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Odessa
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E-book340 pagine4 ore

Odessa

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Info su questo ebook

Nel 1944, in Germania, l'ipotesi di aver perso la guerra era oramai una realtà. Venne architettato un piano di fuga per i gerarchi nazisti con il supporto di quegli industriali che avevano realizzato lauti guadagni appoggiando il Terzo Reich. Ma cosa succederebbe se, in realtà, questo piano fosse nato molto tempo prima con uno scopo ben diverso?
E se qualcuno, ai giorni nostri, volesse portarlo a termine?

Dal fondo di acque gelide, riaffiorerà un segreto che darà origine ad una successione di eventi a catena che, a loro volta, faranno riemergere nuovi enigmi sempre più improbabili, a volte inspiegabili, ma non impossibili.

Il reporter Max Rain, documentarista della H&MW, si troverà nuovamente coinvolto nella ricerca di un relitto che sarà solo il principio di un'avventura che ci farà viaggiare in tre continenti, da nord a sud, dalle gelide acque degli abissi marini alle infuocate sabbie del deserto.

Tra incredibili scoperte, folli inseguimenti e stravaganti fughe, una storia che renderà partecipe il lettore, tenendolo incollato fino all'ultima pagina.
LinguaItaliano
Data di uscita27 feb 2014
ISBN9788898414079
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    Anteprima del libro

    Odessa - Alessandro Perdon

    presente

    Prologo

    Sentiva l’aria gelida penetrargli lo spesso giaccone di pelle, del resto era trascorsa quasi un’ora da quando era uscito da casa in quella gelida notte di fine ottobre a Salisburgo. Senza perdere d’occhio la strada, cercò di ripararsi accostandosi al muro che gli offriva anche protezione da eventuali occhi indiscreti. Quel ritardo lo stava preoccupando. Ad ogni minuto che passava sentiva l’inquietudine aumentare, forse erano stati scoperti. Iniziava a considerare l’idea di andarsene, quando udì il rumore di un camion che, a fari spenti, svoltava nella strada e si dirigeva verso la sua posizione.

    Samuel Frank osservò il mezzo che si avvicinava lentamente: un autocarro di medie dimensioni con il telone che copriva la parte posteriore.

    Era giunto il momento critico, sperava si trattasse delle persone che aspettava, altrimenti, il suo destino sarebbe stato segnato: morte. Si portò sul bordo della strada e alzò un braccio per farsi vedere dall’uomo alla guida.

    Con uno stridio di freni, che nella notte silenziosa sembrò un rumore assordante, il camion si fermò a pochi metri da lui. Non vide la faccia di chi si trovava all’interno della cabina, ma una voce lo invitò a salire nel cassone. Samuel Frank seguì l’ordine senza obiettare, anche se, in cuor suo, aveva sperato in una sistemazione più comoda e, soprattutto, più calda. Spostò il telo indurito dal gelo e caricò il suo piccolo bagaglio, dopodiché vi salì lui stesso. Quando la vista si abituò al nuovo ambiente, si accorse di non essere solo, scorse, infatti, altre tre persone avvolte nei loro pesanti indumenti. Nessuno disse nulla, se ne stavano seduti, infagottati per proteggersi dai numerosi spifferi gelidi. L’autocarro, tra sobbalzi e cigolii vari, si rimise in marcia.

    Il tragitto da percorrere all’interno della città non era tanto, ma, per evitare le pattuglie, furono costretti a compiere il viaggio fra stretti vicoli e strade secondarie meno battute. Ogni volta che il vecchio camion prendeva una buca sentiva borbottare delle imprecazioni, ma non riusciva a capire da quale dei suoi misteriosi compagni di viaggio provenissero. Più di una volta sentirono l’autocarro cambiare bruscamente direzione, quasi certamente quelle manovre servivano ad eludere qualche posto di controllo mobile, uno di quelli che ogni notte venivano collocati in una diversa zona della città.

    Il viaggio proseguì per quasi due ore, Samuel si sentiva stanco e intorpidito per la scomoda posizione e l’intenso freddo, cercò di pensare a qualcosa che lo distraesse dalla realtà, ma l’ansia accumulata nelle precedenti settimane non gli dava tregua, anzi, in virtù della fuga in corso, aveva raggiunto il suo culmine.

    Una decina di chilometri fuori da Salisburgo il piccolo aeroporto sembrava addormentato, salvo che per le guardie di turno in quella notte da lupi. Ai lati della pista, si trovavano allineati una ventina di caccia e, poco oltre, un grosso Ford Trimotor con la fusoliera grigia su cui spiccavano le insegne svedesi. Due meccanici avevano appena finito di effettuare il rifornimento di carburante, mentre i piloti eseguivano gli ultimi controlli prima del lungo volo.

    Le guardie di turno al cancello principale sentirono avvicinarsi l’autocarro che rallentò fermandosi a pochi metri dal reticolato di filo spinato. Un militare, armato di mitra, si avvicino all’abitacolo e prese il foglio che l’uomo alla guida teneva, ben visibile, fuori dal finestrino. Il soldato controllò il documento, poi fece cenno ad un compagno che si diresse verso una baracca posta oltre le recinzioni di sicurezza.

    Dovettero attendere alcuni lunghi minuti, mentre un riflettore e diverse armi restavano puntate sul camion. Finalmente, videro un uomo alto avvicinarsi a loro; con la luce che li accecava non era facile distinguerne i lineamenti, ma il cappotto di pelle ed il cappello lo identificavano, senza ombra di dubbio, come ufficiale. Il nuovo arrivato scrutò l’interno della cabina, poi girò intorno all’autocarro e, giunto nella parte posteriore, aprì il telone. I quattro uomini all’interno rimasero abbagliati dalla luce, ma sapevano bene cosa fare. Ognuno porse una busta a quell’uomo che aveva il potere assoluto di decidere il loro futuro, di vita o di morte. L’ufficiale le prese e si allontanò per tornare nella baracca a controllarne il contenuto. Ognuna di quelle buste conteneva cinquantamila marchi tedeschi, il prezzo per la vita.

    I quattro uomini nel cassone, nel frattempo, erano tenuti sotto controllo da una delle guardie che, reggendo un mitra, giocava a mettere e togliere la sicura. L’ufficiale uscì dalla baracca e urlò degli ordini alla volta dei militari che si affrettarono a togliere i reticolati per far passare il camion. La guardia che li teneva d’occhio, prima di chiudere il telo, fece il gesto di sparare ed emise un minaccioso «Bang!» Accompagnandolo con una risata malvagia da far gelare il sangue.

    L’autocarro percorse lentamente il tragitto verso l’aereo che li attendeva. Lieti di abbandonare lo scomodo e freddo cassone, i quattro uomini salirono a bordo del trimotore trasportando i pochi bagagli che avevano avuto il permesso di portare. Una volta all’interno, si resero conto di essere gli unici quattro passeggeri in mezzo ad un carico composto da casse che non riportavano alcuna scritta che ne identificasse il contenuto.

    I tre motori si avviarono ed il loro rombo sordo si diffuse nella fusoliera seguito, dopo alcuni minuti, da un leggero tepore prodotto dal riscaldamento. Dopo le ore passate tra il freddo e l’angoscia, la tensione si allentò e, trascorsi pochi minuti, Samuel sentì di cedere al sonno, il peggio sembrava essere passato.

    Il pilota aumentò la potenza dei motori e l’aereo si mosse in direzione della pista, preparandosi al decollo. La prima parte del volo, di circa ottocento chilometri, li avrebbe portati al sicuro a Trelleborg, sulla costa svedese, e da lì sarebbero volati verso la capitale, Stoccolma. Il Ford Trimotor aveva una velocità di crociera di centocinquanta chilometri orari e il volo sarebbe durato quasi sei ore; gli esperti piloti erano certi del fatto che, con un’autonomia, sia pur risicata per quel viaggio, di novecento chilometri non avrebbero avuto problemi.

    Mentre iniziavano a scendere degli impalpabili fiocchi di neve, il rombo dei tre motori radiali Pratt & Whitney ruppero il silenzio. Gli oltre quattrocento cavalli iniziarono a spingere l’aeroplano lungo una pista insufficientemente illuminata, ma l’esperto comandante non si lasciò intimorire e spinse con decisione le manette del gas.

    Consumata la prima metà della pista, i piloti sentirono il ruotino di coda dell’aereo staccarsi dal suolo, il velivolo si mise in posizione orizzontale, a quel punto tirarono la cloche ed anche le due ruote anteriori si sollevarono da terra.

    Dalla finestra di una delle baracche del piccolo aeroporto, un ufficiale aveva osservato tutto con molta attenzione. «Si accerti che quell’aereo ed i suoi passeggeri non arrivino a destinazione. La ritengo personalmente responsabile.» Disse rivolto al suo subordinato. L’uomo fece un cenno d’assenso con la testa, poi porse al suo superiore due terzi delle somme pagate dai fuggitivi, il resto lo avrebbe diviso con gli altri ufficiali presenti.

    Il Feldmaresciallo Hermann Goering prese personalmente il bottino e lo ripose nella sua valigetta di pelle, poi fece un segno al proprio autista che uscì dirigendosi verso la Mercedes-Benz 770 Tourenwagen nera e avviò il potente motore.

    «Risolto il problema, distrugga la documentazione.» Continuò Goering. «Non vorrei che quelle carte, con apposta la mia firma, finissero nelle mani sbagliate.»

    Infilò i guanti di pelle poi fece il saluto nazista ma, prima di uscire, con un tono velatamente minaccioso, disse. «Confido nella sua lealtà al Terzo Reich.»

    Il Feldmaresciallo si voltò e lasciò la baracca. L’altro ufficiale non disse nulla, l’avidità di Goering non era certo un segreto, e lo avrebbe dimostrato negli anni a seguire, con la minuziosa opera di saccheggio a proprio beneficio del patrimonio artistico nei vari paesi occupati.

    A poco più di un’ora dal decollo, volando in linea retta verso nord, l’aereo aveva oltrepassato i confini austriaci per poi sorvolare parte del suolo tedesco ed ora si trovavano sopra il territorio cecoslovacco. Nel giro di una trentina di minuti, sarebbero tornati sopra la Germania per lasciarsi Berlino sulla destra poi, oltrepassato il Mar Baltico, avrebbero raggiunto la Svezia. Sembrava tutto abbastanza semplice.

    I piloti constatarono che, grazie al vento favorevole, il consumo di carburante era stato minore di quanto avessero supposto. Stava andando tutto per il meglio, potevano anche rilassarsi.

    La stessa sensazione di tranquillità aveva pervaso anche i passeggeri, da alcuni minuti, tre di loro avevano iniziato a conversare. Ognuno rivelò il proprio motivo per quella fuga notturna, il quarto uomo, invece, se ne stava isolato in un angolo e pareva non prestare nessuna attenzione a quei discorsi, il suo unico interesse sembrava essere rinchiuso in quella particolare valigetta che non mollava un attimo.

    Poco prima dell’alba, uno degli uomini tirò fuori dalla sua borsa una pagnotta e la divise con gli altri due, il quarto uomo sembrava stesse dormendo. Samuel Frank si accorse di avere molto appetito e addentò di buon grado quel pane che gli veniva offerto; lui, come uno stupido, non aveva pensato a portarsi del cibo.

    Allo spuntare del primo raggio di Sole, gli uomini, incuriositi, si ritrovarono a scrutare dai finestrini la terra che stavano sorvolando, la Germania. Poco più lontano, intravidero lo scintillio delle acque del Mar Baltico, questo bastò a dare il via ad una serie di pacche sulle spalle e strette di mano, quello stretto braccio di mare, largo poco più di cinquanta chilometri, era il confine della loro salvezza.

    Man mano che l’aereo si avvicinava alla costa, le angosce che avevano provato nei giorni precedenti vennero sostituite da una gioia contagiosa. Oramai potevano vedere distintamente il litorale tedesco, che si trovava proprio sotto di loro ed il gelido mare che riempiva l’orizzonte. Forse era solo un’illusione, ma a Samuel parve di vedere la costa opposta.

    Con la luce del mattino i piloti, prendendo come riferimento dei punti ben riconoscibili della costa, poterono verificare la posizione. Tutto sembrava andare meglio del previsto, poco meno di un’ora e sarebbero atterrati.

    Un lampo di luce a sinistra attirò la loro attenzione. I due uomini ai comandi si scambiarono un’occhiata interrogativa, poi tornarono a guardare in quella direzione. Non dovettero attendere molto prima di iniziare a distinguere le sagome di tre aerei in formazione che sembrava puntassero proprio verso di loro. Anche Samuel Frank, attraverso l’oblò dal quale stava osservando, vide materializzarsi i tre aerei e, con un brivido, riconobbe le insegne della Luftwaffe.

    I tre Messerschmitt Bf-109 passarono sotto il più goffo e lento Ford Trimotor, poi effettuarono una virata andandosi a posizionare in coda a questo. L’atmosfera rilassata di pochi minuti prima cedette il posto a nuova agitazione. I minuti successivi sembrarono eterni, il loro aereo aveva mantenuto la rotta inoltrandosi nel mare, mentre i caccia tedeschi gli ronzavano intorno apparentemente inoffensivi. Quella situazione di stallo si protrasse finché si ritrovarono a metà strada tra la Germania e la Svezia, precisamente in mezzo al mare.

    La squadriglia di caccia si allontanò per poi separarsi prendendo direzioni diverse. Gli uomini a bordo del Ford Trimotor osservarono incuriositi quell’esibizione dei potenti caccia, solo gli esperti piloti intuirono la ragione di quella manovra: si preparavano ad attaccare. Disarmati ed inferiori per velocità e manovrabilità, non avevano molte opportunità di salvezza. L’unica cosa da fare era di cambiare rotta e altitudine, forse avrebbero guadagnato un poco di tempo. Il pilota spinse avanti la cloche iniziando una rapidissima picchiata e, contemporaneamente, deviò la rotta più ad ovest. Sperava che questo avrebbe confuso i suoi avversari, ma gli fece guadagnare solo pochi minuti.

    Improvvisamente, si vide piombare addosso uno dei caccia con le due mitragliatrici da tredici millimetri che vomitavano centinaia di colpi. Il pilota, con una manovra ai limiti della resistenza strutturale, impose all’aereo una brusca virata a destra, riuscendo ad evitare, almeno in parte, il fuoco del Messerschmitt. Alcuni proiettili colpirono la fusoliera, ma senza grossi danni. Non fu la stessa cosa con il secondo caccia, che, cogliendoli alla sprovvista durante la manovra elusiva, riuscì a mettere a segno più di un colpo direttamente nel motore di destra che esplose in una nuvola di fumo nero e fiamme prima di staccarsi completamente e precipitare verso le acque sottostanti.

    I piloti, dopo un primo sbandamento, riuscirono a recuperare l’assetto di volo ma, con due soli motori, sapevano che sarebbero stati un bersaglio ancor più facile. Il terzo attacco, come previsto, fu devastante per il Trimotor: i proiettili colpirono in pieno la cabina dei piloti e il motore posizionato sulla fusoliera. L’interno della cabina fu invaso dal fumo, uno dei piloti, presumibilmente, era morto o ferito gravemente. Il secondo pilota cercò di fare l’impossibile: continuare a far volare l’aereo, ma con il solo motore di sinistra funzionante, il Trimotor iniziò una picchiata verso le acque del Baltico.

    Tutto si concluse in pochi attimi, con un ultimo atto di forza dettato dall’istinto di sopravvivenza, il pilota riuscì ad effettuare una sorta di brusco ammaraggio che, nonostante tutti gli sforzi, terminò con il cappottamento dell’aereo che affondò in meno di un minuto. Nessuno riuscì ad uscire dalla fusoliera, chi non era morto nell’impatto, morì annegato al suo interno.

    I tre caccia tedeschi sorvolarono quel tratto di mare più volte in cerca di eventuali superstiti, ma non avvistarono nessuno. Ridisposta la formazione di volo, fecero rientro alla base.

    La missione era stata compiuta.

    1

    Passò la mano su quel mucchio disordinato di mazzette. Si accorse di tremare per l’emozione. Mai prima d’ora si era trovato ad un passo da tanta fortuna, valutò che quella cassaforte doveva contenere almeno dieci milioni di dollari in banconote da cinquanta e cento. Era però ben lontano dalla realtà, infatti, si trattava di una somma pari ad almeno tre volte tanto. Inoltre, sopra i ripiani, si trovavano delle confezioni ricoperte di fine velluto blu e rosso, sicuramente gioielli. Ne prese una e la aprì. All’interno vi scoprì un bracciale, con orecchini abbinati, totalmente ricoperto da lucenti diamanti.

    Restò incantato da tanto splendore, ma non era sua intenzione impadronirsene, preferiva il contante che evitava i rischi di una rivendita sul mercato nero.

    Completamente rapito da quella visione, improvvisamente fu colto da una percezione. Ci mise un attimo a mettere a fuoco cosa lo avesse messo in allerta, poi capì: non sentiva più scorrere l’acqua della doccia. Ripose la scatola contenente i gioielli, poi, con molta tranquillità, afferrò una vecchia busta che si trovava dentro la cassaforte, vi mise all’interno una mazzetta di banconote ed infilò tutto in una tasca. Richiusa la cassaforte, tornò a sdraiarsi sul divano in pelle.

    Dopo pochi minuti venne raggiunto da una bella donna, avvolta in un candido accappatoio, che poteva avere una cinquantina d’anni, ma portati decisamente bene, probabilmente grazie anche all’ottimo lavoro di qualche chirurgo estetico. Lui l’accolse con un ampio sorriso, poi la strinse fra le braccia. Era più giovane di lei di almeno quindici anni, ma questo contava poco: quella donna pagava bene.

    Kevin Belsito, aitante trentaseienne, aveva sempre vissuto compiendo piccole truffe, raggiri on-line grazie alla dimestichezza come hacker, furtarelli e ricettazione ma, da qualche anno, aveva fatto il salto di qualità offrendosi come accompagnatore per donne annoiate da matrimoni di comodo con uomini facoltosi e, soprattutto, assenti. Il suo servizio era completo: le accompagnava a fare shopping, a pranzo, teatro, cinema e poi, se richiesto, passavano la notte insieme. Per questi servizi gli venivano pagati compensi da un minimo di cinquecento dollari in su. A tutto questo si doveva aggiungere qualche regalo extra per le sue prestazioni, ma quel giorno, all’interno del lussuosissimo attico, era stato attratto dalla vista della cassaforte che la sua cliente, incautamente, dopo aver prelevato il denaro per pagarlo non aveva chiuso del tutto. Per Kevin la tentazione di sbirciarci dentro e prendere una parte di quei soldi aveva avuto la meglio. Del resto, rispetto all’ingente contenuto, era solo una piccola cifra e nessuno se ne sarebbe accorto.

    La donna si sedette accanto e gli accarezzò teneramente un braccio, ringraziandolo della nottata trascorsa insieme. «Mio marito dovrebbe rientrare dopo l’ora di pranzo, se vuoi, puoi restare ancora un po’» Propose.

    Kevin fece finta di rifletterci, ma aveva già deciso. «Resterei volentieri, ma ho preso un impegno per il pomeriggio.» Anche se quello era stato il primo appuntamento con quella donna, sapeva bene che le proprie clienti, spesso, cercavano quello che lui non poteva e non voleva dare: l’affetto.

    La donna fece finta di offendersi, poi lo abbracciò e lo baciò.

    Uscito dall’elegante palazzo sito nel centro di San Francisco, Kevin Belsito si guardò intorno riflettendo su cosa fare. Poteva tornarsene verso casa, a Fresno, oppure fermarsi lì per tutta la giornata. Optò per la seconda, tanto non aveva nulla da fare per i prossimi due giorni.

    Salito a bordo della propria auto, mise in moto il potente otto cilindri dell’Audi S8 e si allontanò in direzione del Grand Hyatt. Mentre guidava aveva un pensiero che lo assillava: quanti soldi c’erano nella mazzetta che aveva preso dalla cassaforte? Accostò l’auto e prese la busta che aveva nella tasca. La rigirò un poco tra le mani, sembrava molto vecchia, ingiallita dal tempo, e la carta era di un tipo che non aveva mai visto. La aprì.

    Contando le banconote, gli si illuminò il volto: diecimila dollari in pezzi da cento che, sommati ai duemila del proprio compenso, facevano un bel gruzzolo. Meglio di quanto avesse sperato!

    Poi si accorse che all’interno si trovavano un paio di fogli, dette un’occhiata, ma notò che erano scritti in una lingua che non comprendeva. Rimise tutto dentro e ripartì.

    Dopo essersi registrato in hotel, decise che avrebbe dedicato la giornata allo shopping, del resto se lo meritava, poi avrebbe cenato in un ristorantino sul Pier-39 dove servivano una squisita zuppa di pesce.

    Il giorno successivo, dopo l’ora di pranzo, si mise in auto per affrontare le tre ore di viaggio in direzione di Fresno. Durante il tragitto, come d’abitudine, passò molto tempo al telefono per combattere la noia di quella strada percorsa decine di volte.

    Poco dopo le cinque del pomeriggio, svoltò nella via di casa. Accostata l’auto sulla destra, spense il motore e scese. Recuperò la propria valigia dal bagagliaio e si avviò verso l’ingresso della piccola villetta. Fatti pochi metri si fermò ad osservare due auto parcheggiate sull’altro lato della strada. La propria attenzione era stata attirata dalla singolarità di quei mezzi: due berline Crysler C-300 nere con vetri oscurati. Non dette peso alla cosa, quella parte della città era da sempre una zona tranquilla, ed era il motivo per il quale vi aveva acquistato casa due anni prima.

    Inserì la chiave elettronica che disattivava l’antifurto ma, con grande stupore, notò che l’impianto non era attivo, o meglio, non dava segni di vita. Nella propria testa sentì un campanello d’allarme, percepiva che c’era qualcosa di strano, ma cosa?

    Girò la chiave nella serratura ed aprì la porta. Una folata sul volto, lo avvertì che doveva esserci qualche finestra aperta che provocava quella corrente d’aria.

    «Buonasera signor Belsito.» La voce lo colse di sorpresa, Kevin restò fermo sulla soglia terrorizzato, ma chi era? Quando la vista si abituò alla penombra, distinse quattro uomini in piedi a pochi metri da lui, uno di questi teneva in mano quello che gli sembrò essere un corto fucile.

    «Chi siete?» Balbettò.

    «Non importa chi siamo, ma quello che vogliamo.» Disse uno di questi. «Lei ha rubato una cosa e noi siamo qui per riprendercela.» L’uomo fece un esplicito gesto al compagno che imbracciava il fucile. «Uccidilo!»

    Di riflesso, Kevin cercò di proteggersi alzando la valigia che teneva in mano. Lo sparo che seguì lo scaraventò violentemente all’indietro di almeno tre metri e si ritrovò sdraiato sul vialetto. La valigia aveva attutito l’impatto salvandogli la vita, almeno per il momento. Si rialzò stordito e dolorante e, barcollando, si mise a correre verso la propria auto. I killer uscirono dalla casa pensando di trovare un cadavere, ma rimasero meravigliati di vederlo ancora in piedi. Quell’attimo di indecisione, bastò a Kevin per raggiungere l’auto.

    Appena fu all’interno dell’abitacolo, sentì due violenti colpi contro la carrozzeria e il finestrino posteriore esplose. Si voltò a destra ed incrociò lo sguardo dell’uomo con il fucile che, fortunatamente, sparava senza preoccuparsi di prendere la mira. Accese il motore e pigiò a fondo sull’acceleratore. L’Audi emise un rumore simile ad un ruggito scatenando la sua mostruosa potenza. Passando a fianco delle due Crysler che aveva notato poco prima, si accorse di un uomo che, sceso da una delle auto, si era piazzato nel mezzo della strada e si preparava a fare fuoco con una pistola.

    Kevin abbassò la testa mentre, senza rendersene conto, dalla sua gola usciva un urlo di terrore. Sentì un proiettile colpire il parabrezza, poi il rumore dell’impatto tra il muso dell’auto ed il corpo di quell’uomo. Alzò lo sguardo e vide la strada libera di fronte a sé. Svoltò a sinistra con una vistosa sbandata che gli fece urtare due auto parcheggiate, poi, procedendo a folle velocità, cercò di allontanarsi il più in fretta possibile.

    Percorsi un paio di chilometri, si portò la mano al petto iniziando a sentire il dolore provocato dal colpo ricevuto. Uno sguardo allo specchietto bastò a farlo ripiombare nel panico: le due auto nere lo stavano incalzando. Fortunatamente non c’era molto traffico e questo gli permise di aumentare la velocità sorpassando le auto che si trovava davanti, ma le due Crysler sembravano stargli dietro senza fatica.

    Usciti dalla periferia di Fresno, si ritrovò sul lungo rettilineo della statale quarantuno in direzione sud. Il contachilometri segnava i duecentoventi all’ora, velocità che non sfuggì ad una pattuglia della stradale appostata poco più avanti.

    L’agente alla guida spostò l’auto per ostruire la strada con l’intento di bloccare le tre auto impazzite.

    Kevin vide l’auto della polizia sbarrargli la strada, aveva pochi istanti prima di piombarle addosso, ma bastarono per elaborare un’idea pazzesca. Rimanendo al centro della carreggiata, rallentò un poco dando modo agli inseguitori di avvicinarsi, poi, a pochi metri dal posto di blocco, spinse a fondo sull’acceleratore e scartò verso destra portando l’Audi sullo sterrato. L’auto alle sue spalle riuscì ad imitarne la manovra, ma l’autista della seconda non ebbe il tempo di fare altrettanto e piombò come una meteorite contro il blocco stradale.

    La collisione fu tremenda, l’auto della polizia venne scaraventata ad una ventina di metri dalla posizione originale, mentre la Crysler semidistrutta continuò la propria corsa strisciando su una fiancata per poi fermarsi in mezzo alla strada ad oltre cinquanta metri dal luogo dell’impatto. Tra le lamiere contorte delle due auto, i soccorritori avrebbero estratto cinque corpi senza vita.

    Non era ancora finita. Gli uomini sull’auto superstite, infuriati per l’atroce fine dei propri compagni, adesso avevano messo fuori dal finestrino un fucile e sparavano senza fare economia di colpi. Anche se non era facile colpirlo in quelle condizioni, Kevin sapeva che, prima o poi, uno di quei proiettili avrebbe potuto centrare l’auto, o peggio lui stesso. L’unica soluzione per seminare i suoi inseguitori era quella di buttarsi in una delle strade sterrate che si inoltravano fra i campi. In una strada non asfaltata, avrebbe potuto sfruttare la trazione integrale della sua Audi. Un proiettile, che frantumò il lunotto posteriore, lo persuase ad imboccare una sorta di sentiero che probabilmente veniva utilizzato solo da trattori agricoli. Il polverone che sollevò, unito alla superiorità della propria vettura su quel percorso, gli permise di scrollarsi di dosso gli inseguitori.

    Nei minuti successivi svoltò diverse volte, ma dallo specchietto retrovisore non vide traccia dell’altra auto. Il terrore provato fino a quel momento, pian piano, iniziò a trasformarsi in inquietudine: chi erano quelli? Perché volevano ucciderlo? Con quelle domande che gli ronzavano nella testa, iniziò la conta dei danni: l’auto era mezza distrutta e lui anche. Un altro problema da risolvere era: dove sarebbe andato adesso?

    Mentre sentiva che il tremore alle mani, provocato dalla paura, andava calmandosi si ritrovò davanti ad un cartello che indicava la piccola cittadina di Riverdale.

    Accostò un attimo mentre decideva quale direzione prendere. Scelta non facile, tenendo conto del fatto che non aveva mai coltivato particolari amicizie, anzi, in un modo o nell’altro, aveva sempre raggirato tutti coloro i quali gli avevano concesso la propria fiducia.

    Mentre l’ultima luce del Sole svaniva, gli venne in mente un nome, da almeno dieci anni non sentiva o vedeva quella persona, ma sapeva dove trovarla. Ci rifletté un poco, ma non aveva molta scelta. Solo e braccato, senza sapere da chi e perché, aveva assolutamente bisogno di aiuto. Rimise in moto l’auto e si allontanò lentamente verso la sua nuova destinazione.

    La Crysler C-300 superstite era parcheggiata davanti ad un supermarket, i due uomini a bordo attendevano una chiamata che non tardò ad arrivare. Quello seduto al posto del passeggero prese il

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