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I tre demoni
I tre demoni
I tre demoni
E-book349 pagine5 ore

I tre demoni

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Info su questo ebook

“Massimo Ferri aveva paura del buio. Da sempre cercava di combattere con questa sua irrazionalità, ma invano. Ogniqualvolta si trovasse in un luogo cupo, la sua mente subiva un blackout. Un episodio lo aveva accompagnato per tutti quegli anni, sin da quando era un bambino. Era un’immagine che il tempo si era divertito ad alterare, inserendola nel cassetto dei dubbi: era successo veramente o era solo stato un sogno? Gli anni avevano dato ragione alla seconda ipotesi, ma la razionalità non era mai riuscita a domare il suo atavico senso di angoscia.”
I tre demoni è il racconto di una caccia che si rincorre nell’intreccio della storia. Ricordi, eventi e azioni si mescolano, si confondono, per poi rivelarsi nel loro nuovo ordine.
LinguaItaliano
Data di uscita18 mag 2021
ISBN9791220296793
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    Anteprima del libro

    I tre demoni - Vittorio Cicirata

    Papà

    1

    29 gennaio 1944

    Mario sentiva il petto bruciare per la violenza con cui introduceva l’aria fredda nei polmoni e il rombo del motore dietro di lui non riusciva a eclissare il rantolo affannato del suo respiro.

    Fu un inverno gelido quell’anno a Bergamo. Le strade immerse nel buio della sera erano completamente deserte e le imponenti mura dell’antica città, avvolte da una fitta nebbia, erano le uniche testimoni di quel drammatico scenario. Con le mani rattrappite dal freddo , Mario reggeva a fatica il pesante sacco di juta. La camionetta militare lo aveva quasi raggiunto quando, in cima alla salita, intravide due piloni in pietra posti in mezzo alla carreggiata. Forse non è ancora finita! Li superò, mentre la Typ 82, imprigionata dai due pilastri, ruggiva carica di frustrazione. Ma l’illusione di avercela fatta si sgretolò quando il rumore del motore venne sostituito dal latrare dei cani. La consapevolezza di essere giunto alla fine non lo persuase ad arrendersi, ma gli diede invece la forza di continuare a correre. Mettere al sicuro il contenuto di quel sacco aveva la priorità sulla sua vita stessa. Attraversò l’imponente Porta San Giacomo e continuò per l’omonima via. Arrancò sul ripido ciottolato cercando sostegno nelle pareti in pietra degli antichi edifici. Sapeva che agli uomini della camionetta se ne sarebbero aggiunti altri e che presto lo avrebbero raggiunto. Percosse a spallate un massiccio portone con la speranza di aprirsi una via di fuga, ma invano. Le persiane della finestra soprastante si chiusero all’istante. Un carretto a due ruote carico di concime si materializzò lentamente nella foschia. Era giunto in Piazza Mercato delle Scarpe dove confluivano numerose vie, e nonostante l’abbaiare dei segugi fosse più vicino, si fermò. Erano da poco passate le ventuno e trenta quando stremato appoggiò il sacco per terra. Distese le braccia sulle stanghe in legno del carro e ci appoggiò la testa. Dio mio, cosa faccio adesso? Loro sono qui… non ho più tempo! Il lezzo intenso e penetrante del letame aprì un varco nella sua disperazione. Certo... la puzza! P ensò alzandosi di scatto. Si mise in posizione accovacciata in mezzo alle due assi di legno , afferrandole dal basso. Usò le ultime forze rimaste per raddrizzare le gambe portando il barroccio in posizione leggermente inclinata, poi cominciò a spingere. All’inizio il peso e l’irregolarità del selciato ne impedì ogni movimento, ma poi, con la complicità della discesa le ruote cominciarono a muoversi... sempre di più. Il carro sfuggì alla presa e percorse caracollando qualche metro prima di rovesciare tutto il carico sul lastricato. Annusate questo, maledetti! Poi si guardò intorno e delle cinque possibilità di fuga scelse la via Donizetti. Il suo scopo era di poter raggiungere il Duomo dove avrebbe trovato il supporto dei suoi compagni. Avrebbe evitato di passare da Piazza Vecchia, dove sicuramente si sarebbe imbattuto in qualche pattuglia tedesca. Doveva muoversi più velocemente… sapeva che l’espediente del concime li avrebbe solo rallentati. Muri secolari gli corsero accanto, poi dalla nebbia, cominciarono a delinearsi i contorni di Santa Maria Maggiore. Si fermò davanti la breve scaletta che costeggiava la basilica e si guardò intorno. Cercò di calmare l’affanno del suo respiro per riuscire a cogliere ogni minimo rumore intorno a sé. Niente... solo il silenzio. Non sentiva più l’abbaiare dei cani e nemmeno le grida concitate dei militari. Forse ce l’ho fatta! P ensò sentendo crescere in lui un’indomabile trepidazione. Ma la speranza svanì quando voltandosi si ritrovò a tu per tu con la canna di una mitragliatrice MP40.

    La Mercedes 540 K si fermò davanti la stazione della funicolare. I militari, un attimo prima alle prese con le febbrili operazioni di ricerca, si fermarono quasi simultaneamente mettendosi sull’attenti ed esibendo il saluto romano. Con movimenti imperturbabili di chi ostenta potere, il maggiore Krause scese dall’elegante auto. Il caporale Campregher corse ad aprirgli la portiera e imitò i suoi commilitoni. L’ufficiale contraccambiò con un saluto svogliato, rivolgendo l’attenzione al disordine creatosi intorno al carro di letame rovesciato. I cani sembravano impazziti mentre il loro olfatto veniva ingannato dal fetore pungente di quel carico sparso sul selciato. Sotto la lucida visiera, due occhi taglienti come rasoi fissavano il caporale , che balbettando cercava di spiegare i frangenti per cui il prigioniero era riuscito a sfuggire.

    « Siete solo degli stupidi inetti! » lo interruppe bruscamente senza scomporsi. Riusciva a trasmettere con un pacato tono di voce tutto il suo disprezzo nei confronti della truppa. Improvvisamente il caporale ebbe quasi l’impressione che l’effigie del teschio sopra la visiera luccicasse di luce propria, ma non ebbe il coraggio di distogliere lo sguardo dagli occhi del maggiore che continuava a fissarlo come fosse un bersaglio. « Mandi una squadriglia in via Donizetti » ringhiò al sottufficiale, poi indicò via Gombito. « Io andrò da quest’altra parte! In questo modo accerchieremo il sorcio. Ci ritroviamo tra cinque minuti in Piazza Vecchia! »

    Risalì sull’auto e in breve arrivò nel luogo d’incontro . Camminò fino al centro della piazza e aspettò come un ragno sulla tela in attesa della sua preda. Il silenzio surreale era rotto soltanto dallo zampillio della fontana, mentre i soldati avanzavano lentamente, passando a setaccio ogni angolo, sfidando l’ostacolo della scarsa visibilità. Sembrava invece che gli occhi di Krause potessero penetrare attraverso quel muro di nebbia e ombre. Fissò una zona buia nella scalinata del Palazzo della Ragione, e sul volto pallido e spigoloso si disegnò un accenno di sorriso. « Là, sui gradini! » sbraitò con vigore ai suoi uomini. Dal buio l’uomo braccato scavalcò la ringhiera e saltò da un paio di metri di altezza. Cercò di eludere gli uomini della pattuglia, ma si ritrovò completamente circondato. Roteò il sacco colpendo sul viso un soldato, riuscendo così ad aprirsi un varco da quel muro umano. Un militare sparò un colpo di fucile che andò a vuoto.

    « NEIN!! » urlò Krause e tutti abbassarono le armi « Mi serve vivo! » disse seguendo con lo sguardo il fuggiasco entrato intanto all’interno del Campanone. Il topo è in trappola! P ensò soddisfatto il nazista dirigendosi anche lui verso l’ingresso della torre.

    Mario corse lungo la ripida scalinata incespicando ripetutamente sui gradini sconnessi. Era stremato e il suo respiro ridotto a un sibilo. Raggiunse finalmente la cella campanaria, mentre sentiva echeggiare nel vano delle scale il calpestio disordinato di una decina di uomini. L’enorme campana sovrastava il locale, e nonostante non si riuscisse a distinguere in modo chiaro per via dell’oscurità, Mario ne percepiva la maestosa presenza. Due soldati emersero dalla rampa intimandogli l’alt. Senza il minimo affanno e con assoluta calma, li raggiunse anche il maggiore. Aveva le mani dietro la schiena e un’espressione compiaciuta.

    Si rivolse a Mario, simulando un atteggiamento cortese. « Buonasera! Deve scusare i miei uomini per questi modi poco ortodossi, ma sa, penso che lei abbia qualcosa che mi appartiene. » Parlava con fare elegante e a parte una leggera cadenza fiamminga, si esprimeva con un perfetto italiano. « Quindi la invito a consegnarmi quel sacco, in modo che nessuno si faccia del male. » Mario percepì la profonda oscurità racchiusa nei suoi occhi e venne attraversato da un violento brivido. « Oltretutto , lei dovrà dirmi chi sono e dove si nascondono i suoi amici! » continuò Krause mantenendo il sorriso.

    Mario non parlò ma diede invece un’occhiata fugace al suo orologio da polso.

    Il maggiore si rivolse al graduato di truppa senza distogliere lo sguardo dal prigioniero. « Caporale, lei e i suoi uomini scendete e aspettate in piazza. »

    « Ma Herr Kommandant, io non posso... »

    « È un ordine!! » tuonò l’ufficiale. Il soldato obbedì senza obbiettare e scese velocemente con gli altri uomini al seguito. La sua attenzione tornò su Mario con un sorriso ancora più inquietante. Si infilò una mano in tasca ed estrasse qualcosa. Nella penombra non riuscì subito a capire cosa fosse, ma poi vide dei riflessi metallici. Sembrava un guanto… un guanto argentato o qualcosa di simile. Lo indossò e si avvicinò senza fretta all’uomo. « Lei sa che cos’è questo, vero? »

    Mario non parlò anche se la sua risposta sarebbe stata affermativa. Sapeva perfettamente cos’era e a cosa servisse, e per questo capì che era giunto il momento di agire. Teneva ancora il sacco nella sua mano e la sua presa divenne più salda. Guardò nuovamente l’orologio e parlò al nazista: « La prego, non mi faccia del male. Le dirò tutto! ».

    Il maggiore si fermò a pochi passi da lui e lo guardò compiaciuto. « Sentiamo, sono tutto orecchi. Mi dica i nomi. »

    « Posso fare di meglio… posso dirle chi è l’artefice di tutto questo! »

    Krause sembrava sempre più interessato.

    « Se vuole sapere chi è la responsabile di tutta questa merda, deve rintracciare quella prostituta che ha messo al mondo Adolf Hitler! »

    Il volto del nazista si contrasse in una smorfia di odio. Arricciò il labbro superiore mettendo in mostra la chiostra dei denti acuminati che non avevano nulla di umano. Nei suoi occhi un colore rossastro aveva sostituito il bianco della sclera, mentre la pupilla si era assottigliata come quella di un rettile. Sembrava fosse sul punto di assalirlo, quando dall’oscurità della torre la maestosa campana cominciò a oscillare. Erano le 22 e il primo dei cento rintocchi aggredì l’udito di Krause che gemette dal dolore. Guardò in alto tappandosi le orecchie ed emise un ringhio di rabbia verso il batacchio. Riabbassò lo sguardo e trovò Mario in piedi sul parapetto che lo fissava sorridendo.

    « Fermo! » gli ordinò Krause

    « HEIL HITLER! » gridò Mario col braccio teso e il dito medio alzato. Poi fece un salto all’indietro e volò nel vuoto, schiantandosi sui tetti sottostanti. Rimase lì, immobile, con il corpo disteso in una posizione innaturale. I suoi occhi erano rivolti verso la cima della torre, mentre un abbondante rivolo di sangue scorreva tra le tegole rotte. L’ufficiale si precipitò ad affacciarsi per capire se avesse portato con sé il sacco, ma la nebbia gli impediva la visuale. Il suono della campana l’aveva stordito facendogli perdere i dettagli di ciò che era successo. Guardò allora sul pavimento, e nascosto nella penombra lo vide. Lo stupido idiota lo ha lasciato cadere pensò mentre lo raccoglieva in preda a una totale eccitazione. Infilò subito la mano nel sacco per estrarne il contenuto, ma la sensazione che ne ricevette non fu quella che si sarebbe aspettato. Stava toccando qualcosa di morbido mentre le sue dita vi affondavano all’interno. Con titubanza afferrò quella sostanza. Gli occhi carichi di odio e sgomento, osservavano ciò che aveva estratto dal sacco: letame. « Scheisse? Scheissee?! SCHEISSEEE!!! » Il suo grido feroce simile a un ululato riecheggiò nel silenzio di Bergamo Alta. Trenta metri più in basso Mario chiuse lentamente gli occhi e smise di respirare, mentre sulla sua bocca si disegnava un accenno di sorriso.

    2

    28 gennaio 2012

    Massimo Ferri strisciò il suo badge nella stretta feritoia dell’orologio aziendale, e come di consuetudine lo fece con rispettosa delicatezza. Quella tessera ormai sdrucita era lo specchio dei suoi vent’anni di permanenza in quel magazzino. La sua plastica era lisa in più punti con una spaccatura che dall’angolo destro si apriva sino alla sua metà tagliando in due il numero di matricola oramai reso illeggibile dall’usura. La banda magnetica sbiadita rendeva la semplice timbratura una delicata operazione chirurgica. All’interno dello spogliatoio, la luce sterile e vacillante di un neon illuminava quell’ambiente trascurato e arredato dello stretto indispensabile. Una decina di armadietti deformati, un tavolo traballante per via di un piedino perso nel tempo e una fila di sgabelli ancorati tra loro. Ampie macchie di umidità riempivano tre angoli della stanza mentre il quarto veniva probabilmente risparmiato grazie alla sua contiguità con il locale caldaie.

    Un’ampia bacheca riportava vari ordini di servizio e la parete attigua un poster riproduceva un famoso quadro di Wallace Ting. Mio figlio all’asilo fa scarabocchi più interessanti, pensava Massimo ogni volta che incrociava con lo sguardo quel dipinto. Con gesti meccanici ripose la tessera nell’armadietto mentre mentalmente riassumeva l’interminabile giornata appena trascorsa. Aveva concluso l’inventario, operazione che insieme al resto del personale l’aveva visto impegnato dalle 7 della mattina. Una breve pausa necessaria per ingoiare un panino, e ripartire senza interruzioni sino a tarda sera.

    Si fermò quasi inconsapevolmente a osservare il suo riflesso sullo specchio dell’armadietto. Dietro la patina opaca del vetro, scorgeva il volto di un uomo che faceva fatica a riconoscere... trentanove anni, ma ne dimostrava molti di più. Folte sopracciglia sovrastavano due occhi arrossati dalla stanchezza e una piccola ramificazione di rughe scendeva dai loro angoli seguendo la montatura degli occhiali per congiungersi con l’incavo delle guance. La barba incolta e brizzolata contribuiva ad accentuare l’aspetto trasandato.

    Stiamo invecchiando caro mio , pensò osservando la fronte sempre più spaziosa.

    Si stropicciò gli occhi con l’indice e il pollice cercando di cancellare per un attimo la stanchezza e l’immagine delle migliaia di capi di abbigliamento che aveva appena finito di contare.

    A quella operazione avevano partecipato altri otto colleghi: cinque commesse, una caporeparto, un aiuto magazziniere, il direttore. Infine lui, il magazziniere, anzi il magazziniere di concetto come veniva classificato nell’organigramma aziendale; un modo elegante per far vedere la merda di un altro colore , pensava Massimo ogni volta che leggeva la sua qualifica sulla busta paga. Aveva sempre avuto repulsione per il proprio incarico, lo faceva sentire svuotato e apatico... Aveva più volte cercato un’altra occupazione ma senza riscontro.

    Suo padre e i suoi fratelli avevano più volte insistito per inserirlo nella loro realtà lavorativa, ma un po’ per orgoglio e un po’ per la voglia di creare qualcosa di suo, aveva sempre declinato le loro proposte.

    Si sentiva all’interno di un profondo fossato con le pareti di melma e ad ogni tentativo di scalata le dita lasciavano solo profondi ed effimeri solchi verticali. Aveva comunque imparato a convivere con quella frustrazione, e aiutato da un carattere tendenzialmente ottimista si ritrovava spesso a sdrammatizzare il suo status. Era un periodo terribilmente difficile. La crisi economica che aveva investito l’Europa aveva messo in ginocchio migliaia di famiglie e lamentarsi della propria condizione lavorativa, mentre centinaia di persone si suicidavano per non averla, lo faceva sentire superficiale ed egoista.

    Ma il lavoro occupava soltanto una piccola parte del suo malessere. Suo padre era morto una decina di giorni prima; aneurisma cerebrale recitava cinicamente il referto medico. Massimo si cambiò le scarpe antinfortunistiche, mentre la sua mente ripercorse l’ultima volta che l’aveva visto vivo.

    Era un giovedì sera, in una delle classiche visite di rito che venivano fatte abitudinariamente in settimana. Arrivati in macchina sotto casa Silvia fece le ultime raccomandazioni ai due bambini seduti dietro. « Per cortesia Bruno e Sergio non fate impazzire la nonna Laura, non ripulitegli la dispensa dai dolci e soprattutto non passate la serata davanti alla tele! » Salirono le due rampe di scale del vecchio condominio. La luce fioca delle plafoniere illuminavano i numerosi vasi di piante impolverate distribuite ordinatamente sui gradini di granito. Appesi alle pareti sbiadite, una serie di piccoli quadri riproducevano stampe di paesaggi seicenteschi, alternati a immagini di fiori campestri con il relativo nome botanico.

    E suo padre era lì, sul pianerottolo ad accoglierli alla porta, sorridente come sempre. Sessantasette anni e il viso attraversato da una varietà infinita di rughe; alcune profonde, alcune leggere, altre ramificate e altre ancora in posizioni innaturali.

    Gli anni lo avevano abbassato di qualche centimetro, ma per l’energia e la forza che emanava, Massimo lo considerava ancora un gigante.

    Nella sua vita Davide Ferri era stato un uomo straordinariamente energico e pieno di iniziativa. Negli anni S essanta, giovanissimo, era stato assunto come operaio dalla Marchesi Tessile S.p.A., uno stabilimento tessile alle porte di Bergamo, fondato all’inizio degli anni T renta dai tre fratelli Marchesi il cui maggiore è venuto a mancare durante la S econda guerra mondiale. Davide, dopo una breve e rapida scalata all’interno dell’azienda, riuscì ad apportare una serie di innovazioni che fecero salire la produzione a livelli mai sperati. Nel 1966 i due fratelli, Leonardo e Giacomo, lo vollero socio, e insieme a loro lavorò sino al 1970, anno in cui morirono entrambi in un tragico incidente d’auto. Davide rimase quindi da solo alla guida dell’azienda, fino al 1995, quando volle con sé i suoi due figli, Tiziana e Andrea, accettando suo malgrado l’assenza dell’ultimogenito, Massimo. Nonostante la ditta vivesse sempre sulla cresta dell’onda, lo scopo principale di Davide Ferri non era mai stato il guadagno personale, ma riuscire a offrire posti di lavoro a più persone possibili, spesso a scapito dei propri interessi. « Il potere e la ricchezza di un uomo non lo misuri in base a ciò che possiede, ma in base a ciò che può offrire » ripeteva spesso ai suoi figli.

    Quella sera indossava la camicia di flanella rossa a quadri insieme a pantaloni grigi sgualciti di maglina, legati col cordino abbondantemente sopra la vita. Ai piedi, un paio di ciabatte di cuoio a larghe bande incrociate facevano da cornice a un inguardabile paio di pesanti calzini a rombi: « Ueilà, c ’è una sfilata di moda qui?! » lo schernì il figlio.

    « Hai visto com’è irrispettoso questo moccioso? » disse a Silvia in tono scherzoso mentre li faceva accomodare in casa.

    La serata era poi proseguita normalmente, purtroppo... normalmente come sempre. Se solo Massimo avesse saputo o se solo avesse immaginato, quante cose avrebbe voluto dirgli... ma gli rimase solo la consapevolezza di quanto possano essere pesanti e dolorose le parole non dette.

    Al funerale la chiesa era gremita. In prima fila c’era Massimo con sua sorella Tiziana e il fratello Andrea che si stringevano intorno alla madre immersa nel silenzio della sua apatia. Tiziana , di due anni più vecchia di Massimo , piangeva in un composto dolore con il viso rigato da un flusso ininterrotto di lacrime, ma senza dare all’espressione del suo viso alcuna parvenza di sofferenza. Come se il suo corpo fosse solo un involucro dal quale avesse voluto allontanarsi per non essere sopraffatta dal dolore. Fu sorpreso invece dall’atteggiamento di Andrea, il più anziano dei fratelli. Quarantatr é anni, era quello che nella famiglia aveva risentito meno del trascorrere degli anni. Era sempre stato un uomo di grande stile, sia nell’abbigliamento che nei modi di fare. Il suo naturale aplomb era determinato, oltre che dalla sua innata signorilità, anche da un profondo bagaglio culturale. Laureato in ingegneria aveva conseguito diversi master anche all’estero. La montatura di Armani nascondeva un accenno di occhiaie, mentre la sua inarrestabile calvizie si sposava elegantemente con la barba disegnata sulla sua mascella decisa. Il fisico, invidiabilmente asciutto e leggermente palestrato, indossava un prezioso abito gessato di Dolce e Gabbana. Massimo l’aveva sempre considerato la punta di diamante della famiglia, a confronto del quale si era sempre sentito una pecora nera. Ora invece era lì seduto sulla panca della chiesa e singhiozzava così rumorosamente che a Massimo venne spontaneo associare quell’immagine a quella di un bambino che perde la mamma in un grande magazzino.

    Massimo invece non piangeva. Se lo era imposto sin da quando aveva ricevuto la notizia del decesso. Sarà stato per un senso di pudore nei riguardi della moglie e dei suoi figli, o forse perché qualcuno avrebbe pensato quanto debole fosse stato di carattere. Non capì mai il motivo ma quel giorno, nonostante la morsa che gli ghermiva il petto, non pianse. Strinse al polso il vecchio orologio che gli aveva regalato suo padre qualche giorno prima di morire. « Ricorda che non devi mai temere il tempo… lui è amico tuo! » gli aveva detto. Massimo non capì quella frase, ma gli fu però chiara la consapevolezza che la voragine creata dalla morte del padre lo avrebbe accompagnato tutta la vita.

    3

    Attraverso i vetri rotti dei lucernari la luna proiettava i loro contorni sull’antico lastricato. Al centro dell’enorme locale un’ombra si muoveva con fare imperturbabile, senza profanare lo spesso strato di polvere e detriti accumulatisi nei decenni.

    La lunga attesa sembrava finalmente finita, ma continuava a crescere in lui un intenso stato emotivo. Il tempo era scaduto e fare incastrare gli ingranaggi di quel complicato meccanismo sembrava un’impresa impossibile.

    Deneb entrò deciso nascondendo a fatica un’indomabile fibrillazione. « È il momento! »

    Sirio non si voltò e continuò a scrutare oltre le finestre come a cercare risposte nell’oscurità del cortile esterno.

    « Bene » rispose laconico « Procediamo! »

    « Avremo a disposizione poco tempo per varcare la soglia e ancora meno per richiuderla. Tutto deve avvenire esattamente all’inizio del nuovo giorno, a mezzanotte e un minuto di domani, 29 gennaio! » aggiunse Elnath raggiungendo gli altri al centro della stanza.

    « Ce la faremo. Ora dobbiamo solo occuparci del nostro ospite » concluse Sirio. « Voi seguite il piano e vedrete che tutto andrà alla perfezione! » La voce rassicurante ingannava il suo crescente nervosismo. Sapeva che non erano gli unici che si interessavano a Massimo e l’impresa non sarebbe stata facile. « Ricordatevi, tu Deneb ti occuperai della donna delle pulizie, mentre Elnath avrà cura di Paola Cortinovis. Il mio compito invece sarà quello di impadronirmi del camion e fare andare fuori strada la sua macchina. A quel punto, dopo che l’avrò eliminato, dovremo essere pronti a intervenire… senza alcun indugio! »

    4

    Ancora immerso nel ricordo di suo padre, Massimo venne improvvisamente catapultato nel presente da una voce dietro di lui. « Ciao magazziniere! »

    Cercò di reprimere inutilmente un sussulto che lo fece vistosamente trasalire. Si girò di scatto e dalla porta d’ingresso spuntò Sara, l’addetta alle pulizie. La donna avanzò verso di lui con l’inseparabile carrellino carico di prodotti detergenti. Indossava il solito grembiule blu sbiadito e un paio di ciabatte bianche chiuse modello ospedale. I capelli parzialmente raccolti si ribellavano alle numerose forcine distribuite disordinatamente in testa evidenziando una vistosa ricrescita grigia. Il viso leggermente allungato era segnato da anni di duro lavoro e dalle numerose avversità incontrate nei suoi cinquant’anni.

    « Sara... tu, che ci fai ancora qui? » disse con un timbro di voce forzatamente naturale.

    « Scusa, non volevo spaventarti » se n’è accorta . « Ho visto la luce degli spogliatoi accesa ed ero venuta a spegnerla; pensavo che non ci fosse più nessuno. »

    « E invece c’hai trovato il solito idiota che se ne va sempre per ultimo. Tu piuttosto, cosa fai ancora qui, sono le 23 : 30. »

    Lei gli rivolse un sorriso stanco. « Ma che domande , aspettavo il giorno nuovo per farti gli auguri di buon compleanno! »

    « Accidenti, ma tu come fai a saperlo? Quasi non me lo ricordavo io! » disse rivolgendole uno sguardo stupito.

    « Dimentichi che qui alla H&S siamo quasi tutte donne e i segreti non esistono. »

    Risero insieme. Improvvisamente il sorriso della donna si attenuò e i suoi occhi sembravano velarsi. Le sue palpebre ebbero un frenetico movimento, solo un attimo, quasi impercettibile. « Ora è proprio il momento di andare! » disse poi guardando l’orologio al polso e sottolineando un’improvvisa premura.

    « Già. Tutti a nanna. Buonanotte » concluse lui.

    « Ah dimenticavo... per tornare a casa non prendere la Via Bergamo » continuò Sara « Mi ha appena mandato un sms mia figlia. Dice che è bloccata per un incidente. Ti conviene passare per la via che attraversa il fiume. »

    « Ok ricevuto. A lunedì allora! » le disse accennando un sorriso, senza immaginare che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto la sua collega.

    5

    Franz Schuster si arrampicò nella cabina e i gagliardetti appesi al parabrezza ondeggiarono vivacemente. I suoi centoventi chili rendevano ogni volta quella semplice operazione un’impresa olimpionica.

    Una volta al posto di guida utilizzò il pronunciato ventre come scrivania per riordinare le bolle di accompagnamento in ordine numerico.

    All’interno dell’abitacolo lattine di birra vuote abbondavano sui tappetini mischiandosi a resti di cibo e fango rappreso. Abiti unti e sudati pendevano dal materasso disfatto della cuccetta, mentre la casacchina catarifrangente giaceva stropicciata sul sedile del passeggero. Testimone di quel disordine, una sorridente e prorompente miss gennaio sul calendario dell’Oktoberfest, vestita soltanto da un boccale di birra.

    Franz si concesse qualche secondo per mettere in moto le idee e poco dopo fece lo stesso con il bilico. Lo attendeva un’ultima consegna e poi il lungo viaggio di rientro. Era partito alle due della notte precedente da Wasserburg, cinquanta chilometri a est di Monaco. La sua prima consegna italiana era stata a Bolzano per proseguire con Trento, Rovereto, altre due tappe sul lago di Garda e infine Verona.

    Ora gli mancava l’ultima fatica della giornata. Era un deposito logistico a Dalmine in provincia di Bergamo. In quel deposito i magazzinieri effettuavano anche turni di notte, quindi non avrebbe avuto problemi di orario. Consegnati gli ultimi pallets avrebbe poi dormito qualche ora nella cuccetta prima di ripartire.

    Erano le 23 : 40 quando il torpore cominciò ad avanzare come un minaccioso serpente, insinuandosi nel corpo dell’ospite ormai debilitato. Franz conosceva molto bene quella sensazione e la odiava. Odiava la sua inesorabilità e soprattutto odiava l’impotenza nei suoi confronti.

    Sapeva che da lì in avanti non l’avrebbe più abbandonato, anzi si sarebbe sempre più radicata in lui fino a che, in un modo o in un altro, non l’avesse assecondata.

    Si era ritrovato spesso a combatterla usando gli stratagemmi più disparati: radio ad alto volume, cantare a squarciagola, finestrini completamente abbassati e quando la situazione diventava critica, si tormentava con pizzicotti e schiaffi. Fermarsi e riposare per qualche minuto gli sembrava una proposta inaccettabile. Il tempo non aspetta era il suo motto. Mancavano oltretutto pochi chilometri alla meta e poi si sarebbe concesso il lusso di quattro ore filate di sonno... ancora pochi chilometri.

    6

    Tutto il personale del negozio era andato via. Le ultime persone erano in ufficio per completare le operazioni burocratiche della conta appena conclusa.

    Dallo spogliatoio si passava direttamente al magazzino.

    Era un locale molto ampio, circa seicento metri quadrati, che si snodava in un percorso a elle. I soffitti molto alti erano raggiunti da solide scaffalature cariche di scatoloni

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