Il destino di un dirigibile
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Anteprima del libro
Il destino di un dirigibile - Giuseppe De Renzi
Artico, maggio 1928
Una memorabile foto d’epoca ritrae il generale Umberto Nobile e il suo meteorologo di bordo, lo svedese Finn Malmgren, in volo nella cabina di comando del dirigibile Italia, pochi giorni prima della catastrofe. È probabilmente l’ultima che li ritrae assieme.
Il generale è seduto con le gambe accavallate, appoggiato con la schiena alla parete della cabina, lungo la quale si vedono gli oblò che fanno filtrare un’abbagliante luce bianca. Stanno sorvolando il tratto di mare ghiacciato tra Vadso, all’estremo nord della Norvegia, e le isole Svalbard, ultimo avamposto di terraferma prima del Polo Nord, dov’è stato fissato il campo base.
Nella cabina, decisamente povera di comodità, non sembra che il riscaldamento sia sufficiente. Il generale è chiuso in un giubbotto di pelle con il colletto di pelliccia nero. Ha le mani in tasca, un berretto a bustina dell’aeronautica militare in testa e dei lunghi calzettoni di lana doppia che gli arrivano fin sopra il ginocchio. Pur se in un momento tranquillo della trasvolata, ha lo sguardo severo, fisso in direzione del fotografo. Mentre i motori girano, non so dire se con molto o poco frastuono, la sua attenzione al comando non sembra concedersi pause. Malmgren, unico non italiano a bordo oltre al professor Behounek, gli è accovacciato accanto, anch’egli protetto contro il freddo dallo stesso tipo di abbigliamento, tranne che per il copricapo, una cuffia di pelle bianca e nera. Anche lo Svedese guarda dritto davanti a sé verso la macchina fotografica, ma i suoi occhi diafani, simili a quelli di un husky siberiano, svaniscono nel lucore delle sue sclere, come in una tempesta di neve. Il suo sguardo emana un alone spettrale. Sembra un angelo custode invisibile catturato dalla pellicola a sua insaputa, o forse già il fantasma di quel che sarà.
I due uomini non rifaranno il tragitto all’inverso.
Arrivati alla Baia del re, in un’ansa delle Svalbard, il dirigibile fu fatto scendere fino a quasi sfiorare la superficie di ghiaccio e portato a spinta verso l’hangar, un enorme e strano capanno con tre sole pareti, senza tetto, che si levava sulla desolazione delle lande ghiacciate.
L’Italia era governato da una specie di tiro alla fune messo in atto dagli uomini a terra, che a gruppetti di quattro-cinque tenevano ognuno una cima di ancoraggio, quasi il dirigibile fosse un moderno Gulliver tenuto legato dai lillipuziani.
Qualcuno, forse il generale stesso, è affacciato a un oblò della cabina di comando e segue a bordo le operazioni, che dovevano essere delicatissime e non prive di rischi. A terra, senza l’ausilio dei motori, la gigantesca aeronave era infatti particolarmente vulnerabile e preda di ogni alito di vento. Un nonnulla sarebbe bastato a farla sbandare e a far cozzare violentemente il suo enorme involucro pieno di gas contro le pareti dell’hangar. Anche ammesso che non fosse esploso, avrebbe di certo riportato danni seri, i quali avrebbero potuto compromettere la missione ancor prima che cominciasse.
Solo quando vide il dirigibile finalmente quieto e ben legato nel suo strano riparo, presumo che il generale abbia concesso a sé e agli altri qualche ora di riposo…
All’indomani, o più probabilmente il giorno ancora dopo, non appena le condizioni climatiche lo permisero, l’Italia si levò di nuovo per un volo esplorativo di collaudo in direzione nord, ma senza successo. Un guasto improvviso al timone lo costrinse a tornare indietro dopo poche ore soltanto.
Al secondo tentativo, invece, le cose andarono decisamente meglio. Nonostante le brutte condizioni del tempo, il dirigibile sorvolò le regioni artiche a cavallo tra la terra di Francesco Giuseppe e la terra del Nord rimanendo in aria per sessantanove ore consecutive.
La prova poteva dirsi superata e immagino che il generale, quell’ultima notte, dovesse sentirsi particolarmente soddisfatto.
Ora non rimaneva che l’obiettivo finale, il viaggio verso il Polo. Ormai il tempo stringeva. Bisognava tentare subito, o mai più.
Scauri, Lazio Meridionale, 4 gennaio 2005
Lo studio del professor Filippelli era una piccola stanza affollata di oggetti. Sulla sua scrivania, benché molto ampia, lo spazio sembrava mancare quasi del tutto. Dietro, appeso in alto alle sue spalle, campeggiava l’unico quadro che io ricordi, un’allegoria mitologica dai colori vividi e sgargianti. C’erano libri ovunque, ovviamente, ma soprattutto moltissime fotografie incorniciate a giorno che tappezzavano letteralmente ogni centimetro quadrato delle pareti. C’erano diversi volti importanti della cultura, compreso uno di Benedetto Croce, con tanto di dedica al professore in segno di stima e amicizia; ma tra essi ne scorsi anche alcuni di persone più intime. In un angolo, c’era il ritratto di una bella donna ripresa in varie pose, assieme a una ragazza più giovane, che le somigliava moltissimo – rispettivamente moglie e figlia del professore, immaginai – e non lontano ne scovai anche un altro che completava il quadro familiare: quello di un giovanotto nel giorno della laurea.
Da queste parti il clima è molto mite per la maggior parte dell’anno, e si soffre il freddo umido della costa solo per un paio di mesi a cavallo tra gennaio e febbraio. È per questo che le case costruite qui fino a una ventina di anni fa non sono predisposte per il riscaldamento. Nella stanza, infatti, non c’erano termosifoni, ma soltanto una piccola stufa elettrica che sembrava non conseguire alcun risultato. Il professore era chiuso in un paltò, il capo protetto da un bel cappello dalle falde larghe, e nessuna delle persone presenti, me compreso, aveva tolto il soprabito.
Entrando, egli mi aveva fatto accomodare in una poltroncina davanti a lui, sorridendomi benevolo; ma, prima di potergli rivolgere la parola, avevo dovuto attendere che finisse la breve e conviviale discussione che stava intrattenendo con altri due suoi ospiti. Uno era il preside di un liceo, mentre l’altro era un giovane pittore, già con una discreta fama, da quanto potevo capire. Scoprii presto, infatti, che era suo il dipinto che giganteggiava alle spalle della scrivania.
«Dunque, veniamo a lei» disse finalmente il professore, annunciando così che la disquisizione in atto con i suoi due ospiti poteva ritenersi conclusa.
«Se ho capito bene, lei vorrebbe pubblicare qualcosa sul generale… Una biografia, mi pare…»
«Be’, non proprio. Io non sono uno storico. Sono un ricercatore di tutt’altro genere. Sono un microbiologo, e neanche di gran valore» mi schernii.
«E come mai si interessa al generale?»
«Vede» continuai, prendendo coraggio «io sono nato qui, anche se vivo e lavoro a Torino da molti anni; ma qualche tempo fa mi sono imbattuto per caso in una scoperta che vorrei verificare…»
Esitai, gettando un’occhiata ai due uomini alla mia destra. Mi stavano guardando, improvvisamente incuriositi quanto il professore.
Vedendo il mio imbarazzo, lui mi incalzò. «Su, dottore, dica, dica pure… Sempre che quello che ha da dirmi non debba rimanere confidenziale!»
«No, professore. Nessun problema, anzi» dissi «ma non è tanto del generale che vorrei sapere qualcosa di più, quanto soprattutto del suo rapporto privato con la sua segretaria personale: Frances Fleetwood.»
«Ah! La povera Frances!» gli sfuggì, ricordando immediatamente la donna che avevo evocato. «E cosa vuol sapere di lei?»
«La prego, non rida di me, ma il fatto è che credo mi abbia affidato un compito, più di venticinque anni fa. Compito che ora vorrei cercare in qualche modo di portare a termine… Per adesso sto solo raccogliendo del materiale ma, se quello che penso è accaduto davvero, vorrei provare a ricavarne un libro. Avevo pensato di scriverle, ma poi ho creduto meglio venire di persona. Ho da chiederle un’informazione che solo lei credo può darmi…»
«Oh bella! E di quale segreto sarei mai a conoscenza, senza saperlo?»
«Cinque mesi fa ho ritrovato nella mia libreria un vecchio libro scritto da miss Frances, La Torre dei Falchi: lo ricorda?»
Il professore annuì. «Certo che lo ricordo. Sono stato io a scrivere la prefazione…»
«È appunto per questo che sono venuto da lei. Immagino che la conoscesse molto bene.»
«A dire il vero no. Io la vedevo raramente. Fu il suo traduttore a chiedermi di pensare alla prefazione. Frances era una bravissima scrittrice, lo sa? Una poetessa davvero promettente… Già da giovane aveva pubblicato un bel romanzo presso un prestigioso editore inglese, e scriveva poesie sensibilissime. Poi incontrò il generale e di colpo il suo destino cambiò per sempre…»
«Ma era davvero soltanto la sua segretaria o no?» chiesi.
«Non è facile a dirsi. In paese sono circolate le ipotesi più disparate, ma in pochi sanno chi fosse veramente quella donna. Abitava in una dependance della villa del generale, per la quale versava una cifra poco più che simbolica, eppure lo strano è che lui era un bel tirchio! Una volta gli chiesi in affitto il suo studio, e non ci accordammo per pochi spiccioli. Il generale voleva cinquemila lire, che per me allora erano davvero tante, ma quello studio proprio mi serviva. Gli chiesi di darmelo a poco meno, ma lui non cedette di un centesimo.»
«Miss Frances pagava un affitto al generale? E perché mai?» chiesi, meravigliato.
«Mi spiace, ma io non ne so molto di più. Perché non prova ad andare dal professor Valerio? È stato lui a tradurre in italiano La Torre dei Falchi. So che erano diventati molto amici. Ci vada. Vedrà che l’accoglierà con gioia. Lui è l’unico che possa rispondere alle sue domande…»
«Be’, se è così temo che dovrò aspettare» dissi, alzandomi. «Purtroppo devo ripartire per Torino stasera stessa, ma quest’estate ritorno per le vacanze. Riproverò senz’altro…»
Londra, 18 dicembre 1497
Studiolo dell’ambasciatore del Duca di Milano in Inghilterra
Tarda sera
Mio illustrissimo ed eccellentissimo signore,
Se mi accingo a scrivervi di nuovo, per mia fortuna al riparo dal freddo grazie a un bel camino acceso e al lume di un candelabro dorato, è perché forse non vi dispiacerà sapere, tra le mille vostre occupazioni, che sua maestà il re d’Inghilterra ha acquisito una nuova parte di mondo senza sferrare un solo colpo di spada.
Questo gran risultato, infatti, re Enrico lo deve non a un esercito (perché le armi e i soldati ormai non servono più per conquistare e governare il mondo) ma a un uomo soltanto: un certo Giovanni Caboto, di provenienza assai umile ma a quanto sembra navigatore espertissimo, dotato di molta intraprendenza e intelligenza.
Come vi avevo detto già quest’estate, egli è partito da Bristol con una piccola nave e diciotto persone di equipaggio per andare a scoprire nuove isole verso Occidente. Allora, io per primo risi della sua sfacciataggine; e invece non solo egli è tornato sano e salvo, ma dice di aver trovato isole grandi e fertili, e che oltre quelle ha intravisto addirittura le Sette città d’Oriente.
Ser Pasqualigo, un mercante veneziano mio amico degno della massima considerazione, mi ha confermato nei minimi particolari l’impresa.
Egli mi ha raccontato che questo Caboto è un veneziano come lui, e che, dopo aver trovato delle isole a settecento leghe da qui, ha costeggiato la terraferma per altre trecento. Da quel poco che ha potuto vedere, in quel Paese ci sono foreste molto alte, ma anche piante da frutto e grandi prati erbosi; però non ha mai avvistato uomo alcuno.
Una volta sceso sulla spiaggia ha piantato due croci: una con la bandiera inglese e una con quella di Venezia. Per prima ha innalzato la bandiera reale con sopra san Giorgio, portata in processione da