisogni dei consumatori sono più trasparenti e, quindi, facilmente intercettabili a livello di marketing: un cliente vegetariano sceglierà sicuramente un ristorante che abbia una vasta disponibilità di prodotti vegetariani, un alto standard qualitativo e un ricco menu. Qualità, queste, difficilmente riscontrabili in un ristorante dedicato ad una platea di consumatori più vasta.

    L'ultimo decennio è stato un periodo particolarmente difficile per le imprese che operano nella ristorazione. Come qualunque altro settore in Italia (e in Europa) la ristorazione ha subito gli effetti della crisi economica. Le famiglie, costrette ad applicare una drastica spending review, hanno preferito tagliare il budget destinato al turismo, agli alloggi e alla ristorazione. I consumi delle famiglie sono stati decisamente ridotti e questo ha determinato un inevitabile abbattimento del fatturato delle imprese.

    In effetti, le prime avvisaglie di crisi si ebbero nel 2007 e provocarono una forte esplosione a metà del 2008, in contemporanea con il fallimento di grosse banche d'affari americane, seguita da una nuova fase recessiva tra il 2012 e il 2013. La prima recessione causò la caduta del commercio internazionale e il relativo crollo del Pil (la perdita massima raggiunse il 7% circa); la seconda, invece, determinò una vera e propria stretta al credito operata dalle banche. Nel 2015 il valore del Pil ai prezzi di mercato è stato pari a 1.636.372 milioni di euro correnti, in crescita dell'1,5% rispetto all'anno precedente. In termini di volume il Pil ha segnato un aumento dello 0,8% contro il calo dello 0,3% dell'anno precedente.

    Fonte: Istat - Andamento del Pil in volume - Anni 2000-2015, variazioni percentuali, valori concatenati

    Durante il periodo della crisi i Paesi e le banche centrali hanno adottato una serie di provvedimenti e di riforme che si sono rivelati più o meno efficaci. Da una parte i Paesi hanno attuato semplificazioni e stimoli di tipo fiscale e misure di sostegno in favore dell'occupazione; dall'altra le banche centrali hanno iniettato liquidità sul mercato (quantitative easing) e ridotto i tassi di interesse.

    Le perdite in questi anni sono state ingenti: la spesa delle famiglie si è ridotta di 76 miliardi di euro; il reddito disponibile ha registrato un calo di 697 milioni di euro; il potere di acquisto delle famiglie è diminuito di circa 30 miliardi di euro.

    Dopo anni di recessione, nel 2015 l'economia italiana è tornata a registrare una crescita. Il periodo segna una fase di recupero, sebbene ancora caratterizzata da incertezza e fragilità e improntata ad un cauto ottimismo. Nonostante la lieve ripresa i conti delle famiglie sono parecchio distanti dai livelli pre-crisi. Il consolidamento risulta, quindi, irregolare e molti imprenditori presentano ancora una elevata difficoltà economica e finanziaria. Eppure, stando agli ultimi dati ufficiali che verranno presentati di seguito, il 2015 sembra essere stato l'anno della svolta, l'anno in cui i prezzi hanno ripreso a salire, i consumi sono aumentati, la spesa è stata affrontata con maggiore serenità e il clima di fiducia è migliorato sensibilmente. Da non dimenticare che una spinta non indifferente al settore è stata data da Expo 2015 e dal Giubileo.

    L'interesse degli italiani per la ristorazione ha avuto una importante impennata negli ultimi anni, in parte dovuto proprio all'Expo 2015, che ha focalizzato l'attenzione sul cibo e sulla corretta alimentazione, e al cosiddetto fenomeno food ossia il grande risalto mediatico dato al settore da parte di molti chef in diversi programmi televisivi. Il grafico di Google Trends (lo strumento di Google che permette di esplorare gli argomenti di tendenza, i dati e le visualizzazioni di ricerca) alla keyword ristorante nel periodo gennaio 2004 – maggio 2016, mostra chiaramente la crescita del numero delle ricerche in cui il termine è stato utilizzato all'interno della chiave di ricerca.

    Fonte Google Trends: interesse nel tempo del termine ristorante in Italia tra gennaio 2014 e maggio 2016

    In Europa il mercato della ristorazione vale 504 miliardi di euro. L'Italia è seconda solo a Regno Unito e Spagna. Tenendo conto della popolazione e a parità di potere d'acquisto la spesa pro-capite in Italia è del 22% superiore alla media europea e questo testimonia l'importanza che l'alimentazione e il cibo rivestono nei modelli di consumo adottati dalle famiglie italiane.

    Secondo un recente rapporto sulle abitudini alimentari degli italiani presentato da Censis e Coldiretti, l'80% degli italiani maggiorenni mangia almeno una volta a settimana fuori casa, presso un esercizio pubblico. A farlo maggiormente sono gli uomini, i giovani e i residenti al nord-est.

    Elaborazione su dati Rapporto Censis-Coldiretti – Italiani che mangiano fuori casa 

    Da non sottovalutare l'impatto che il turismo ha sulla ristorazione italiana: secondo gli ultimi dati dell'Ufficio Studi Fipe, i turisti stranieri hanno speso in Italia nell'ultimo anno 8,4 miliardi di euro. A fronte di un costante aumento dell'interesse per la ristorazione, le famiglie italiane – sulla base delle indicazioni Istat – hanno tuttavia ridotto la spesa media mensile dedicata ai servizi ricettivi e di ristorazione. La riduzione del budget è stata notevole: con un abbattimento del 10% circa, la spesa media mensile è passata da 122,74 euro del 2004 a 110,26 euro del 2014. La spesa delle famiglie, stando alle statistiche Fipe 2014, si è attestata a 74.664 milioni di euro. 

    Elaborazione su dati Istat: spesa media mensile familiare (in euro) dal 2004 al 2014

    Nel 2014 a destinare una spesa per servizi ricettivi e di ristorazione superiore alla media sono state le regioni del centro-nord e le province autonome di Trento e di Bolzano. In particolare per quest'ultima la spesa media mensile familiare ha raggiunto quota 239,14 euro. Maggiormente penalizzate, invece, le province del centro-sud, con la Calabria a chiudere l'elenco con un modesto 47,87 euro. 

    Elaborazione su dati Istat: spesa media mensile familiare (in euro) 2014

    La riduzione della spesa mensile delle famiglie italiane destinata ai servizi ricettivi e di ristorazione si registra, di riflesso, sul fatturato delle attività dei servizi di ristorazione. Negli anni successivi al 2007 il fatturato delle attività di ristorazione ha subito notevoli oscillazioni con particolare gravità negli anni 2009 e 2012. Il 2015 ha segnato, invece, un parziale recupero delle perdite subite negli anni precedenti. Da evidenziare il +1,8% di fatturato nelle attività dei servizi di ristorazione relativo al quarto trimestre 2015 rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. 

    Fonte: Istat - Fatturato dei servizi di alloggio e ristorazione - IV trim. 2015, variazioni percentuali (indici in base 2010=100) 

    L'andamento poco soddisfacente del settore legato ai servizi di ristorazione è facilmente attribuibile alle difficoltà che in questi anni ha incontrato l'Italia ad uscire dalla crisi economica. Nel settore della ristorazione 6 miliardi di euro sono andati in fumo a causa della crisi. Fipe stima che le imprese hanno perso 1,2 miliardi di euro a causa della spendig review operata dalle famiglie italiane e 4,8 miliardi di euro a causa di mancata crescita. 

    Elaborazione C.S. Fipe su dati Istat - Consumi delle famiglie nella ristorazione - valori concatenati a.r. 2010 in mln. di euro 

    La pessima performance dell'economica italiana ha, infatti, flagellato grandi imprese e Pmi e, indubbiamente, non ha risparmiato il settore della ristorazione. Nello specifico, il calo del potere di acquisto dei consumatori ha, di riflesso, dato origine ad un crollo della spesa per i consumi fuori casa: una economia più rigida comporta, infatti, inevitabili tagli alla spesa da parte delle famiglie. 

    Fonte: Fipe - Numero di coperti - saldi grezzi delle variazioni (I trim. 2007 - I trim. 2016)

    Il 2015, comunque, può essere considerato, anche per il settore della ristorazione, l'anno in cui si è interrotta la dinamica di contrazione dei consumi cominciata nel 2008 per quella che, successivamente al fallimento di Lehman Brothers, è passata alla storia come crisi dei mutui subprime. 

    Elaborazione su dati Istat: indici del fatturato dal 2010 al 2015 (base 2010=100) relativi alle attività dei servizi di ristorazione (cod. Ateco: 56) in Italia

    La contingenza economica e la stretta monetaria operata dalle banche hanno costretto molti imprenditori a rivedere la propria policy finanziaria ed operativa. Alcuni di questi hanno puntato tutto sull'innovazione, hanno sostenuto i giusti investimenti e sono riusciti a rinnovare la propria attività affrontando la crisi di liquidità con maggiore determinazione. Altri, invece, non hanno saputo sfruttare le poche opportunità presenti. Conseguenza è stato un alto tasso di mortalità delle imprese rispetto al tasso di natalità.  

    L'anno 2014 è stato devastante per le imprese operanti nel settore della ristorazione. A causa del perdurare dell'emergenza relativa alla bassa produttività è stato registrato un saldo negativo sul turnover imprenditoriale: i dati Fipe evidenziano una sostanziale fragilità del settore relativo all'attività di ristorazione. Al lordo delle imprese cessate d'ufficio, il saldo tra imprese avviate e imprese cessate è stato pari a -10.290 unità, in crescita rispetto all'anno precedente quando il saldo finale si attestò a -9.056. Tra i ristoranti, hanno avviato l'attività 9.018 imprese mentre 14.166 l'anno cessata, portando il dato a -5.148 unità.

    Elaborazione C.S. Fipe su dati Infocamere - Imprese iscritte e cessate - Servizi di ristorazione

    Analizzando il dato in maniera più dettagliata, nessuna regione italiana fa registrare un risultato positivo. Tuttavia numerose sono le regioni, come ad esempio Sicilia (-5%), Abruzzo (-4,2%) e Piemonte (-4,1%) in cui il dato assume valori abbondantemente inferiori alla media. 

    Elaborazione C.S. Fipe su dati Infocamere - Imprese iscritte e cessate per regione - Servizi di ristorazione

    Il 2015 è, invece, l'anno della svolta. Il numero dei ristoranti al secondo trimestre aumenta del 3% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Il dato mette in luce una crescita molto più veloce rispetto ai bar che presentano solo un timido +0,7%. Le performance migliori provengono dai ristoranti del centro (+3,4%) e delle isole (+3,3%). 

    Fonte: Fipe - Pubblici esercizi - II trim 2015

    Fonte: Fipe - Variazione dei pubblici esercizi - II trim 2015

    Il fatturato delle imprese che operano nei servizi di ristorazione è condizionato dalla stagionalità dell'attività. Il periodo estivo è, infatti, il momento in cui si registra una maggiore affluenza di clienti e, di conseguenza, un maggiore fatturato. Nel periodo di luglio, agosto e settembre, infatti, il fatturato può crescere anche del 25% rispetto al 1° trimestre dell'esercizio, tradizionalmente il periodo i cui i ricavi sono piuttosto contenuti. 

    Elaborazione su dati Istat: indici del fatturato per trimestre dal 2010 al 2015 (base 1° trim.=100) relativi alle attività dei servizi di ristorazione (cod. Ateco: 56) in Italia 

    Dalle ultime rilevazioni dell'Ufficio Studi Fipe, la situazione occupazionale del fuoricasa italiano impiega attualmente 693.025 addetti. E' questo un dato molto importante considerando che quello della ristorazione è un settore prevalentemente labour intensive, nel quale il lavoro rappresenta la componente essenziale. Non è raro, infatti, notare una certa simmetria tra la crescita del prodotto e l'aumento dell'occupazione. 

    Elaborazione su dati Istat: numero imprese attive in Italia nel 2013

    In merito alla forma giuridica, la metà delle imprese attive che operano nel settore dei servizi di ristorazione è impresa individuale. Si tratta, in linea di massima, di piccole imprese, spesso a carattere familiare. Seguono le società in nome collettivo (20%), le società in accomandita semplice (15%) e le società a responsabilità limitata (13%) mentre sono pressoché inesistenti le società per azioni e in accomandita per azioni e le altre forme d'impresa (consorzio di diritto privato ed altre forme di cooperazione fra imprese, ente pubblico economico, azienda speciale e azienda pubblica di servizi, impresa o ente privato costituito all’estero non altrimenti classificabile che svolge una attività economica in Italia, autorità indipendente). 

    Fonte Istat: distribuzione delle imprese attive per forma giuridica - anno 2013

    La forte presenza di micro imprese all'interno del settore della ristorazione è tipico dell'economia europea. Secondo i dati relativi all'anno 2011 rilasciati da Eurostat nel 2014, nella UE a 27 Paesi le microimprese in totale erano il 92,8% del totale delle imprese. Secondo le ultime rilevazioni Istat disponibili, nel 2013 il 95% delle imprese attive operanti in attività dei servizi di ristorazione ha meno di 10 addetti (micro impresa). Per il restante 5% le risorse non superano il numero di 50 unità (piccola impresa). Tale quota minoritaria è spesso detenuta da imprese che operano in Italia avvalendosi di particolari soluzioni organizzative e, pertanto, solitamente facenti parte di catene o di affiliazioni in franchising.  

    C'è da dire che in Italia le micro imprese operanti nel settore della ristorazione hanno rappresentato un importante punto di forza contro la crisi anche grazie alla flessibilità, soluzione che ha permesso di rispondere meglio ai contesti più difficili. L'Italia, poi, è un Paese a forte densità imprenditoriale. Infatti, mentre in Francia il rapporto è di 329 imprese ogni 100.000 residenti, in Germania 198 ogni 100.000 e nel Regno Unito 181 ogni 100.000, in Italia il rapporto è di 440 imprese ogni 100.000 residenti.

    E' il nord-ovest il territorio italiano che accoglie il maggior numero di imprese attive che svolgono attività dei servizi di ristorazione (27%). Fra le regioni emerge la Lombardia che da sola detiene il 15% delle imprese di ristorazione di tutta Italia. Seguono Lazio (10%), Veneto (9%) e Campania (8%).

    E' proprio la quarta posizione della Campania che spiega come la diffusione delle imprese che svolgono attività di servizi di ristorazione in Italia dipenda prevalentemente dalla popolazione residente piuttosto che dal reddito o dalla propensione al consumo. Le imprese del comparto ristorazione sono, infatti, caratterizzate da una elevata capillarità. Risulta interessante, quindi, ai fini della nostra analisi verificare la distribuzione territoriale delle attività di ristorazione.

    Elaborazione su dati Istat: imprese attive in Italia nel 2013 per regione 

    Da un'indagine condotta dal Centro Studi Fipe nel 2012, il prezzo di un pasto alla carta è inferiore a 40 euro nel 41% dei ristoranti. Sette ristoranti su dieci hanno prezzi superiori a 75 euro mentre solo il 2% dei ristoranti presenta prezzi superiori a 100 euro. Si tratta, in pratica, dei cosiddetti ristoranti stellati. 

    Indagine C. S. Fipe su dati Guide dei Ristoranti - Prezzo di un pasto alla carta

    Da un'altra indagine condotta nel 2015 è, invece, emerso che il 63,6% dei consumatori (circa 6,6 milioni di persone) pranza al ristorante durante il fine settimana almeno tre volte al mese e spende 18,60 euro mentre il 66,8% (circa 7,3 milioni di persone) cena al ristorante durante il fine settimana almeno tre volte al mese e spende 22,30 euro. 

    Fonte: Fipe - Mappa dei consumi alimentari fuori casa

    Il miglioramento della congiuntura e le prospettive di una uscita dalla crisi economica ha avuto riflessi anche sui listini. Nel mese di marzo 2016 i prezzi dei servizi di ristorazione hanno fatto registrare una variazione dello 0,1% rispetto al mese precedente e dell'1,2% rispetto allo stesso mese dell'anno precedente. 

    Fonte: Fipe - Prezzi al consumo per l'intera collettività

    Fonte: Fipe - Prezzi nei servizi di ristorazione (mar. 2015 - mar. 2016, var. % congiunturali)

    Elaborazione C.S. Fipe su dati Istat - Servizi di ristorazione (var. % sullo stesso mese dell'anno precedente)

    1.2 Definizione di home restaurant

    Il 2015 è stato finalmente l'anno in cui si è interrotta la dinamica di contrazione dei consumi. Come abbiamo visto dalla precedente analisi di mercato, tutti gli indicatori sulla congiuntura economica mostrano segnali di ripresa: le riforme adottate dai vari Paesi cominciano a mostrare i primi segnali incoraggianti, ancorché timidi; il clima di fiducia delle imprese è notevolmente migliorato; le famiglie tornano a spendere in ristorazione.

    Le perplessità e i timori, tuttavia, non mancano. Vero è che il Pil 2015 è cresciuto dello 0,8% e che l'Istat prevede nel 2016 un Pil pari all'1,1% (la variazione acquisita per il 2016 al mese di agosto è stata pari a +0,6%) ma una crescita così lenta alimenta ancora dubbi sulla ripresa del commercio internazionale, sulle tensioni sui mercati finanziari, sulla tenuta dei conti pubblici e su una probabile restrizione della politica economica e fiscale. Tuttavia, sebbene la crescita avvenga a passo di lumaca, sembra proprio che l'Italia abbia imboccato la direzione giusta per l'uscita dalla crisi e questo risultato, che arriva dopo tre anni di profonda recessione, non può che essere considerato come ottimistico.

    Nel periodo 2007-2014 i consumi fuori casa sono stati ridotti dell'1,7% con perdite che hanno raggiunto complessivamente 1,2 miliardi di euro. Tuttavia se ai tagli viene aggiunta anche la mancata crescita, il saldo negativo raggiunge i 6 miliardi di euro.

    Per quanto possa apparire marginale, il recupero dell'anno 2015 rappresenta un importante segnale di ripresa: i consumatori, le famiglie in genere, tendono a guardare oltre la crisi. Dopo interi mesi costretti a rinunce e privazioni finalmente stanno destinando una parte dei loro risparmi alle attività ricreative e di svago (la spesa delle famiglie in termini reali è stimata in aumento dell'1,4%) e riprendono a frequentare con maggiore costanza i bar, i ristoranti e le pizzerie.

    Fipe ha individuato tre differenti tipologie di consumatori:

    heavy consumer: 13 milioni di persone che consumano almeno 4-5 pasti fuori casa in una settimana;

    average consumer: 9 milioni di persone che consumano almeno 2-3 pasti fuori casa in una settimana;

    low consumer: 17 milioni di persone che consumano almeno 2-3 pasti fuori casa in un mese.

    Le prospettive incoraggianti dell'economia italiana spingono, quindi, i consumi fuori casa. Tuttavia i consumatori di oggi hanno esigenze e desideri diversi rispetto a quelli di qualche anno fa e i ristoratori al fine di soddisfare queste aspettative devono necessariamente puntare su innovazione, competenza e qualità. Oggi non si va più al ristorante soltanto per soddisfare un bisogno primario come quello dell'alimentazione ma si frequentano gli esercizi pubblici anche, e soprattutto, per trovare un ambiente conviviale dove incontrarsi con amici e conoscere nuova gente.

    Anche per questo negli ultimi anni si è sviluppata una nuova forma di business, sotto certi versi rivoluzionaria, che agevola l'incontro e l'interazione tra le persone. In pratica, la crisi economica, le limitate possibilità di spesa dei consumatori e la volontà di mantenere inalterati livelli e stili di vita hanno spinto sempre più persone, da un lato, a studiare forme di consumo più flessibili e, dall'altro, a trovare soluzioni alternative per fare fruttare i propri asset. L'idea, neppure tanto innovativa considerando che nel nostro mercato esistono sempre forme di scambio, è stata quella di mettere a disposizione di terzi il proprio patrimonio dando vita ad un concetto a metà strada tra il noleggio, l'affitto e il baratto e che ha preso il nome di condivisione ovvero, per utilizzare il termine anglosassone, sharing. Internet e le tecnologie in genere, poi, sono stati acceleratori di questo nuovo importante fenomeno di economia. E' così che si sviluppò in tutto il mondo la sharing economy (ma qualcuno parla anche di peer-to-peer economy), un modello economico di dimensione

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