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La macchina
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E-book382 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Alan Frost è un professore, ordinario della cattedra di archeologia all'Università di Oxford. Le sue teorie "originali" sull'origine della civiltà umana sono state accolte con diffidenza dalla comunità scientifica e la sua vita è sempre scivolata monotona verso l'ordinarietà. Un giorno, il telefono nel suo studio squillò... quella chiamata, in breve, si tramutò in un biglietto d'aereo...
Dall'altro capo dell'apparecchio c'era un certo Al-Ansari, un erudito locale che stava conducendo uno scavo archeologico nel Sahara Sud-Occidentale. Il magrebino convinse il professore a raggiungerlo, allettandolo con la possibilità di un riscatto sui colleghi più ortodossi per dimostrare finalmente le sue teorie.
Inizia così un viaggio straordinario che condurrà l'accademico europeo nel bel mezzo di una "storia più grande di lui" faccia a faccia con uomini senza scrupoli, interessi smisurati e un congegno misterioso proveniente da un passato remoto...
 
LinguaItaliano
Data di uscita13 feb 2016
ISBN9788892553880
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    Anteprima del libro

    La macchina - Giovanni Speranza

    Epilogo

    1. Alan Frost

    Londra, aeroporto di Heathrow, 2 novembre 2012

    Il professor Alan Frost era in fila per imbarcarsi sul volo della Royal Air Maroc diretto a Dakhla. Stava per iniziare un lungo viaggio di ventisei ore durante le quali avrebbe dovuto compiere due scali e ingegnarsi per far trascorrere gli infiniti tempi morti fra un arrivo e la nuova partenza prima di giungere a destinazione. Si sarebbe annoiato a morte, ne era consapevole. Tuttavia si sentiva al contempo eccitato perché aveva un buon motivo per recarsi in Marocco.

    Salita la scaletta, ripose la ventiquattrore nella cappelliera e prese posto provando la comodità del sedile e compiacendosi per la qualità dell’imbottitura. In attesa del decollo iniziò, quasi all’improvviso, a tamburellare forsennatamente con le dita sulla gamba; avrebbe dato ai più l’impressione di essere un pazzo nevrotico, invece non era altro che un innocente espediente per ingannare il tempo mentre i suoi pensieri fluttuavano proiettandolo già a destinazione intento a cercare la persona che lo stava aspettato.

    L’attempata signora che aveva preso posto accanto a lui lo osservava con il volto chino d’un lato saettando sguardi di chiara disapprovazione. Frost, accortosene forse troppo tardi, si sentì in imbarazzo e sfoderò un mellifluo sorriso nel tentativo di sanare la situazione senza, però, sortire l’effetto sperato. La vecchietta drizzò il capo e si rifugiò fra le pagine di un insulso periodico scandalistico lasciando il professore da solo con le sue aspettative.

    Frost se ne preoccupò appena un po’ prima di riprendere il filo dei suoi pensieri: aveva sempre desiderato possedere il fascino dei divi Hollywoodiani a cui ogni eccentricità è perdonata ma, evidentemente, era un desiderio destinato a rimanere tale.

    Non aveva mai sentito parlare di Dakhla fino a un mese addietro quando il telefono nel suo ufficio all’università di Oxford aveva squillato. Dall’altro capo dell’apparecchio c’era un tale Mohammed Al-Ansari: un erudito locale, perlomeno si era presentato così.

    Al-Ansari aveva chiesto il parere di Frost invitandolo a uno scavo archeologico che si stava conducendo nel Sahara Sud-Occidentale a circa duecentocinquanta chilometri da Dakhla. Il magrebino era stato piuttosto vago nello spiegare la natura della consulenza. Aveva indugiato molto sugli studi condotti da Frost negli anni passati, su quanto lo scavo che stava seguendo potesse rivelarsi affascinante e su come avrebbe potuto ottenere una rivalsa accademica sui colleghi più canuti.

    Erano tutti argomenti che avevano suscitato l’interesse di Frost. Tutti temi a cui era sensibile e tirarli in ballo in una conversazione avrebbero potuto convincerlo a prendere un volo di una compagnia aerea dal nome improponibile, per recarsi in un paese di cui ignorava l’esistenza, al limite del più grande deserto del mondo. Alan Frost era fatto così.

    L’aereo accese i motori, prese velocità sulla pista in pochi secondi e si alzò quasi all’improvviso. L’accelerazione aveva per un attimo avuto la meglio sui pensieri di Frost che rifece i conti con una paura del volo che lo aggrediva di tanto in tanto.

    «Solo quando prendo l’aereo…» Scherzò con la signora al suo fianco, la quale roteò gli occhi nelle orbite: evidentemente non possedeva il fascino dei divi Hollywoodiani.

    Il primo scalo fu a Casablanca, dopo poco più di due ore di volo. Non sarebbe partito prima dell’indomani e ben presto si rassegnò a trascorrere la notte in aeroporto. Spesso pensava che era uno spreco rimanere fra un gate e l’altro in attesa di imbarcarsi di nuovo mentre fuori un’intera città palpitante, di cui non conosceva nulla oltre l’omonimo film, era in attesa di ospitare l’ennesimo turista incuriosito. Tuttavia non lasciò il posto in cui si trovava: era troppo ansioso di ripartire e giungere da Al-Ansari. Da quell’incontro non dipendeva solo il trafiletto in un quotidiano o qualche pubblicazione scientifica: era in ballo lo studio di una vita che tante frustrazioni gli aveva causato.

    Il mattino seguente, mentre era in fila al gate, si rese conto quanto doveva essere ridicolo: l’inappuntabile stile con cui era solito presentarsi in quanto professore di Oxford lo rendevano particolarmente vistoso e difficilmente i suoi abiti passavano inosservati. Tuttavia ritenne ancora una volta che era un fattore su cui soprassedere: se ne sarebbe preoccupato una volta giunto a destinazione.

    Il secondo volo da Casablanca ad Agadir durò davvero poco. D’altronde si trattava di appena quattrocento chilometri e fu maggiore il tempo trascorso in fila per l’imbarco che quello passato fra i comodi sedili del velivolo.

    Giunse ad Agadir in tarda mattinata e dovette rimanerci fino alle cinque del pomeriggio. Visse diversamente la lunga attesa: era giorno e non doveva assecondare il sonno in una scomoda sala d’attesa e poi la città in cui si trovava non doveva offrire le medesime bellezze di Casablanca, quindi ritenne di non perdersi nulla.

    Alle sette del pomeriggio giunse a Dakhla, la sua destinazione. Si sentiva sfinito e il caldo era davvero insopportabile: le vesti madide aderivano fastidiosamente alla pelle e la vistosa macchia di sudore sul retro della camicia non gli conferiva certo, come avrebbe voluto, l’aspetto solenne dell’accademico europeo.

    Durante l’ultimo volo aveva fantastico sul suo arrivo. Non conosceva il volto dell’uomo che lo avrebbe accolto e si immaginava una scena da film con Al-Ansari a reggere un cartellone con su scritto il suo nome. Si trastullò talmente tanto con questa fantasia da convincersi che realmente il magrebino lo avrebbe accolto così.

    «Il professor Alan Frost?» Chiese una voce dal marcato accento arabo.

    «Sì.»

    «Sono Mohammed Al-Ansari. Ci siamo sentiti al telefono, ricorda?» Aggiunse l’uomo leggendo una certa perplessità nel volto del professore.

    «Sì, sì. Mi ricordo. Solo… mi chiedevo come ha fatto a riconoscermi…»

    «È l’unico europeo sbarcato con il volo da Agadir e poi non passa certo inosservato…» Disse Al-Ansari lanciando un’occhiataccia ai vestiti fradici di sudore.

    «Ah! Quindi non è solo per il colore della mia pelle, vero?» La battuta non era stata d’effetto, doveva decisamente smetterla di imitare il fascino dei divi Hollywoodiani: non ne era all’altezza.

    «Sarà esausto.» Riprese Al-Ansari rompendo il silenzio imbarazzante «Ho pensato di fittare una stanza e di partire domani di buon mattino. Duecentocinquanta chilometri nel deserto non sono pochi: è meglio partire freschi.»

    «Certo. Tuttavia vorrei sapere qualcosa di più sul sito.»

    «Ogni cosa a suo tempo, professore.»

    Lasciarono l’aeroporto a bordo della jeep di Al-Ansari e attraversarono un lungo viale fiancheggiato da palme dall’alto fusto. Ai lati sfilavano numerosi isolati regolari interrotti, di tanto in tanto, da parchi con giardini fioriti o da piazze con moschee dal caratteristico profilo.

    Cenarono insieme, ma si scambiarono poche parole.

    Al-Ansari non voleva proprio dire nulla sul sito, sembrava nascondesse qualcosa di misterioso: aveva gli occhi assenti e raramente incrociava lo sguardo del suo commensale.

    Frost, invece, dopo la gaffe sul colore della palle centellinava ogni parola per non rischiare di risultare antipatico come già temeva di essere considerato dal magrebino. Mangiò tutto con voracità: anche i gusti inediti della cucina locale furono graditi e in poco tempo vuotò ogni piatto. Dopo l’abbuffata sentiva il ventre gonfio e non aveva che un desiderio: chiudere gli occhi e riposarsi fino all’indomani.

    Finita la cena, il professore entrò in una stanza piccola, arredata in modo semplice e con l’accesso a un bagno padronale. Prima di stendersi sul letto accese il portatile e inviò una mail al suo caro amico e collega Edward Hill. Voleva comunicargli gli accadimenti degli ultimi due giorni e certo non lesinò ogni singolo dettaglio: il viaggio interminabile, le lunghe attese negli aeroporti, l’arrivo a Dakhla e la prima figuraccia rimediata. Immaginò che Edward, leggendo di quell’episodio, si sarebbe passato la mano sulla faccia pensando: ecco, il solito Alan.

    Rise nella stanza vuota cessando di colpo: l’eco lo aveva intimorito e temeva di infastidire gli altri clienti nelle stanze attigue. Si sdraiò su un fianco spostando velocemente gli occhi da un angolo all’altro della stanza buia e vuota. Ben presto l’imbarazzo svanì vinto dalla stanchezza per il lungo viaggio spalancando, così, la strada al sonno.

    2. Un’affascinante scoperta

    Si svegliò di soprassalto udendo qualcuno bussare. Fuori era ancora buio e, ignorando l’identità della persona dietro la porta, temeva che potesse succedergli qualcosa di grave.

    Balzò in piedi e diede un’occhiata alla sveglia: erano le quattro e venti del mattino! Chi poteva importunarlo a quell’ora? Di certo non era un bandito: non si sarebbe disturbato a bussare, piuttosto avrebbe sfondato la porta.

    All’improvviso le sue congetture furono interrotte da una voce che conosceva.

    «Professor Frost! Professor Frost! Si svegli. È ora di metterci in macchina.»

    Con un sospiro di sollievo aprì l’uscio e si trovò di fronte Al-Ansari già pronto per il nuovo viaggio.

    «Non ha ancora un bel aspetto, professore…» Osservò il magrebino con una nota di gratuito sarcasmo, forse ancora un po’ piccato per la battutaccia sul colore della pelle del giorno precedente.

    «Sono le quattro del mattino…»

    «Le quattro e venti, per la precisione. Le avevo detto che saremmo partiti di buon mattino.»

    «Sì. Solo… non immaginavo così presto.»

    «Fra le otto e le nove il sole è già insopportabile nel deserto. È meglio partire prima dell’alba.»

    «Capisco. Mi dia un attimo per prepararmi.»

    «Va bene.» Rispose Al-Ansari un po’ seccato.

    Richiuse la porta e si passò le mani fra i capelli castani scarmigliati pensando a quanto sarebbe stato seccante viaggiare per duecentocinquanta chilometri attraverso il deserto con una compagnia così sgradevole. Dopodiché trascinò il suo volto lugubre di fronte allo specchio: perse pochi secondi osservando quella che, a suo dire, era il principio di una ruga e si lavò la faccia come farebbe un normale quarantenne prima di recarsi a lavoro.

    Certo il suo non era un mestiere comune, ma poco importava. Non aveva mai cercato la singolarità, aveva solo seguito la sua indole e si era ritrovato a fare l’archeologo. Molti lo desiderano da bambini per poi scartarlo quando iniziano a essere più consapevoli. Lui aveva solo seguito un corso di laurea, qualche stage ed era diventato un archeologo con la stessa naturalezza con cui si diventa avvocato. Non c’era nulla di singolare. Era stato tutto naturale e spontaneo.

    Il suo lavoro gli piaceva. Lo appassionava e non era facile appassionarsi di fronte a ruderi e cocci di ceramica. Forse quello che lo differenziava dagli altri bambini, che crescendo avevano desiderato fare altro nella loro vita, era la fantasia. Perché i ruderi e i cocci per lui erano i pezzi di un puzzle: i più non riesco a ricomporlo, lui invece sì. Perché lo vedeva già finito quando in realtà era a pezzi. Perché aveva la fantasia e non sapeva immaginare nient’altro per distinguere l’uomo dall’animale se non quella.

    Sentì Al-Ansari bussare nuovamente e capì che il tempo della riflessione era finito: doveva sbrigarsi per non compromettere ulteriormente i rapporti con quel magrebino scontroso.

    Quando uscì dalla stanza subì l’ennesima occhiataccia a squadrarlo da capo a piedi. Aveva indossato dei pantaloncini marroni, una camicia a mezze maniche con un discutibile motivo a scacchi e un copricapo che gli dava un’aria da sprovveduto: di certo il mondo accademico europeo non stava lasciando una bella immagine nel continente africano.

    Al-Ansari mollò di scatto la frizione e partì sgommando, ancora prima che Frost si fosse adagiato completamente sul sedile facendolo agitare in modo scomposto e goffo. Il viaggio era iniziato.

    Attraversarono la Penisola di Rio de Oro dove Dakhla è stata fondata. Il nome conserva ancora le tracce dell’antica dominazione spagnola del Cinquecento, prima della rifondazione nella seconda metà dell’Ottocento.

    Al-Ansari si era un po’ sciolto parlando della sua città. Descrisse la chiesa di Nuestra Señora del Carmen, non più in uso per l’assenza di una comunità cattolica; e Villa Cisneros ex forte, ed ex campo di prigionia franchista smantellato da poco dai marocchini sordi ai richiami internazionali.

    Frost ascoltò con interesse. Non temeva più il viaggio e lo considerava un’opportunità per instaurare un rapporto con il magrebino. D’altronde se realmente nel sito in cui si stavano dirigendo c’erano le prove che tanto agognava, avrebbero avuto rapporti continuativi.

    Non poteva più aspettare. Aveva già evitato l’argomento a cena la sera prima e gli era costato tantissimo: chiunque lo avesse conosciuto lo avrebbe potuto confermare senza tante difficoltà. Tuttavia non sapeva se fosse opportuno toccare l’argomento: il modo con il quale aveva glissato la prima volta gli era sembrato strano. Però doveva sapere. Doveva sapere perché si trovava a quasi tremilacinquecento chilometri da casa e se il sito era davvero interessante come aveva intuito sentendo per la prima volta la voce di Al-Ansari per telefono.

    «Mi parli del posto dove ci stiamo recando…» Chiese Frost con un tono serio e, per la prima volta, affatto impacciato.

    «Si trova a circa duecentocinquanta chilometri da Dakhla, in mezzo al niente del deserto. Per la maggior parte del viaggio potremo seguire la strada, che per fortuna è asfaltata, ma a un certo punto dovremo avventurarci fra le dune in direzione Sud-Est per un centinaio di chilometri.»

    «Se è davvero in mezzo al niente, come è stato scoperto?»

    «Un bambino si è allontanato da una carovana ed è caduto dentro una specie di pozzo…»

    «Lo hanno, quindi, ritrovato?»

    «Sì. Morto dentro al pozzo.»

    «Mi… mi dispiace.» Balbettò Frost.

    «Non è questo che ci interessa.» Disse freddo Al-Ansari per poi riprendere il suo racconto «Per fortuna ho udito a Dakhla parlare di questo episodio. Mi sono subito interessato per alcune descrizioni. L’uomo che era sceso nel pozzo per recuperare il cadavere del bambino aveva parlato di colonne e muri squarciati: tutto molto sospetto e interessante. Mi hanno fatto da guida la prima volta e ora io guido lei, professore.»

    «Perché sono così interessanti quelle rovine, Mister Al-Ansari?»

    «Perché non c’è nulla di così antico in tutto il mondo.»

    «Cosa intende con nulla di più antico?»

    «L’Africa è stata davvero la culla della civiltà, professor Frost: solo che la storia dell’uomo che abbiamo ricostruito nei testi scolastici non teneva conto di quello che c’era prima…»

    «E cosa c’era prima dell’uomo?» Chiese l’inglese cercando gli occhi del suo interlocutore che rimanevano fissi lungo la lingua d’asfalto.

    «Un altro uomo.» Sentenziò Al-Ansari con voltò torvo.

    Il sole era un mostro immenso che fiammeggiava all’orizzonte. Erano appena le sette del mattino e il caldo era già insopportabile. Nel giro di poco tempo la temperatura avrebbe superato i quaranta gradi e in mezzo ai granelli di sabbia delle dune si aveva quasi l’impressione che i pneumatici ribollissero. Infatti avevano da poco lasciato la strada asfaltata per iniziare l’ultimo tratto del loro viaggio.

    Frost, sprofondato nel sedile della vettura, tracannava in continuazione dalla borraccia e ogni tanto un rigagnolo d’acqua sfuggiva dalla lebbra serrate e colava sulla camicia. Sudava copiosamente e spesso sembrava annaspare stritolato da una intollerabile sensazione di oppressione.

    «Beva a piccoli sorsi e cerchi di calmarsi.» Disse Al-Ansari che aveva riacquisito un tono distaccato, quasi dispregiativo.

    In realtà il professore non poteva acclimatarsi in una giornata e, abituato a ben altre temperature, avrebbe sofferto il caldo probabilmente per tutta la sua permanenza in Marocco.

    «Quanti?» Chiese, all’improvviso, Frost trovando il coraggio nella sofferenza che stava patendo.

    «Non capisco a cosa si riferisca.»

    «Quanti esperti ha chiamato prima di me?»

    Il magrebino tacque stringendo forte la presa intorno al volante e risalendo l’ennesima duna su cui il vento aveva disegnato artistici motivi ondulati.

    «Otto.»

    «E io?»

    «Sì. È l’unico che ha accettato di venire fin qui.»

    «Avrebbe dovuto dirmelo prima.»

    «Avrebbe fatto qualche differenza?»

    «Avrei dovuto saperlo, ecco tutto.»

    «Si rilassi e guardi: siamo arrivati.»

    Frost si drizzò sul sedile dell’automobile e spinse i suoi occhi stanchi oltre il lurido parabrezza. Vide alcune tende e dei montanti a reggere una tela che copriva un’ampia depressione fra la sabbia del deserto. Aveva tutto l’aspetto di uno scavo archeologico. 

    3. Un nuovo mistero

    Il professor Alan Frost aveva impiegato poco ad acquisire la credibilità scientifica che tanto desiderava esibire. Ci era riuscito proprio quando aveva abbandonato le battute ad effetto in stile divo Hollywoodiano e aveva iniziato a fare il suo mestiere.

    Il gruppo di dieci volontari rimediati da Al-Ansari avevano accolto il professore nel peggiore dei modi: deridendolo con la loro lingua che non comprendeva, schernendolo per i suoi completi davvero imbarazzanti e sghignazzando per le pene tremende che subiva a causa del caldo asfissiante. Tuttavia dopo pochi giorni di lavoro la metodologia applicata da Frost sembrò far breccia nella curiosità dei magrebini e ben presto l’ammirazione sostituì il preconcetto sullo straniero.

    Dapprincipio il professore si mostrò desideroso di districare i misteri che le parole di Al-Ansari avevano alimentato, così la prima settimana trascorse velocemente. Tuttavia più giorni si accumulavano e più la ruga di inquietudine si faceva profonda nella sua fronte. Nell’ultimo periodo aveva assunto una espressione contratta e non sembrava affatto entusiasta per la scoperta.

    I rapporti con Al-Ansari si erano mantenuti piuttosto freddi. Spesso il magrebino incalzava chiedendo un’interpretazione. Frost sapeva bene che l’uomo voleva ascoltare una sola verità e sapeva anche di non poterla ancora confermare.

    All’inizio della terza settimana si verifico un imprevisto. Da lontano fu avvistato un veicolo in avvicinamento proprio dalla direzione da cui erano arrivati Frost e Al-Ansari. La visita inaspettata aveva generato un certo fermento. Nel Sahara Sud-Occidentale un fuori programma potrebbe tramutarsi in un affare difficile da risolvere e spesso ci scappava il morto. Non era questo il caso.

    Frost si allontanò cautamente dallo scavo per poi fermarsi e assumere una posa di pacata attesa nonostante fosse divorato dalla più profonda delle curiosità. La vettura si fermò proprio davanti a lui: dall’abitacolo scesero due uomini, bianchi e inglesi, che si avvicinarono al connazionale con passo risoluto.

    «Il professor Frost, suppongo…» Disse uno dei due mentre l’altro si limitava ad annuire serrando la mascella. «Siamo venuti a cercarla…»

    «E per quale motivo?» Chiese Frost stranito.

    «Un suo caro amico e collega ci ha incaricato di riportarla a Londra.»

    «Non saprei immaginare proprio di chi si tratta…»

    «Edward Hill.» Rispose l’altro uomo rimasto in silenzio fino a quel momento.

    «Davvero? E cosa vuole Edward da me?»

    «Non lo sappiamo, professore.»

    «Beh… sono impegnato in uno scavo, come potete vedere. Credo che Edward dovrà aspettare.»

    «Sapeva che lo avrebbe detto. Per questo ci ha raccomandato di darle questo.»

    Da un borsone venne estratto un telefono satellitare che fu consegnato nelle mani di Frost nonostante le sue perplessità. L’apparecchio squillò un paio di volte prima che il professore, sotto l’incoraggiamento dei due inglesi, si decidesse a rispondere.

    «Pronto?»

    «Ciao, Alan. Com’è l’Africa?»

    «Edward, ma cosa vuol dire tutto questo? Mi hai mandato queste persone che sembrano due scagnozzi della mafia e poi questo telefono satellitare: sapevo che eri ricco, ma non così tanto…»

    «E ancora non sei a conoscenza del resto… Ogni cosa a suo tempo. Alan ho bisogno del tuo aiuto.»

    «Beh… come dicevo a queste persone non posso…»

    «Sì, sì, sì. Il tuo scavo archeologico, certo. Beh, Alan: ti conosco abbastanza bene da leggere i tuoi pensieri da qui. Quindi fai quello che hai in mente da almeno una settimana: spiega al tuo amico africano che avete fatto un buco nell’acqua e torna a Londra dove, ti assicuro, c’è un mistero molto più interessante da risolvere.»

    «Mistero? Di cosa parli? E poi come posso ritornare non ho nemmeno il biglietto d’aereo…»

    «Non ti preoccupare: i miei uomini ti spiegheranno tutto. A presto, Alan.»

    «I tuoi uomini…» Mormorò Frost, ma Hill aveva già interrotto la comunicazione dall’altra parte.

    «Dunque, Professore… Ci seguirà?» Chiese l’uomo più loquace.

    «Datemi un minuto.»

    Frost chinò il capo e mosse alcuni passi incerti, tuttavia la chiamata che aveva appena ricevuto gli conferì quella risolutezza che andava cercando da parecchi giorni. Regolarizzò i passi per poi dirigersi dentro la sua tenda seguito a breve distanza da Al-Ansari.

    «Cosa sta facendo?» Chiese il magrebino osservando il professore mentre richiudeva le valige.

    «È finita.»

    «Finita?» Gli fece eco l’uomo inferocito. «E tutto quello che abbiamo trovato non conta niente per lei?»

    «È questo il problema: non abbiamo trovato nulla.»

    «No. Non può negare il valore scientifico del sito. I fusti di colonna? I frammenti ceramici? Questo è nulla?»

    «Quelle che lei chiama colonne sono più affini a blocchi di pietra sagomati dalla sabbia sverzata dal vento, per non parlare di tutte le strutture murarie rinvenute in stato penoso e assolutamente amorfe. I materiali ceramici, poi, non sono riconducibili ad alcuna forma tipizzata e in assenza di analisi archeometriche non posso datare nulla. Qui non c’è niente che possa confermare la mia teoria e nemmeno la sua.»

    «Le forme non sono tipizzate perché nessuno ha mai ritrovato ceramica tanto antica…»

    «Oppure tanto recente. Senza le analisi di laboratorio potrebbero essere dell’altro ieri. No.» Disse Frost scrollando la testa «Qualunque cosa ci sia stata qui, ora è inutile.»

    «Lei non capisce, professore.» Disse Al-Ansari piegandosi in avanti e puntando l’indice con tono minaccioso. «Qui c’è in ballo molto più di una stupita teoria sull’origine dell’uomo. Lo scavo è la più concreta prova che abbiamo mai rinvenuto e non possiamo lasciarcela scappare perché è stato richiamato in patria da un amico per partecipare a qualche partita a golf!»

    «Che diavolo sta farneticando! E poi: prova di cosa?»

    Al-Ansari si drizzo e rilassò i muscoli del collo e del volto. Puntò i suoi occhi fiammeggianti addosso al suo interlocutore e rimase in attesa.

    All’improvviso si udì un frastuono provenire dall’esterno e ben presto si riconobbero parecchi colpi di armi da fuoco alternarsi in quella che sembrava una sparatoria.

    «Che diavolo sta succedendo?» Chiese Frost visibilmente preoccupato.

    «È più grande di me e di lei, professore. Lo ricordi.»

    Mentre Al-Ansari pronunciava queste ermetiche parole, si udì una nuova deflagrazione molto più vicina e subito dopo un puntino rosso si allargò sulla veste del magrebino che si accasciò a terra.

    Uno dei due inglesi fece irruzione nella tenda e afferrò Frost per il polso.

    «Sono Mitch Palmer, professore. Il mio collega è andato a prendere la jeep. Si tenga pronto a scappare.»

    «Ha ucciso Al-Ansari.» Borbottò incredulo Frost.

    «Senta, professore. Sarà necessario tutto il suo sangue freddo per scappare. Mi segua come un’ombra e stia pronto a correre come non ha mai fatto prima nella sua vita.»

    L’altro uomo si affiancò alla tenda con la vettura e diede un colpo prolungato al clacson.

    «È arrivato: mi segua!» Disse Palmer trascinandosi dietro Frost.

    Il professore, uscendo dalla tenda buia, fu abbagliato dal sole e, spaventato, rallentò la corsa. Tuttavia sentiva la mano di Palmer intorno al polso che lo strattonava per non permettergli di inchiodarsi sulle gambe. Dopo pochi secondi i suoi occhi si adattarono alla luce e spaziarono veloci sullo scavo ormai tramutato in un campo di battaglia: alcuni volontari giacevano morti a terra, altri si erano rifugiati dietro alcune casse, altri ancora si erano distesi dietro alle dune prendendo di mira la jeep.

    Frost continuava a correre mentre le pallottole fischiavano da ogni direzione e i proiettili si piantavano a terra a pochi passi da lui. Stava morendo di paura e desiderava che quell’inferno finisse il più presto possibile.

    Palmer, che lo aveva preceduto, era già a bordo della macchina e lo attendeva con il braccio proteso. Quando la stretta delle loro mani si saldò, la jeep partì di scatto nonostante Frost non fosse ancora salito.

    Quell’accelerazione imprevista lo fece scivolare e per parecchi metri fu portato a spasso come un rimorchio mentre Palmer si dannava a rinnovare la presa per non lasciarlo indietro. Presto si allontanarono e l’automobile rallentò permettendo a Frost di accomodarsi sui sedili posteriori.

    Era stremato e mezzo morto di paura. Non faceva altro che pensare a quanto fosse assurdo tutto quello che stava accadendo e in che modo Hill fosse coinvolto nella faccenda.

    Per un professore di archeologia di Oxford strava diventando tutto troppo complicato.   

    4. Edward Hill

    Londra, 26 novembre 2012

    Nel Richmond all’incrocio fra Mount Ararat Road e Onslow Avenue c’è una casa con la facciata in mattoncini scuri nascosta da un alto fusto di cassia e da una siepe ben curata.

    Alan Frost era alla ricerca di quella casa. Passeggiava quietamente sul marciapiede gettando di tanto in tanto un occhio incuriosito alle facciate delle splendide abitazioni del quartiere.

    Il cielo era grigio e già si percepiva l’acre odore dell’asfalto bagnato dalla prima pioggia sebbene ancora non fosse caduta una sola goccia dalle nuvole minacciose. L’umidità si condensava lungo le maniche dell’elegante giacca che poteva finalmente indossare senza attirare giudiziose occhiate in tralice.

    Vide da lontano i vistosi infissi bianchi esaltati dalla facciata scura e ritenne di essere ormai prossimo alla sua destinazione. Scese dal marciapiede per attraversare la strada e notò la luce di due fari investirlo frontalmente. Perplesso alzò lo sguardo e vide una macchina caricarlo senza dare l’impressione di voler decelerare. Rimase immobile come impietrito mentre l’autista, abusando del suono sgradevole e acuto del clacson, lo evitava con una sterzata improvvisa per poi maledirlo attraverso lo specchietto retrovisore.

    Frost emise un profondo sospiro e si abbandonò a un doloroso ricordo. Non erano le nitide immagini dei cadaveri caldi e insanguinati che aveva visto pochi giorni prima nello scavo nel Sahara Sud-Occidentale a inquietarlo, ma un altro episodio che non voleva rammentare. Tuttavia non poté esimersi da rivolgere un fugace pensiero a una persona cara.

    Si riprese in fretta, d’altronde tutta la sua vita era stato un esercizio continuo per superare quel trauma. Eppure aveva un volto sconfortato e non aveva più voglia di incontrare il suo amico Edward Hill.

    Deglutì mentre una folata di vento freddo gli aprì la giacca facendolo rabbrividire.

    So di non avere colpe, allora perché non riesco a farmene una ragione? Chiese a sé stesso.

    Il sordo brontolio di un tuono echeggiò sopra la sua testa e all’improvviso la pioggia da minacciosa si fece reale iniziando a macchiare con gocce sempre più grandi il marciapiede, l’asfalto e i tetti delle case.

    «Non vorrai impantanarti fino alle ossa?» Chiese un uomo all’asciutto sull’uscio

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