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L'ultimo dei Discendenti
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E-book255 pagine3 ore

L'ultimo dei Discendenti

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Info su questo ebook

È arrivata inesorabile la resa dei conti. Manuela Cortese, dopo un anno in fuga, dovrà lottare fino all’ultimo per non essere uccisa, cancellando definitivamente la missione che i suoi predecessori hanno portato avanti per secoli. Due fazioni che adorano il maligno le daranno la caccia per tutti gli Stati Uniti, per eliminarla e sottrarle un cimelio che metterà la parola fine a una guerra interminabile e silenziosa. Ma Manuela non è sola. Alex Dudley, detective dell’anticrimine, l’aiuterà in questa fuga affinché non scompaia L’ultimo dei Discendenti.
LinguaItaliano
Data di uscita29 giu 2022
ISBN9788893693325
L'ultimo dei Discendenti

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    Anteprima del libro

    L'ultimo dei Discendenti - Simone Pavanelli

    Prologo

    Manica, a dieci miglia dalla costa inglese. Luglio 1974.

    Un peschereccio beccheggiava sull’acqua blu scura della Manica. Le onde basse cullavano l’imbarcazione come se dovessero far addormentare l’equipaggio cantando una ninna nanna con la voce del mare. In lontananza si potevano scorgere le bianche scogliere di Dover in tutta la loro bellezza.

    A differenza del suo normale utilizzo, il peschereccio non era lì a catturare pesci. A bordo, cinque uomini stavano confabulando tra loro mentre due indossavano una muta da sub. Le boe da immersione erano già state messe. Era l’ennesima missione nelle acque della Manica. Il capitano della barca non sapeva cosa stava cercando quell’uomo così pieno di soldi che si stava preparando all’immersione. Erano già da venti giorni in quel tratto di mare.

    «Signore, quando vuole siamo pronti.»

    L’uomo alzò lo sguardo fino a incrociare quello del capitano della barca. Il sub aveva trentaquattro anni, fisico atletico nel suo metro e ottanta. Aveva capelli neri, tagliati corti e due occhi castano scuri, molto decisi. Era ben rasato e ogni suo gesto sembrava studiato e marziale tanto da sembrare fuori posto in quel peschereccio.

    L’uomo fissò il suo interlocutore. Il capitano del peschereccio era una persona in sovrappeso non molto alto. Aveva all’incirca quarantacinque anni. Il viso portava i segni della vita all’aria aperta e profonde rughe solcavano la sua fronte. Nonostante la sua aria sorniona, l’uomo era un macigno. Gli occhi erano quasi scomparsi sotto le folte sopracciglia bionde, come i capelli stopposi che dimoravano sotto un berretto di tela.

    «Molto bene capitano.»

    I due sub indossarono le bombole. Sputarono entrambi sull’interno della maschera per fare in modo che non si appannasse durante la discesa. Le indossarono e, in seguito, misero in bocca il respiratore. Si assicurarono che la miscela d’aria arrivasse senza problemi. Controllarono per l’ultima volta la cintura zavorrata e l’orologio da immersione e si diressero verso il bordo della barca per poi rimanere in piedi davanti a una porticina per l’imbarco aperta. Prima uno, poi l’altro, si tuffarono rimanendo con il corpo dritto e con una gamba davanti. L’acqua avvolse i due uomini che sostarono un attimo sotto il pelo per controllare che tutto fosse a posto. Alzarono entrambi il pollice destro e cominciarono la lenta discesa.

    L’altro uomo era un sub professionista assunto per accompagnarlo nelle immersioni. Si chiamava Jim Sparow, aveva trent’anni, e da quindici s’immergeva in tutti i mari in cui poteva. Di altezza media e con occhi color ghiaccio, era stato pagato a peso d’oro per quel lavoro. Tutto quello che doveva fare era cercare un aereo della seconda guerra mondiale precipitato nel 1940 durante la Battaglia d’Inghilterra.

    Sparow sapeva che era come cercare un ago in un pagliaio. Sopra quel tratto di mare, i piloti della RAF e della Luftwaffe si erano dati battaglia per l’intera estate. Il fondo era cosparso di relitti di aerei inglesi e tedeschi. Non capiva ancora perché quell’eccentrico ricco, fosse così fissato per quella ricerca. Da venti giorni controllavano ogni aereo inabissato durante quelle lunghe immersioni. Per il sommozzatore erano tutti uguali, ma non per l’uomo. Lui ne stava cercando uno in particolare.

    Arrivarono sul fondo e accesero le torce. Cominciarono la loro perlustrazione. Fortunatamente, nei giorni prima avevano segnato gli apparecchi già controllati per non doverli ricontrollare e perdere altro tempo prezioso.

    Passò una mezz’ora buona. Avevano controllato altri quattro aerei. In alcuni, all’interno, c’era ancora il cadavere del pilota. La situazione divenne spettrale. Sparrow cercò di ricacciare la paura chiudendola in un angolo remoto del suo cervello. Gli scheletri che erano a bordo degli aerei sembravano fissarlo attraverso le loro orbite vuote. La mente gli giocò brutti scherzi dandogli la sensazione che quei mucchi di ossa si muovessero. La situazione sembrava irreale e il silenzio degli abissi era rotto solo dal suono del suo respiratore. Si chiese com’era soccombere a bordo di un aereo mentre precipitava in mare. Forse i piloti morivano sul colpo, ma coloro che non avevano avuto fortuna erano destinati a una morte orribile per annegamento, una fine che il sub conosceva bene.

    Una mano toccò la spalla di Sparow che si spaventò. Si girò e vide l’uomo fargli cenno di seguirlo.

    Arrivarono al relitto di uno Spitfire. Era senza ali e le eliche si erano spezzate nell’urto con l’acqua. Nonostante tutto sembrava in buono stato. Era coperto di limo e i due sub cominciarono a pulire le parti dov’erano impressi i numeri identificativi dell’aereo.

    L’uomo alzò il pollice. A quanto pare aveva trovato il suo tesoro.

    La mano del committente si spostò sui fori di proiettile che si trovavano sulla fusoliera, come se cercasse un contatto mistico con le ultime ore di quello Spitfire e del suo pilota.

    Si spostarono in direzione della cabina di pilotaggio. Anche quella era coperta di limo. Sparow pulì una parte della calotta e illuminò l’interno. La faccia mummificata del pilota sbucò dall’oscurità, spaventando il sommozzatore che si spinse indietro.

    L’uomo si avvicinò e toccò il vetro. Impugnò il coltello e cominciò a scassinare l’apertura della calotta. Ci mise cinque minuti prima di averla vinta contro quella chiusura arrugginita. Sparow lo aiutò ad aprire il vetro liberando il pilota dalla sua prigione.

    L’uomo si accostò al cadavere. Sulla sua tuta di volo si leggeva chiaramente il nome. Si chiamava Farrell ed era capitano, come dimostravano i gradi.

    Sparrow osservò l’uomo rimanere a contemplare il corpo del pilota per un po’. Gli si avvicinò e gli diede due colpetti sulla spalla per attirare la sua attenzione. L’uomo si voltò e lo vide picchiettare con l’indice sul suo orologio. Guardò il suo, non era rimasto molto tempo. Cominciò a tastare i taschini del pilota come se cercasse qualcosa. Passarono pochi secondi ed estrasse una croce di legno da un taschino superiore. Lo strinse nella mano come se avesse trovato una preziosa reliquia.

    Sparow era perplesso dal ritrovamento. Tanta fatica per una croce di legno, fatta anche male.

    L’uomo mise la croce in un sacchetto attaccato alla cintura e fece segno all’altro sommozzatore di risalire.

    Durante la salita, interrotta varie volte per fare delle soste per la decompressione, Sparow non fece che chiedersi cosa mai potesse significare quello strano crocifisso per il suo datore di lavoro. Scacciò presto questo pensiero. Per sua fortuna la ricerca era finita e poteva tornare alle sue immersioni in giro per il mondo.

    La Discendente

    1

    Bronx. New York. Settembre 2018.

    La pioggia cadeva battente sulla città che non dorme mai, portata da una perturbazione oceanica che flagellava New York da qualche giorno. Quel quartiere di Manhattan sembrava tranquillo. Vi era un via vai di persone che correvano a casa per sfuggire all’acqua e a una doccia fuori programma usando borse e giornali sopra la testa con la stupida speranza di non bagnarsi. Il meteo aveva messo bello per quella giornata ma si era sbagliato non prevedendo un cambio veloce della perturbazione nella serata lasciando i newyorkesi disorganizzati e senza ombrelli.

    Solo una donna rimaneva seduta a godersi la pioggia.

    La sua mente vagò, immaginando di trovarsi nuda sotto la doccia invece che in un vicolo sperduto in una città sconosciuta. Il viso grazioso era rivolto all’insù. La pioggia la colpiva e scivolava sui suoi lunghi capelli castano chiari.

    Non si ricordava l’ultima volta che si era lavata, e nemmeno l’ultima volta che era stata a letto con un uomo. Le mancavano terribilmente l’odore della pelle e il profumo dell’amplesso. Una volta era una donna ambita in Italia. Gli uomini sbavavano per lei tanto da metterla nella condizione di poter scegliere il suo partner quando voleva cambiandolo a suo piacimento come se fosse un vestito o un paio di scarpe.

    Ora aveva paura di guardarsi allo specchio. Aveva paura di rendersi conto che si era imbruttita per colpa dei suoi capelli incrostati e per l’assenza di trucco. Attribuiva la colpa di tutto ciò al suo destino e ai suoi compiti.

    Avrebbe voluto avere una pistola. Era fuggita dal bel paese prima che la ammazzassero e ora era lì, ad aspettare che i suoi nemici portassero a termine il lavoro.

    Sapeva che erano vicini, sentiva il bruciore al petto provocato dal suo crocifisso di legno. Gli Xaba stavano arrivando.

    Aprì la bocca che si riempì di acqua piovana. Mandò giù. Fece una smorfia di disgusto, ma era l’unica cosa che poteva bere in quel momento.

    Sentì il rumore di passi. Uno. No, due persone. Una grossa e una piccola. Sperò inutilmente che tirassero dritto. Speranza vana, si erano fermati e stavano entrando nel vicolo. Erano alla resa dei conti. Afferrò il crocifisso che aveva tra i seni e lo strinse forte per poi lasciarlo subito tanto era caldo.

    Si avvicinarono. Sentì dei rumori metallici, suoni che conosceva bene. Uno dei due aveva messo un colpo in canna in un fucile a pompa. L’altro aveva tolto la sicura a una pistola. Uno dei due diede un calcio a un cassonetto pensando che fosse nascosta lì dietro. Avanzarono verso l’altro cassonetto in fondo al vicolo. Quello più piccolo andò avanti mentre l’altro rimase dietro. La donna non avrebbe potuto sperare in tanta fortuna.

    Li vedeva. Quello magrolino si stava avvicinando all’ultimo nascondiglio disponibile mentre, quello grosso, stava a guardargli le spalle. Lei sorrise nel rendersi conto che erano due dilettanti.

    Saltò giù dal pianerottolo di ferro della scala antincendio dov’era nascosta. Mentre precipitava, ripensò alla loro stupidità. Erano troppo concentrati a guardare in basso e non in alto. Le vennero in mente gli addestramenti che aveva fatto in polizia e la regola numero uno quando ci si trovava in situazioni del genere: guardare in alto.

    Piombò dietro al grosso e appoggiò le mani sulle sue spalle per attutire l’atterraggio. L’uomo rimase sorpreso. Era più alto di lei ma il peso della donna, in aggiunta alla forza di gravità, l’aveva fatto abbassare abbastanza da essere afferrato alla testa per poi essere girata velocemente di lato. Il crack che si sentì rincuorò la donna mentre il corpo rimaneva miracolosamente in piedi. L’aveva ucciso.

    L’altro si girò di scatto e sparò. La donna si era messa dietro a quello grosso per usarlo come scudo e la tattica funzionò perfettamente facendo incassare al cadavere i proiettili destinati a lei. Con la forza che le rimase, scaraventò il corpo verso il magrolino che lo schivò, alzando la pistola verso di lei che era rimasta senza un riparo. Il magrolino l’aveva a portata di tiro. Immaginò che stava pregustando la gioia della vittoria per poi vederlo impallidire nel vederla imbracciare il fucile a pompa del compagno.

    La donna sparò. La potenza del colpo fece volare il ragazzo verso il cassonetto della spazzatura finendo per terra con uno squarcio all’altezza dello stomaco. Rimase disteso a pancia in su, mentre la sua vita scorreva via velocemente.

    Il sangue che usciva dai due uomini cominciò il suo percorso, portato dall’acqua, verso un tombino. Era tornato il silenzio.

    In lontananza arrivò una musica che proveniva da un locale. La canzone che stava suonando la band era Have a nice day dei Bon Jovi. La donna sorrise ripensando alla traduzione del titolo. Era da tempo che non sorrideva più.

    Si avvicinò al magrolino e lo guardò. Era giovane, molto, troppo giovane. Non era ancora morto ma lo sarebbe stato tra poco. S’inginocchiò accanto a lui e spostò un ciuffo di capelli. Lui la guardava impaurito. Aveva gli occhi azzurri e lineamenti dolci. Gli sbottonò la camicia e spuntò un collare bianco. Era un prete. Come pensava.

    Le salì una gran rabbia che ricacciò dentro. Con il pollice gli fece il segno della croce sulla fronte e cominciò a ripetere delle frasi in latino per dargli l’estrema unzione.

    «Ego te absolvo a peccatìs tuis. Patri et filii et spiritus sancti in nomine Domini. Amen.»

    Non credeva di ricordarselo ancora. Si accorse che la sua vita stava scivolando via con ancora negli occhi il suo viso.

    La donna frugò nella giacca nera fradicia e trovò il suo portafogli. Lo aprì. C’erano dentro documenti, carte di credito e alcuni contanti. Era tentata di conoscere il nome del ragazzino, ma non lo fece. Prese i contanti: quarantotto dollari. Troppo pochi. Frugò ancora e trovò tre serbatoi pieni di colpi. Si girò e vide la sua pistola riflettere la luce di un lampione. Era una Beretta 98 calibro nove, color metallo. La prese, mise la sicura e la infilò dietro nei pantaloni.

    Andò verso quello più grosso, era a terra a pancia in giù con la testa in una posizione innaturale. Frugò nei vestiti trovando anche il suo di portafogli. Lo aprì. Quella volta era andata meglio: ci trovò centocinquanta dollari. Quella sera poteva permettersi una camera d’albergo e una doccia calda. Fosse stata una novellina avrebbe rubato anche le carte di credito, ma sapeva bene che erano fin troppo rintracciabili e lei doveva mantenere l’anonimato.

    Si alzò e buttò il fucile a pompa nel cassonetto. Non le importava di lasciare impronte. L’acqua cancella tutto e poi, in ogni caso, non era schedata, quindi non c’erano riscontri. Si arrampicò sulla scala antincendio e raggiunse il pianerottolo di ferro dov’era stata nascosta. Recuperò la sua giacca in jeans, la sua borsa e scese.

    Sentì delle sirene arrivare, ma non si mosse. La band si era messa a suonare Rock and Roll Train degli AC DC.

    Una pattuglia sfrecciò davanti al vicolo senza fermarsi. Probabilmente, pensò, nessuno aveva ancora chiamato la polizia per denunciare la sparatoria appena avvenuta e quell’auto era diretta altrove. La donna uscì da quel luogo di morte e s’incamminò verso una stanza calda di un albergo.

    Chi la vide si girò a guardarla ammirando le sue forme. La sua quarta misura di seno aveva sempre attratto tutti. Non tutti sapevano, però, che era una persona diversa da quella che sembrava. Si chiamava Manuela Cortese. Era stata un ispettore di polizia in Italia ma era cresciuta addestrandosi come un Templare. Ora era l’ultima di una stirpe di monaci guerrieri. Era l’ultima dei Discendenti.

    2

    «Spiegami come cazzo hai fatto a perdere il filo del testo!» disse Luis a Stephen.

    Il cantante della band aveva cercato di rimanere calmo, ma l’accusa del suo chitarrista aveva fatto riaffiorare la rabbia di quel momento sul palco in cui avevano sbagliato un pezzo degli Iron Maiden a cui teneva molto.

    «Se tu fossi stato accordato decentemente non sarebbe successo niente! Mi sono distratto perché non capivo cosa cazzo stavi facendo e così sono andato nel pallone!»

    Stephen Palmonari teneva molto alla sua passione per il canto e per l’hard rock. Sul palco si sentiva a suo agio lasciando che le sensazioni di quei momenti si tramutassero in adrenalina pura. Molto alto con capelli castani lunghi, si divertiva a saltare e a intrattenere il pubblico cercando di trascinarlo con il suo entusiasmo. L’unico neo era il chitarrista che si credeva un Dio in terra e che non si prendeva mai una responsabilità.

    Luis aveva un ego smisurato. Capelli neri lunghi, fisicamente asciutto, credeva di essere il leader di quella band imponendo i suoi brani e snobbando le richieste degli altri componenti, innescando numerosi litigi in sala prove e alla fine di ogni concerto.

    «Il fatto è che non era scordato» intervenne Mike, il batterista. «Ha proprio sbagliato nota.»

    Mike era un ragazzotto biondino non tanto alto. Adorava il suo strumento e si metteva sempre in gioco per la band e, spesso e volentieri, a sanare le numerose liti tra il cantante e il chitarrista.

    «Io non sbaglio niente! Siete voi che non sapete seguirmi!»

    «Non dire cazzate Luis» disse Brandon, l’ultimo componente che suonava il basso. «Me ne sono accorto anch’io che hai sbagliato scala nell’assolo. Fossi un po’ più umile staresti zitto e finirebbe tutto.»

    Stephen era stufo del chitarrista. Aveva un bel feeling con Mike e adorava la carica di Brandon ma non riusciva a sopportare la strafottenza di Luis e il suo credersi un fenomeno alla chitarra nonostante i suoi innumerevoli limiti.

    I quattro stavano percorrendo la strada che divideva il locale dal furgone. Con loro solo l’indispensabile dato che il pub aveva la sua strumentazione. Un bel vantaggio per loro che, quella sera, non dovevano perdere tempo a smontare la loro attrezzatura e in più aveva smesso di piovere evitando ai ragazzi una doccia fuori programma.

    «Voi non capite un cazzo!» esclamò Luis che odiava essere accusato di negligenza durante un pezzo. «Sono io che faccio gli assoli e se sbaglio qualcosa mi dovete venire dietro e coprirmi come fanno tutte le band con i coglioni!»

    «Le band con i coglioni» disse Mike. «Si coprono le spalle a vicenda e fanno un sorriso quando qualcuno sbaglia. I migliori non sono chi non fa mai cazzate, ma chi sa come coprirle. In più non puoi fare quel cazzo che vuoi in un pezzo degli Iron Maiden. Quelli suonano a memoria e hanno due palle grandi come la statua della Libertà. O fai i pezzi come loro o non li fai affatto!»

    «Ora basta ragazzi» disse Brandon. «La serata è andata bene nonostante tutto. La gente saltava e il tipo del locale ci ha pagati bene. Domani ci troviamo in sala

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