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Giornalismo di pace
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E-book341 pagine4 ore

Giornalismo di pace

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La guerra domina la scena dell’informazione: per interesse, per scelta politica, per superficialità. I media, poi, vengono per lo più usati dagli Stati come «armi di disinformazione di massa». A questa prassi si oppone il modello del «giornalismo di pace», elaborato soprattutto da Johan Galtung, che cerca di leggere in profondità i conflitti, rifuggendo dalle semplificazioni di chi descrive la guerra e la violenza come realtà inevitabili e ricercando gli obiettivi reali delle parti in causa, le loro contraddizioni e le vie possibili per superarle. L’intento non è quello di nascondere o di minimizzare la guerra ma di contribuire, con una informazione corretta, alla trasformazione non violenta dei conflitti. Di questo metodo il libro fornisce una ricca documentazione teorica e interessanti casi di studio.
LinguaItaliano
Data di uscita27 feb 2017
ISBN9788865791530
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    Anteprima del libro

    Giornalismo di pace - Nanni Salio

    Nanni Salio e Silvia De Michelis (a cura di)

    Giornalismo di pace

    Edizioni Gruppo Abele

    © 2016 Gruppo Abele Onlus

    corso Trapani 95 - 10141 Torino

    tel. 011 3859500 - fax 011 389881

    www.edizionigruppoabele.it

    edizioni@gruppoabele.org

    isbn 9788865791530

    In copertina: foto di Vincenzo Cottinelli, tratta da La domenica, arabo. A lezione di lingua araba in una scuola media del Nord-Est (un’esperienza a Legnago, 2005) (© 2000 Vincenzo Cottinelli)

    Il libro

    La guerra domina la scena dell’informazione: per interesse, per scelta politica, per superficialità. I media, poi, vengono per lo più usati dagli Stati come «armi di disinformazione di massa». A questa prassi si oppone il modello del «giornalismo di pace», elaborato soprattutto da Johan Galtung, che cerca di leggere in profondità i conflitti, rifuggendo dalle semplificazioni di chi descrive la guerra e la violenza come realtà inevitabili e ricercando gli obiettivi reali delle parti in causa, le loro contraddizioni e le vie possibili per superarle. L’intento non è quello di nascondere o di minimizzare la guerra ma di contribuire, con una informazione corretta, alla trasformazione non violenta dei conflitti. Di questo metodo il libro fornisce una ricca documentazione teorica e interessanti casi di studio.

    Il curatore/la curatrice

    Giovanni Salio, detto Nanni (Torino, 24 dicembre 1943 - 1 febbraio 2016) è stato tra i massimi esponenti italiani del movimento nonviolento. Fondatore nel 1982 del Centro studi e documentazione per l’analisi delle azioni dirette nonviolente di Torino, poi diventato Centro studi Sereno Regis, ne è stato presidente fino alla morte. Autore di numerosi scritti e saggi sulla nonviolenza, ha collaborato con Edizioni Gruppo Abele per l’edizione italiana del Manuale pratico della Nonviolenza di Michael N. Nagler (2014), di cui ha scritto la prefazione.

    Silvia De Michelis, dopo la laurea in Giurisprudenza e un master in Criminologia Forense, è dal 2014 dottoranda presso l’Università di Bradford in Inghilterra. La sua attività di ricerca s’incentra sul tema del ruolo dei media nei conflitti.

    Come diceva Aldo Capitini, la nonviolenza è «il varco attuale della storia». Sta a noi, individualmente e collettivamente, il compito di far passare l’umanità intera attraverso questo varco. Compito decisamente arduo, tuttavia possediamo una grande riserva di creatività e saggezza a cui attingere per realizzare questo sogno.

    Nanni Salio

    Indice

    Prefazione, di Johan Galtung

    Prologo, di Silvia De Michelis

    Parte prima. Analizzare i conflitti in una prospettiva di pace

    Giornalismo di pace e trasformazione nonviolenta dei conflitti, di Nanni Salio

    Giornalismo di pace: una panoramica internazionale, di Silvia De Michelis

    Parte seconda. Che cos’è il giornalismo di pace

    Raccontare i conflitti: la via inferiore e la via superiore, di Johan Galtung e Jake Lynch

    Giornalismo di pace: lo stato dell’arte, di Dov Shinar

    Parte terza. Il ruolo delle donne nel giornalismo di pace

    Sicurezza internazionale e linguaggio. Un ampliamento del modello del giornalismo di pace, di Birgit Brock-Utne

    Globalizzazione della compassione. Racconti femminili come modello per il giornalismo di pace, di Elissa J. Tivona

    Parte quarta. Giornalismo di pace applicato

    Raccontare i conflitti nel mondo, di Johan Galtung e Jake Lynch

    Documentare la guerra, visualizzare la pace: verso una fotografia di pace, di Stuart Allan

    Parte quinta. Casi studio di Johan Galtung

    L’Impero colpisce ancora

    Libia: ci siamo già stati

    11 settembre: dieci tesi su dieci anni persi

    Iraq: dieci anni di stupidità

    Cinque tesi su Assange-Manning-Snowden

    Nsa e caduta dell’Impero Usa

    Israele-Palestina: 1-2-6-20

    Ucraina-Crimea-Georgia: l’Occidente e la Russia

    Siria

    Siria: tre livelli di conflitto. Soluzioni?

    Isis: negoziato, non bombardamento

    Siria (Prestare attenzione alle menti, II)

    Pace positiva: che cos’è?

    Giornalismo di pace: funziona?

    Prefazione

    di Johan Galtung (trad. Erika Degortes)

    Il giornalismo di pace tratta della pace e delle possibilità di realiz­zarla. Il giornalismo di guerra, anch’esso necessario ma oggi molto meno, tratta della guerra e delle possibilità di vittoria. Questo volume – un monumento eterno, tra i tanti, per il nostro amato Nanni – ha come oggetto il giornalismo di pace. Dire qualcosa su questo tipo di giornalismo implica dire qualcosa sulla pace. E ciò implica parlare del conflitto, dal momento che la pace si relaziona fortemente alla risoluzione del conflitto. Parlare di risoluzione del conflitto, poi, implica dire qualcosa sugli Stati Uniti d’America, dato il loro coinvolgimento in numerosi conflitti globali.

    Il ruolo del giornalismo non è solo quello di riflettere il mondo così com’è, ma è anche quello di rendere trasparenti, gli uni agli altri, i vari attori coinvolti: gli Stati chiave, il capitale, le persone. Il ruolo del giornalismo di pace è quello di identificare le forze a favore e contro la pace, rendendo visibili, oltre a esse, le loro dialettiche (l’espansione e la contrazione) e i relativi risultati, che possono diventare soluzioni.

    C’è una pace negativa, il cui ruolo è quello di ridurre le sofferenze degli esseri umani e dell’ambiente naturale, dovute a forme di violenza di ogni tipo, che vanno sotto il nome di sicurezza. E c’è una pace positiva, il cui ruolo è quello di aumentare il ben-essere degli esseri umani e dell’ambiente naturale oltre la semplice soddisfazione dei bisogni.

    Il ruolo dei conflitti (inclusi gli obiettivi incompatibili e le contraddizioni) è far sì che gli esseri umani si impegnino a risolverli, per ridurre l’apatia e l’impulso all’aggressione derivanti dalla frustrazione dovuta alla difficoltà di raggiungere i propri obiettivi. Se ci si muove nella direzione di una nuova realtà, dando una ragionevole soddisfazione ai propri obiettivi soggettivi, la storia può fare un passo in avanti. Il conflitto è, infatti, una forza motrice nella storia umana.

    Qual è, in questa prospettiva, il ruolo degli Stati Uniti nel contesto globale? È, nella loro concezione, quello di decidere in solitudine, visto che sono una democrazia? Ma ciò è un fraintendimento del concetto stesso di democrazia. L’idea corretta di democrazia è quella per cui tutte le parti coinvolte in una decisione devono avere voce in capitolo nel processo decisionale (in russo: glasnost). Il mondo intero, oggi, è ostaggio della politica estera degli Stati Uniti: senza diritto di voto nel processo decisionale, ma unicamente con diritti di stampa e di parola. Analizziamo i fatti da un punto di vista clinico. Gli Usa sembrano soffrire di una malattia che potremmo chiamare dipendenza dalla violenza interna e globale. Dalla prima azione militare degli Stati Uniti fuori dal territorio americano (l’intervento in Libia ordinato da Thomas Jefferson nel 1802) ad oggi, gli interventi militari Usa all’estero sono stati circa 250. Con sparatorie su masse di persone in spazi pubblici: ormai settimanalmente, o addirittura giornalmente.

    In qualità di ricercatore per la pace io considero la pace, sia positiva che negativa, legata alla violenza, così come i ricercatori della salute considerano la salute, sia positiva che negativa, legata alla malattia. Gli strumenti a disposizione – diagnosi, prognosi, terapia – sono aperti ai vari approcci sviluppati negli anni, diversi dagli Studi di relazioni internazionali (Ir), che sono, in realtà, studi interstatali dove nazione sta per cultura. La diagnosi inizia esattamente a questo punto della cultura profonda degli Stati Uniti: il subconscio collettivo, come indicato da C.G. Jung.

    C’è un assunto di base, largamente condiviso. I dialoghi svolti hanno identificato come ipotesi due sindromi che vengono dagli archetipi: la cultura profonda, consistente nel vedere il mondo in maniera dualistica, diviso in due parti, e nel considerare le parti secondo una prospettiva manichea (con noi o contro di noi, buono e cattivo), con un’inevitabile battaglia finale, un Armageddon (la sintesi è Dualism, Manicheism, Armageddon, Dma); la struttura profonda, consistente nel considerare gli Usa come prescelti (choosen) da forze superiori, eccezionali, come portatori di glorie passate da riproporre, una volta che i traumi causati dagli invidiosi siano stati superati sconfiggendoli (la sintesi è Chosenness, Glory, Trauma, Cgt).

    Gli Usa non sono soli nell’essere guidati dal copione della sindrome Dma nei pensieri e nelle parole, e dalla sindrome Cgt nelle azioni concrete, ma ne sono pesantemente affetti. Dma è una visione del mondo (weltauffassung in tedesco, cosmos-visión in spagnolo), che apre la via alla sindrome Cgt, che si esprime con l’azione politica globale, con gli Usa come attori eccezionali, svincolati dalle regole valide solo per gli altri, portatori di una gloria luccicante ma che li espone a traumi e minacce in continua evoluzione. A livello individuale, il livello C e quello G della sindrome corrispondono al narcisismo, e il livello T alla paranoia. Insieme, costituiscono una psico-patologia, una psicosi. A livello sociale, Dma + Cgt è una socio-patologia. Una "sociosi"? Questa parola di sette lettere la rende facilmente comunicabile. Tutto questo è materiale per il giornalismo di pace.

    Per tornare al punto di vista di un ricercatore per la pace, se nel mondo reale vogliamo qualcosa come la pace, dobbiamo rafforzare la pace positiva e indebolire le fonti di violenza. Espresso in una semplice formula (Schema 1):

    Quattro compiti, dunque: cooperazione con equità; armonia attraverso l’empatia per comprendere gli obiettivi legittimi delle parti; conciliazione per i traumi e per ridurre il desiderio di rivincita; soluzione dei conflitti per ridurre la volontà di aggredire. Possiamo discutere se questa sia la pace e se i compiti necessari siano anche sufficienti, ma fare il contrario difficilmente può essere inteso come pace.

    Torniamo al punto di partenza.

    Abbiamo collocato gli Usa in un contesto di conflitti con due opzioni: soluzioni e vittorie. Abbiamo fornito un’immagine della pace con quattro compiti concreti: essenziali per il giornalismo di pace o, per lo meno, da utilizzarsi come prospettive da cui riportare le notizie. Eventuali soluzioni, anche se non testate, possono essere riportate, interrogandosi su come esse dovrebbero essere (pace con mezzi pacifici) e offrendo resoconti di conflitti simili. Dove c’è violenza ci sono traumi e conflitti sottostanti. I giornalisti possono chiedere a coloro che prendono le decisioni: «Che cosa sta sotto alla violenza?» e «che cosa pensate di fare al riguardo?».

    Ci sarebbe molto di più da dire sul giornalismo di pace. Ciò che manca, a questo punto, è la parte più importante: la terapia, la cura, cosa fare al riguardo. La formula è una guida per indurre i giornalisti di pace a chiedere: «Cosa ne direste di fare...?».

    Caro lettore, questa è solo una piccola introduzione. Leggi il libro e troverai una miniera di esempi concreti. E idee sulla pratica della pace, non solo per giornalisti.

    Alfaz, 13 marzo 2016

    Prologo

    di Silvia De Michelis

    L’idea di scrivere un libro sul giornalismo di pace è nata dall’incontro fortuito tra me e Nanni Salio, presidente del Centro Studi Sereno Regis, avvenuto anni fa, all’inizio del 2011. Il 2011 è stato, di per sé, un anno di grandi cambiamenti su scala globale. Ha visto, infatti, le rimostranze civili di scala enorme che hanno scosso il Nord Africa e il Medio Oriente.

    Seduta nella biblioteca del Centro Studi Sereno Regis a Torino, leggevo delle proteste che incombevano in queste zone del mondo.

    Tunisia, 17 dicembre 2010: Mohamed Bou’azizi, fruttivendolo di 26 anni, si autoimmola, dandosi fuoco di fronte a un edificio della polizia municipale, come atto di protesta a costanti umiliazioni e confische del suo carro-frutta da parte di una polizia brutale e corrotta. La sua agonia termina con la morte il 4 gennaio 2011.

    Egitto, 25 gennaio 2011: monta una protesta popolare, già pronta ed esasperata per la morte di Khaled Saeed, avvenuta il 6 giugno 2010, a causa di un pestaggio brutale per mano della polizia in un cybercafé nella zona di Sidi Gaber di Alessandria. «Siamo tutti Khalid Saeed» ne è il potente slogan, quantomeno iniziale.

    Le molle che fecero esplodere queste proteste furono la corruzione, la povertà, la forte disoccupazione che imperversava di fronte a regimi decennali che non mollavano la presa su privilegi e potere, in beffa alla popolazione sofferente. Risultato: Zine El Abidine Ben Ali fu costretto a lasciare la Tunisia il 14 gennaio 2011, rifugiandosi in Arabia Saudita, dopo 23 anni di governo; l’11 febbraio fu la volta di Muhammad Hosni el Sayed Mubarak d’Egitto che si dimise dopo quasi 30 anni di regno.

    Alcune delle molle alla base delle proteste in Tunisia ed Egitto scossero anche la Giordania, lo Yemen, il Bahrain, l’Arabia Saudita: corruzione, privilegi nelle mani di pochi, disoccupazione – soprattutto giovanile –, povertà per molti. Troppe ingiustizie da sopportare ancora, senza tentare di ribellarvisi.

    Si aggiunsero poi la Libia del Muammar Muhammad Abu Minyar al-Gaddafi, e la Siria di Bashar Hafez al-Assad, quest’ultimo caso erroneamente inserito nella lista dei paesi travolti dalla Primavera Araba.

    Tutti questi paesi contribuirono, nell’arco di pochissime settimane l’uno dall’altro, a costringere il mondo occidentale a volgere lo sguardo al di là dei propri ristretti confini geografici. Il Sud del mondo ruppe la bolla nella quale l’occidente fluttuava, quasi assopito, e diventò protagonista di rimostranze che simboleggiarono paure e speranze di eco globale, mettendo in evidenza, almeno nelle narrative iniziali, anche la nonviolenza.

    Ognuno di questi paesi conta una storia a sé, in merito a genesi e sviluppo delle proteste. Le condizioni politico-sociali-economiche vissute da ciascuno dei loro popoli ben hanno motivato i tumulti avvenuti. Altra storia, più impervia e lunga, è la corsa all’istituzionalizzazione della democrazia in ognuno di essi.

    Tuttavia, finalmente e in maniera lampante, essi furono, e continuano a essere, fonte di ispirazione per la corsa alla libertà a cui tutti, occidentali e non, siamo chiamati a partecipare: la messa in discussione dell’imperialismo con centro Eu/Us e del costante stato di colonizzazione che perdura, imperterrito e anacronistico, come dimostra la composizione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con potere di veto esercitato anche con il risultato di impedire riforme di giustizia globale e autodeterminazione dei popoli. Senza alcuna assunzione di responsabilità.

    #occupywallstreet. September 17th. Bring tent. Zuccotti Park a New York City, di fronte alla Borsa, fu la culla di un’altra protesta di eco globale, gigantesca nella portata e nello slogan: «We are the 99 percent» (Noi siamo il 99 per cento). Al cuore dell’iniziativa, viva ancora oggi, le iniquità sociali ed economiche messe in piedi da un sistema perverso e crudele che beneficia le grandi corporazioni, lascia la porta aperta alla loro influenza sui governi, glorificando il potere a danno delle persone e della loro dignità.

    In tale clima Nanni mi affidò del materiale, da tempo inutilizzato e chiuso in faldoni, con la richiesta di tradurre dall’inglese quanto potevo. Si trattava di alcuni articoli di giornalismo di pace, insieme al testo di Jake Lynch e Annabel McGoldrick del 2005, Peace Journalism (Giornalismo di Pace).

    Accolsi entusiasta la proposta. Avevo voglia di fare e scoprire la mia strada nella ricerca accademica, e quello sembrava uno spunto interessante che coltivai poco a poco. A quel primo libro ne seguirono altri, sempre sullo stesso tema, acquistati e messi da parte. Fino al 2014.

    Nel 2014 iniziai il mio dottorato di ricerca all’università di Bradford in Inghilterra. Questa personale conquista la attribui­sco alla fortuna di aver incontrato personalmente Nanni Salio, Johan Galtung e Paul Scott, anche quest’ultimo facente parte della scuola Transcend. Infine a Daisaku Ikeda, maestro buddista di vita grazie al quale vive dentro di me la determinazione di utilizzare le mie capacità per la creazione di un mondo di pace.

    Essi sono stati, con ruoli e intensità diverse, le molle grazie alle quali ho formato il mio interesse verso il ruolo del giornalismo nella costruzione di una cultura di pace, tassello aggiunto alla mia variegata formazione accademica in giurisprudenza e criminologia. Anche a loro ritorno con il pensiero, costantemente, per approfondire il senso di questo viaggio di scoperta, che tanto mette in risalto l’importanza dell’educazione alla pace come base per ogni professione; la meticolosità necessaria da utilizzare nel compimento di ogni piccolo passo in vista di un disegno più grande; la resilienza e l’indipendenza intellettuale; la speranza e la fiducia nell’essere umano, a discapito delle tragedie che egli è in grado di compiere verso se stesso e i suoi simili, a qualunque livello.

    Io e Nanni ci siamo espressi la volontà, oltreché la necessità, di redigere un testo di giornalismo di pace nel 2013. Quella vaga idea ha preso forma nel corso del 2014, e l’indice di ciò che ci sarebbe piaciuto inserire ha visto la luce e trovato approvazione da entrambi nell’estate dello stesso anno. Da quel momento si sono pianificate le traduzioni degli articoli da noi considerati maggiormente esemplificativi per una prima pubblicazione, e il contenuto dei nostri contributi personali.

    Ho fatto in tempo a consegnargli il mio articolo per il libro il 16 gennaio 2016; e Nanni ha fatto in tempo a suggerirmi alcune modifiche e chiarimenti.

    Quindici giorni dopo, il 1° febbraio 2016, Nanni Salio ci ha lasciati improvvisamente e il tempo si è fermato. Per me, che interagivo con lui tramite e-mail da molti mesi perché stabile in Inghilterra, il libro non è stato certo il primo pensiero appena saputo della sua morte. È stato Umberto Forno, il direttore del Centro, a contattarmi dopo brevissimo tempo, incalzando il lavoro assieme a Elena Camino e Angela Dogliotti, nuova presidente dopo Nanni. Per questo, sono infinitamente grata a queste splendide persone e al loro sostegno, così come sono grata ai traduttori: senza di loro questo testo in italiano non sarebbe stato possibile.

    Io, Elena e Angela ci siamo trovate per inserire le necessarie modifiche e correzioni. Il contributo al libro scritto da Nanni non era finito, e a noi è toccato il difficile compito di decidere come ultimarlo in una modalità che ne preservasse pensiero e idee. Possiamo dire, con tutta onestà, che abbiamo fatto del nostro meglio.

    Mi attribuisco un posto nella tribuna d’onore nel concepimento di questo testo di cui sono co-curatrice insieme a Nanni, una persona che mi ha insegnato resilienza, sforzo e indipendenza intellettuale. Io e Nanni lo volevamo tanto, convinti che i media vantano un ruolo fondamentale nella rincorsa alla maturazione di una cultura di pace. Al momento ciò che mi sembra più evidente è la loro inconsapevolezza di tale ruolo, assieme alla loro responsabilità nell’ingabbiare l’immaginario che fa della nonviolenza e della pace scelte possibili ed efficaci. Permane tuttavia, e sono sicura di poter parlare anche per Nanni, la convinzione che questo stato di cose possa cambiare. Questo libro, infatti, è per tutti coloro a seguire.

    Bradford, 16 marzo 2016

    Parte prima. Analizzare i conflitti in una prospettiva di pace

    Giornalismo di pace e trasformazione nonviolenta dei conflitti

    di Nanni Salio

    Da Gandhi a Galtung

    Nella formazione culturale di Johan Galtung, Gandhi è un riferimento costante sin dagli anni della sua giovinezza. Uno dei primi lavori di Galtung, fatto insieme al suo maestro Arne Naess, è proprio un testo sull’etica politica della nonviolenza in Gandhi (Galtung e Naess, 1955), che in seguito fu sviluppato da Arne Naess (1974).

    In un lavoro successivo, trent’anni dopo, Galtung definisce Gandhi un conflittologo, fondatore di una scienza dei conflitti (Galtung, 1987).

    Durante la conferenza di apertura della prima giornata internazionale della nonviolenza, voluta dalle Nazioni Unite, il 2 ottobre 2007 (nella ricorrenza della nascita di Gandhi) a New York, Galtung individuò cinque punti fondamentali dell’insegnamento gandhiano tra i quali: Punto 1: Non temere mai il dialogo. Durante le sue lotte, Gandhi dialogava con chiunque, compreso il viceré di un impero che lui odiava e ciò portò i suoi frutti. Punto 2: Non temere mai il conflitto: è un’opportunità piuttosto che un pericolo.

    Per Gandhi un conflitto era una sfida a conoscersi l’un l’altro, avendo qualcosa in comune e non restando indifferenti tra le parti. Lui preferiva la violenza alla viltà e il conflitto, la disarmonia alla totale mancanza di relazione, ma preferendo ovviamente la nonviolenza del coraggioso e le relazioni armoniose (Galtung, 2007a).

    Questa interpretazione della straordinaria figura di Gandhi sulla quale continuano ad accumularsi ogni anno decine e decine di lavori (non ultimo, l’interessante riflessione del filosofo iraniano Ramin Jahanbegloo, 2008) ha contribuito a rendere via via più evidente e chiara la dimensione non solo etica, ma anche politica della nonviolenza gandhiana.

    Un passo ulteriore è stato compiuto quando nella ricerca per la pace e nell’educazione alla nonviolenza ci si è resi conto della fondamentale importanza concettuale e pratica dell’idea di conflitto.

    Che cos’è il conflitto

    Un numero crescente di autori, ricerche e scuole di pensiero si sta orientando verso l’analisi dei conflitti nella micro e nella macro scala, a partire da una immagine del conflitto inteso come potenzialità al tempo stesso costruttiva e distruttiva. In altre parole, il conflitto non è considerato come sinonimo di violenza né tanto meno di guerra, ma come quella condizione esistenziale ineliminabile che caratterizza tutti gli esseri umani e che può sfociare tanto nella crescita creativa e costruttiva di tutte le parti coinvolte, quanto in una situazione negativa, drammaticamente distruttiva.

    Tale distinzione è stata esplicitata da tempo in campo psicologico, in particolare con i lavori di Erich Fromm, ed è ormai accettata sul piano concettuale la differenza che intercorre tra aggressività benigna e maligna, tra violenza e assertività, tra passività e nonviolenza attiva e proattiva (che interviene preventivamente). Ma nella comune prassi, sia politica che educativa, permangono incertezze e resistenze, si tende a considerare il conflitto come qualcosa di negativo, da evitare, e ci si limita a invocare una generica condizione di concordia che in realtà maschera i conflitti esistenti e ci rende impreparati quando essi esplodono all’improvviso. A maggior ragione, nel linguaggio abitualmente usato dai media, il conflitto è considerato sinonimo di guerra e questa ambiguità semantica contribuisce a creare confusione, frustrazione e senso di impotenza.

    È dunque possibile, sulla base degli studi e delle riflessioni in corso, proporre una definizione della nonviolenza non solo etica e filosofica ma operativa, come la seguente: «la nonviolenza è la capacità di trasformazione costruttiva e creativa dei conflitti dal micro al macro al fine di ridurre il più possibile ogni forma di violenza». Pertanto, essa consiste nell’abilità di trasformare la naturale aggressività umana in forza creativa positiva e non distruttiva.

    Scuole di pensiero

    Nel corso del tempo, si sono sviluppate varie scuole di pensiero, presenti tuttora¹. Si è passati dapprima dalla scuola della risoluzione del conflitto (conflict resolution), centrata sul concetto chiave dei bisogni delle parti in gioco e sull’idea che si possa giungere a chiudere definitivamente un conflitto, in modo un po’ meccanico e rigido, alla scuola della gestione del conflitto, centrata sui concetti di potere e di valori e sulla presenza di dinamiche che possono orientare il conflitto verso soluzioni pensate e controllate dall’esterno rispetto alle parti coinvolte.

    Un contributo specifico e originale, utile soprattutto a livello educativo e formativo di base, è quello dato dalla antropologa belga Pat Patfoort che propone un metodo basato sul modello maggiore/minore mediante il quale rappresenta lo squilibrio di potere tra le parti, che bisogna riequilibrare².

    Infine, la terza scuola, di cui Galtung e la Rete Transcend International sono tra i più noti esponenti, preferisce parlare di trasformazione nonviolenta dei conflitti, mettendo in evidenza più che le soluzioni definitive e statiche, la natura relazionale prettamente dinamica ed eternamente cangiante. Oltre alla scuola Galtung/Transcend, altri ricercatori e formatori fanno ormai ampio uso dell’espressione trasformazione nonviolenta dei conflitti³.

    Il triangolo del conflitto

    Johan Galtung propone un modello interpretativo del conflitto che si basa sul triangolo del conflitto. Tale proposta è presentata in modo sistematico in due manuali per operatori di pace, di cui uno in forma ridotta La trasformazione nonviolenta dei conflitti, del 2000 e l’altro, più esteso e completo, La trasformazione dei conflitti con mezzi pacifici, del 2008. I manuali furono pubblicati originariamente a cura delle Nazioni Unite (United Nations Disaster Management Training Programme) e sono un prezioso strumento da utilizzare nei corsi di formazione di base.

    Nel triangolo, a ciascun vertice A, B, C corrisponde un aspetto caratteristico che contribuisce a definire il conflitto: A sta per atteggiamenti, attitudini, emozioni. È ciò che sta dentro i singoli attori, anche a livello inconscio; B (behaviour in inglese) è il comportamento, ovvero ciò che sta fuori dagli attori, visibile, manifesto; C indica la contraddizione, gli scopi, le incompatibilità, riguarda la relazione tra gli attori del conflitto.

    Un conflitto pienamente sviluppato comprende tutti e tre questi aspetti, di cui solo il comportamento è manifesto, mentre gli altri due sono latenti. Si danno casi in cui sono presenti soltanto una o due delle caratteristiche salienti del conflitto (Schema 1).

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