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Il Dilemma dei sindacati americani
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E-book352 pagine4 ore

Il Dilemma dei sindacati americani

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Info su questo ebook

Il senso dell'opera di Ferrarotti consiste nel dimostrare che i sindacati americani avrebbero dovuto affrontare e risolvere il loro problema originario: accontentarsi di essere un puro e semplice «gruppo di pressione», oppure diventare una forza politica in prima persona? In altre parole, per la lotta sindacale ad ampio raggio, sarebbe bastata la «coscienza del posto», o job consciousness? Nessun dubbio che il job sia importante, ma è la funzione o mansione lavorativa esercitata dal singolo lavoratore. Non si esce dai limiti di quell'individualismo esasperato per cui ogni buon americano si fa da sé, diventa un «self-made man». Ma così si tradisce la natura intima, storicamente fondata, del sindacato, che è, fin dalle sue lontane origini, un atto e un’esperienza di solidarietà collettiva, consapevole che nessuno può salvarsi da solo.
Oggi più che mai, in una situazione in cui l’economia di mercato è molto forte e spesso è decisiva per le decisioni politiche, i valori del sindacato vanno richiamati e il testo di Ferrarotti appare, dunque, ancora attuale, nonostante siano passati più di cinquant'anni dalla sua prima pubblicazione.

LinguaItaliano
Data di uscita20 ott 2023
ISBN9788832104783
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    Anteprima del libro

    Il Dilemma dei sindacati americani - Franco Ferrarotti

    L’autore

    Franco Ferrarotti è oggi il più noto dei sociologi italiani all’estero.

    I suoi libri sono tradotti in francese, inglese, spagnolo, in russo e in giapponese. Autore di numerosi libri apprezzati da scrittori, artisti e scienziati sociali, ha collaborato con le maggiori riviste scientifiche statunitensi, oltre che europee.

    Ferrarotti si è interessato dei problemi del mondo del lavoro e della società industriale e postindustriale, dei temi del potere e della sua gestione, della tematica dei giovani, della marginalità urbana e sociale, delle credenze religiose, delle migrazioni. Una particolare attenzione è stata dedicata nelle sue ricerche alla città di Roma. Ha sempre privilegiato un approccio interdisciplinare e insistito sull’importanza di uno stretto nesso tra impostazione teorica e ricerca sul campo.

    Ferrarotti è stato consigliere di Adriano Olivetti, diplomatico, deputato, professore ordinario.

    Sinossi

    Quando una economia di mercato non viene governata ed è così forte da trasformare la società in società di mercato, in cui tutti i rapporti interpersonali sono utilitari, ci troviamo in una situazione che richiama la teoria della «guerra di tutti contro tutti» e dell’«homo homini lupus».

    Franco Ferrarotti

    Il dilemma dei sindacati americani

    Sindacato

    © Arcadia edizioni

    I edizione ottobre 2023

    Isbn 9788832104783

    https://arcadiaedizioni.it

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,

    del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta

    dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti riservati.

    Prefazione

    Edizione 2023

    È con grande piacere che licenzio questa nuova edizione de Il dilemma dei sindacati americani, un libro pubblicato la prima volta, su insistenza di Adriano Olivetti, per le edizioni di Comunità nel 1954, quando da pochi mesi ero tornato dagli Stati Uniti. Già dal titolo traspare il suo intento polemico. Era l’epoca in cui il sindacalista italo-americano Antonini non esitava a impartire lezioni di democrazia ai sindacati italiani, ancora uniti sotto la direzione unitaria di Giuseppe Di Vittorio, e il labor attaché dell’Ambasciata americana, Tom Lane, esortava e aiutava anche finanziariamente Giulio Pastore, da poco insediato a via Po, 21, a organizzare la Libera CGIL, divenuta poi CISL in nome dei «valori democratici».

    Il senso del mio libro consisteva, come l’amico Daniel H. Horowitz ben comprendeva, nel rovesciare dialetticamente il discorso, dimostrando che erano proprio i sindacati americani, sia la American Federation of Labor che il più recente Congress of Industrial Organizations, a dover affrontare e risolvere il loro problema originario: dovevano accontentarsi di essere un puro e semplice «gruppo di pressione», oppure erano costretti, come a Detroit mi ammetteva Walter P. Reuther, con il braccio al collo per un recente attentato, a diventare una forza politica in prima persona? In altre parole, per la lotta sindacale ad ampio raggio, sarebbe bastata la «coscienza del posto», o job consciousness, teorizzata da Selig Perlman? Nessun dubbio che il job sia importante, ma è la funzione o mansione lavorativa esercitata dal singolo lavoratore. Non si esce dai limiti di quell’individualismo esasperato per cui ogni buon americano si fa da sé, diventa un «self-made man». Ma così si tradisce la natura intima, storicamente fondata, del sindacato, che è, fin dalle sue lontane origini, un atto e un’esperienza di solidarietà collettiva, consapevole che nessuno può salvarsi da solo.

    Di qui, l’attualità del Dilemma. Oggi più che mai, in una situazione in cui l’economia di mercato è molto forte e spesso è decisiva per le decisioni politiche, i valori del sindacato vanno richiamati. Non si tratta di fomentare un neo-luddismo. Il mercato come forma di negoziazione è perfettamente legittimo. Ma quando una economia di mercato non viene governata ed è così forte da tracimare e addirittura trasformare la società in società di mercato, cioè in non-società, in cui tutti i rapporti interpersonali sono puramente utilitari, ci troviamo in una situazione che richiama, purtroppo, la teoria di Thomas Hobbes della «guerra di tutti contro tutti» (bellum omnium contra omnes) e dell’«homo homini lupus».

    Roma, 23 giugno 2023

    F. F.

    Ai miei Genitori e a Louise

    Prefazione

    Brani di questo libro sono stati pubblicati nella rivista Comunità, diretta da Adriano Olivetti, precisamente nei numeri 13, 15, 16, 19 e 21. L’articolo «Gangsterismo e Sindacati negli Stati Uniti», apparso nel n. 15 della rivista Comunità, e stato ripreso e stampato nel n. 11 di Lettere ai Lavoratori, dell’on. Giuseppe Rapelli.

    Le mie analisi si appoggiano a documenti e a materiale vario, che ho raccolto nel corso di due anni di viaggi e di studio presso le Facoltà di Sociologia e di Scienze Politiche e l’Industrial Relations Center dell’Università di Chicago. Per questa ragione, ho un notevole debito di gratitudine verso parecchi professori dell’Università di Chicago. In particolare: C. Herman Pritchett, Frederick H. Harbison, Herman Finer, Leo Strauss, Charles M. Hardin, David Easton, Leonard D. White, Herbert Blumer, Harold L. Wilensky, Joel Seidman e Edward Shils.

    Conservo, riconoscente, il ricordo di una bella discussione con Selig Perlman, teorico e storico del movimento operaio, nella sua casa in Madison, Wisconsin.

    A Kermit Eby devo i miei primi contatti con il mondo, pittoresco e complicatissimo, della sinistra americana.

    Marjorie P. Bryant e Julius Yacker mi hanno aiutato specialmente nella ricerca di documenti sulla «democrazia interna» dei sindacati americani; senza il loro contributo e la collaborazione di Clement Balanoff, impiegato presso le acciaierie di Gary, Indiana, mi sarebbe stato probabilmente impossibile partecipare direttamente, come un semplice iscritto di base, alle riunioni sindacali.

    Nella partecipazione diretta alla vita degli organismi sindacali e nei contatti con i rappresentanti del mondo operaio americano, mi sono in generale attenuto al metodo delle «interviste intensive». In due anni ho avuto modo di parlare, riuscendo talvolta ad avviare discussioni che andavano oltre la scorza dei problemi, con centinaia di operai, soprattutto nelle aree industriali di Boston, New York, Detroit e Chicago. A questi collaboratori sconosciuti e preziosi devo uno speciale ringraziamento. Dei loro dirigenti credo di dover menzionare Willoughby Abner (United Auto Workers), Jerry Zeigler (United Auto Workers, Ford Corp.), Sidney Lens (United Service Employees, Chicago), Joseph V. Moreschi (International Hod Carriers, Building and Common Laborers’ Union of America), Sidney Ordower (Committee for Labor Unity).

    Fra i dirigenti nazionali, sento di dover ringraziare in maniera particolare Walter P. Reuther, il compianto presidente della American Federation of Labor, William Green, e le rispettive segreterie. Fra gli impiegati del Dipartimento di Stato a Washington non posso tacere di Daniel J. Horowitz, che mi è stato largo di informazioni e di consigli e che non se la prenderà se sono arrivato a conclusioni, per quanto parziali, diverse dalle sue.

    Questo libro non ha la pretesa di esaurire i resultati delle mie inchieste. Esso non tende che a porre sul tappeto e a richiamare all’attenzione alcuni problemi, che nella pubblicistica di parte, aprioristicamente legata a presupposti ideologici, si suole dare per scontati, senza per altro affrontarli nei loro termini precisi. Esso è l’introduzione a un discorso più ampio e impegnato sui sindacati americani, sulla funzione che essi assolvono nella società americana e sulle conseguenze, sempre più pesanti e pregne di responsabilità storiche, della loro azione sul piano internazionale. Per via del suo carattere introduttivo, questo libro si pone, nel piano dei miei lavori, come la prima parte di uno studio più vasto, i cui prossimi temi potranno probabilmente raccogliersi sotto i titoli «Partiti e Sindacati negli Stati Uniti» e «I Sindacati e la Comunità in America».

    Ciò spiegherà, spero, anche presso i lettori più esigenti e avvertiti, certe lacune del presente lavoro. Per esempio: i rapporti Sindacati-Stato non sono sufficientemente approfonditi; non si è lumeggiata con la cura dovuta la peculiare natura del partito politico americano; l’incidenza della contrattazione collettiva sulla redistribuzione del reddito nazionale merita, e giustifica, uno studio a sé, mentre qui ci si limita a un fuggevole accenno; trattando della «democrazia interna», si è taciuto di proposito dei varii tipi di discriminazione usati contro negri, messicani e minoranze in genere; per la estrema complessità dei problemi, cui dà luogo, e per il ruolo che gioca nella società americana in generale, la discriminazione anti-minoritaria merita infatti un discorso a parte. Altrettanto si dica per gli accenni, insufficienti, all’idealistica infanzia del sindacalismo americano, ossia ai Knights of Labor e agli Industrial Workers of the World. A consolazione degli interessati, dirò che, per quanto riguarda gli Industrial Workers of the World, il loro attuale segretario chicagoano, William G. Ryan, mi ha fornito documenti del massimo interesse sulla loro attività, dei quali intendo valermi in altra sede. Per i Knights of Labor invece, il lettore troverà la traduzione del Preambolo del loro Statuto, che risale al 1878, nell’Appendice 1 di questo volume.

    Probabilmente si lamenterà, e non senza ragione, la mancanza di una nota bibliografica.

    Personalmente, non credo nelle bibliografie, che sono semplici elenchi di nomi e di titoli e che si riducono pertanto a una fatica di mera compilazione. Per questo sto lavorando a una «bibliografia ragionata» sui sindacati americani, in cui ad ogni nome e rispettivo titolo farò seguire qualche notizia sul contenuto e un breve giudizio. Per il momento, mi lusingo che riescano soddisfacenti gli autori e le opere citati nel corso della trattazione e nelle note a piè di pagina.

    Il manoscritto è stato anche letto da Bruce H. Millen, attaché dell’Ambasciata americana in Roma, il quale, pur esprimendo qualche riserva soprattutto rispetto alle tre sezioni del secondo capitolo, non ha contestato alcun dato di fatto, ha convenuto che i problemi sollevati rappresentano dei «punti nevralgici» di grande importanza e ha contribuito alcune osservazioni sul piano generale dell’opera, di cui si è tenuto un certo conto.

    Chiudendo questa nota, voglio ringraziare il signor M. Bullard, della Commissione Americana per gli Scambi Culturali con l’Italia, che nel novembre del 1950 incoraggiò e più tardi rese possibile il mio viaggio negli Stati Uniti; l’ing. Adriano Olivetti, che mi agevolò in molti modi durante il mio soggiorno, più lungo del previsto; la American Library dell’U.S.I.S. di Roma e la Fondazione Antonio Gramsci, che mi consentirono l’uso e il prestito dei loro libri con una larghezza non prevista dalla lettera dei regolamenti.

    F. F.

    Roma, 20 settembre 1953.

    «Taft o un altro non fa differenza. Sono tutti politicanti».

    Dall’intervista con un operaio della Swift & Co. (Chicago, Illinois), novembre 1951.

    «Se un dirigente sindacale… afferma che vi può assicurare i voti dei lavoratori, prende in giro se stesso e cerca di prendere in giro voi. Nessun dirigente sindacale può assicurare i voti dei lavoratori. Ciò che può fare è valersi della sua posizione, delle sue relazioni e della fiducia in lui riposta dagli operai per cercare di mobilitarli intorno a problemi specifici».

    WALTER P. REUTHER, presidente del CIO, parlando davanti al Platform Committee del Democratic Party a Chicago, 21 luglio 1952.

    «Il dirigente sindacale di domani sarà un uomo d’affari, rispettato e rispettabile…».

    Fred A. Hartley, Our New National Labor Policy, New York, 1943, p. 144.

    Capitolo I

    Presentazione

    Sorpresa, confusione e disorientamento: per lo studioso di problemi sindacali, che arriva dall’Europa negli Stati Uniti con la onesta intenzione di capire il sindacalismo americano, sulle prime non c’è altro.

    Gli Europei – è risaputo – hanno un debole per i giudizi sintetici e un gusto piuttosto raffinato per le teorie sistematiche e onnicomprensive, in cui tutti possono trovare tutto. Parlano volentieri in termini universali e si muovono con disinvoltura fra una molteplicità di generalizzazioni, che non hanno se non scarse, parziali rispondenze nell’esperienza quotidiana.

    Ricordo un tardo pomeriggio del novembre 1949 a Parigi, in una fumosa stanza della sede della CGT-Force Ouvrière in Avenue du Maine, e il secco giudizio di André Lafond, buttato là fra una telefonata e l’altra, fra una sigaretta e l’altra: «Mentre il sindacalismo europeo è rivoluzionario nei fini e riformista quanto al metodo, il sindacalismo americano è riformista rispetto ai fini e rivoluzionario nei suoi metodi».

    Era un’affermazione tipicamente europea, assoluta, dogmatica, poco o niente sensibile alle «eccezioni empiriche», ma stimolante tuttavia, thought-provoking. Che intendeva Lafond? Intendeva forse che le correnti più significative del sindacalismo europeo non accettano per principio, nelle loro piattaforme ideologiche, il sistema di produzione capitalistico e le annesse forme di proprietà privata, mentre il sindacalismo americano, scarsamente interessato alle dichiarazioni ideologiche, accetta il capitalistic pattern, salvo poi a modificarlo profondamente e anche a trasformarlo strutturalmente in qualche cosa di sostanzialmente diverso attraverso una serie di rivendicazioni immediate, quotidiane, la cui portata è però estremamente rivoluzionaria, in quanto sposta i tradizionali rapporti di forza e muta il senso del diritto di proprietà?

    È difficile dire con esattezza. Bisognerebbe cominciare col dichiarare il significato di certi termini e l’accezione specifica in cui vengono impiegati. Quello che oggi credo di potere con tranquilla coscienza affermare è che il sindacalismo americano o il «movimento operaio americano» non esiste. Ricorrendo alla for mula «movimento operaio» si vuole comunemente indicare una potente realtà organizzativa, le cui ripercussioni e il cui peso, nella società americana e, oggi, anche sul piano internazionale, sono tutt’altro che fantomatici o inesistenti. Ma il movimento operaio americano non esiste precisamente come movimento. Se è possibile parlarne come di un movimento, ciò avviene in virtù di un processo di astrazione, i cui risultati hanno ben poco a che vedere con quanto realmente accade, giorno per giorno, nella vita industriale e fra gli operai americani. Scrive, fra gli altri, R.F. Hoxie: «…i sindacati (americani) non formano una entità unificata, consistente;… ciò che si chiama unionismo è in realtà la poliedrica espressione di una serie di tipi e di varietà distinti ed essenzialmente contraddittorii».(1)

    È impossibile, d’altra parte, capire la natura e la vocazione profonda dei sindacati nella società americana senza chiarire preliminarmente alcune caratteristiche fondamentali del mondo americano. L’America non è un mondo dialettico. Tutta la tradizione culturale americana è orientata in senso evoluzionistico e, per quanto si tratti di un evoluzionismo plurilineare e a più dimensioni, essa si presenta come un continuum. Non vi sono rotture qualitative o «salti» dialettici. Vi si contempla invece uno sviluppo tendente, con un grado maggiore o minore di consapevolezza storica, verso l’omogeneità e la realizzazione pratica di un ideale fisso. La pluralità delle iniziative, nella società americana, può talvolta indurre l’osservatore a credere ad una serie di passaggi dialettici o di movimenti, che si fronteggiano come tesi e antitesi. È un errore. Tali iniziative sorgono in realtà e si muovono su un terreno comune, sul solido fondo del «sistema di vita americano», sono comprese, e giustificate, nello schema dei valori, che costituiscono la tradizione americana. È importante capire il carattere di questi «valori», che nel loro insieme sono la cornice, la general framework, in cui vive la società americana. Questi valori non sono concepiti come valori dialettici, prodotti di un determinato stadio dello sviluppo storico; essi si pongono al contrario come valori a-storici, la cui extratemporalità è garanzia della loro perenne, assoluta validità. Si tratta di verità self-evident, come si legge nella jeffersoniana Dichiarazione di Indipendenza, principî primi in un cielo immobile, che copre tutta l’evoluzione possibile.

    Di qui l’aspetto paradossale del mondo americano.

    L’America, infatti, è un tipo di società estremamente dinamico, il cui sviluppo è per altro compreso nell’ambito di uno schema di valori formulato una volta per tutte e quindi assolutamente statico. Questo può contribuire a spiegare il carattere a-ideologico dei sindacati americani. Che bisogno vi è di piattaforme ideologiche differenziate, quando il fondo, i valori, il terreno d’azione, il pattern è comune? Inoltre, tale mancanza di ideologie particolari, surrogate dalla accettazione della tradizionalizzata american way, può spiegare a sua volta la difficoltà, per i sindacati americani, di sviluppare un movimento operaio ideologicamente omogeneo, con una coscienza di classe all’europea, e collegato, in posizione più o meno subalterna, ai partiti politici.

    Storicamente, non sono mancati tentativi interessanti in questo senso. Gli esponenti degli Industrial Workers of the World (I.W.W.), l’organizzazione sindacale americana di estrema sinistra, i famosi «wobblies», teorici della violenza e dinamitardi professionisti, furono a suo tempo i più accesi fautori dello sciopero come ginnastica rivoluzionaria, strumento ideale per creare negli operai una coscienza di classe, convincendoli che «la classe operaia e i datori di lavoro non hanno niente in comune» (the working class and the employing class have nothing in common)(2).

    Un generale orientamento innovatore e radicalmente avverso all’ordine sociale esistente era proprio anche della più antica organizzazione sindacale americana, i Knights of Labor. Benché ne differissero sostanzialmente per una corrente di fervore filantropico e quasi religioso, i Knights of Labor avevano in comune con gli IWW la convinzione che il sistema capitalistico andasse rovesciato e superato attraverso l’opera di un movimento operaio cosciente. Essi però erano particolarmente contro il wage system, cioè contro il lavoro salariato, e nutrivano idilliche speranze a proposito di un nuovo ordine sociale, in cui ognuno fosse in certo modo «capitalista», vale a dire padrone del proprio lavoro e dei propri mezzi di vita.

    È sintomatico che né i Knights of Labor né gli IWW abbiano avuto durevoli successi. Oggi i Knights of Labor sono oggetto di ricerche storiche; quanto agli IWW, benché la loro influenza sui metodi d’azione del sindacalismo americano sia stata rilevante,(3) sono oggi presenti e vivi solo fra i salariati agricoli meno pagati, particolarmente fra i lavoratori agricoli stagionali, i migratory workers della West Coast. Nel Middle West, a Chicago, dove sotto l’impulso di William D. Haywood si erano considerati nel gennaio del 1950 i piani per l’organizzazione di una federazione sindacale rivoluzionaria su scala nazionale, gli IWW occupano oggi una modesta sede in Halsted Street. L’organizzazione, divisa in due fazioni rispettivamente a Chicago e a Detroit, non ha più alcuna influenza reale; i pochi frequentatori della sede sembrano vivere di ricordi. Il declino degli IWW e la scomparsa dei Knights of Labor rendono in certa misura plausibile la tesi che, negli Stati Uniti, non vi sono che limitate possibilità di organizzare gli operai secondo linee ideologiche ben definite. La free competition e il concetto di bargaining (contratto e compromesso) sono valori centrali della vita americana, che valgono e sono accettati non solo dagli industriali e dai fautori del free enterprise system, ma anche dagli operai americani. Qui si deve accennare al senso della opportunity, ossia della possibilità di «arrivare» con i propri mezzi, che gioca, mi sembra, una parte decisiva nel determinare gli atteggiamenti degli operai americani. Di fatto non esiste proletariato in America, non perché non esistano le condizioni economiche essenziali per il suo sorgere e svilupparsi, ma perché nessun operaio americano si sente, irrimediabilmente, proletario. L’operaio di oggi può essere il businessman di domani; di fronte alla bancarotta, può sempre andare ad occidente, nel far West, e crescere col Paese («go west, young man, and grow up with the country»). C’è sempre una via d’uscita (il mito della frontiera mobile, «aperta»); lo spazio sterminato dà la sensazione di una libertà di movimento praticamente illimitata.

    La fortuna, e la stabilità organizzativa, dell’American Federation of Labor mi sembra principalmente legata al rispetto di queste «regole» e atteggiamenti fondamentali, cioè al suo a-ideologismo e allo spregiudicato, dinamico pragmatismo, che caratterizza la sua azione. Samuel Gompers, il fondatore, ha riassunto la sua «filosofia» in una frase tanto semplice da riuscire banale: «Reward friends and punish enemies» (ricompensare gli amici e punire i nemici). D’altro canto tutta la strategia e la tattica dei dirigenti dell’AFL è racchiusa nel motto: «a fair day’s pay for a fair day’s work» (una giusta paga giornaliera per un giusto, equo lavoro giornaliero).

    Per gli organizzatori degli IWW questa era la formula del tradimento dei sindacalisti moderati, che «vendevano» i propri organizzati ai padroni, invece di renderli coscienti dei loro interessi di classe. Presso la maggioranza dei dirigenti sindacali la formula è ritenuta valida ancor oggi ed esprime abbastanza bene l’atteggiamento tipico del sindacalista americano medio. Ricerche accurate in aree ben definite e circoscritte, le cui risultanze sono state verificate analiticamente in base a una metodologia scientifica severa, permettono di affermare che «in nessun senso il sindacato moderno (americano) può venire considerato una manifestazione della lotta di classe».(4) I sindacati americani sono anzi contraddistinti dalla mancanza di coscienza di classe, intesa nel senso della letteratura socialista tradizionale, nei loro organizzati e questa classlessness è indubbiamente la differenza più cospicua rispetto al sindacalismo europeo.

    Ho accennato più sopra alla ragione fondamentale di questo fatto. Altre spiegazioni sono state offerte da Lewis L. Lorwin,(5) che considera l’assenza di una forte, omogenea coscienza di classe (operaia e socialista) come il risultato di cinque fattori : a) carattere dinamico dell’industria americana; b) eterogeneità dei salariati americani, immigrati da Paesi diversi; c) concetto di popolo o community come un tutto, inclusi gli operai; d) il socialismo considerato come «straniero», not respectable e contrario all’ideale dell’opportunità individuale; e) l’ostilità verso le dottrine socialistiche dichiarata dalle varie Chiese a partire dal 1880.

    Su questo terreno e da questi atteggiamenti si è realisticamente sviluppata e nutrita l’American Federation of Labor. Con circa otto milioni di iscritti, essa è ancora la più numerosa organizzazione sindacale americana. La scissione, che nel 1936 diede origine al Committee of Industrial Organizations e quindi al Congress of Industrial Organizations (CIO), non alterò sostanzialmente la sua fisionomia.

    Si è fatto e si fa un gran parlare di questa scissione. A volte si fanno confronti e paralleli con le recenti scissioni europee, in Francia e in Italia. Nulla di più inesatto. La scissione nel seno dell’AFL non fu motivata da nessuna ragione ideologica. Essa non fu il risultato di un conflitto ideologico, ma semplicemente il riflesso di una diversa concezione dell’organizzazione sindacale. Fin verso l’anno 1932, l’AFL era sopravvissuta discretamente bene come una federazione non troppo rigida di sindacati di mestiere (craft-unions), aperti a operai altamente qualificati ed estremamente consapevoli della loro autonomia e del loro rango di lavoratori privilegiati, di «aristocrazia del lavoro». È interessante osservare, a questo punto, come fino al 1931 i dirigenti dell’AFL furono costantemente contrari ad ogni intervento dello Stato a favore degli operai per mezzo di previdenze sociali, come sussidii ai disoccupati, ecc. Nel corso del Congresso dell’AFL del 1931, a Vancouver, fu presentato e approvato un esteso rapporto, in cui le assicurazioni contro la disoccupazione erano vivacemente criticate e si indicavano, come esempio negativo, le esperienze in questo campo della Germania e della Gran Bretagna, le quali avevano usato le assicurazioni contro la disoccupazione, concludeva il rapporto, «allo scopo di prevenire la rivoluzione». Ciò nonostante, l’anno seguente, anche l’AFL riconosceva che, «poiché i proprietari e i dirigenti dell’industria non sono riusciti a provvedere e a fornire possibilità di lavoro agli operai e alle operaie, la legislazione per previdenze contro la disoccupazione è stata resa indispensabile. La responsabilità di questa situazione ricade sull’industria e sui suoi dirigenti…».(6)

    Con l’avvento di Roosevelt e la politica del New Deal si verificò un fenomeno singolare. A dispetto dei sindacati già costituiti, il governo si fece promotore e incoraggiò l’organizzazione in sindacati degli operai delle industrie con produzione di massa (metalmeccaniche, automobilistiche, tessili, ecc.) dal vertice alla base, senza distinzione di qualifica o di categoria.

    Si trattava di un nuovo tipo di struttura sindacale: una struttura verticale, a immagine e somiglianza della struttura organizzativa delle grandi industrie-chiave. La reazione dei vecchi leaders delle federazioni di categoria fu tremenda e ostinata. Qualche tempo dopo il Congresso di San Francisco del 1934, dove i vecchi dirigenti, nella persona dello stesso presidente dell’AFL, William Green, furono sconfitti da John L. Lewis, presidente della United Mine Workers of America e capo universalmente riconosciuto del movimento per l’Industrial Unionism, cominciarono le espulsioni delle industrial unions (United Steelworkers of America; United Automobile Workers of America; ecc.), le quali intendevano appunto organizzare gli operai per industria.

    Così nacque, storicamente preceduto da un comitato che raccoglieva i sindacalisti dissidenti, il Congress of Industrial Organizations: non da una divergenza ideologica, bensì da una diversa valutazione di due sistemi di organizzazione, connessi con uno stadio particolare dello sviluppo industriale americano. Non essendo basata su principî dottrinari immutabili, la tensione fra le due organizzazioni sindacali non poteva durare indefinitivamente col mutare delle condizioni obiettive, che l’avevano occasionata. Ciò è tanto vero che oggi. benché in Europa si continui a discutere di «principio verticale» e di «principio orizzontale», è pressoché impossibile scoprire qualche differenza sostanziale fra la AFL e il CIO. Le due organizzazioni presentano caratteristiche identiche e potrebbero forse procedere ad una fusione organica a breve scadenza, se non si dovesse salvaguardare una rete di interessi particolaristici e di posizioni personali, che nel corso di questi ultimi anni si sono inevitabilmente sviluppati e solidificati in atteggiamenti istituzionali nel seno della macchina burocratica.

    È intuitivo che ben altrimenti seria è la scissione sindacale in Europa, dove giocano motivi di divisione ideologica che talvolta possono schierare gli operai di una medesima azienda, lavoranti nello stesso reparto, gli uni contro gli altri. Tali «ragioni ideologiche», che in Europa hanno il potere di oscurare i problemi concreti dell’esperienza quotidiana dell’operaio, spostando il centro dell’interesse su questioni astratte, mi sembrano completamente sconosciute ai sindacati americani.

    Qualche lieve differenza fra CIO e AFL è possibile riscontrare per quanto concerne a) l’azione «politica»; b) il controllo sui singoli sindacati, aderenti alla federazione; c) l’età media e l’orientamento dei dirigenti.

    Il CIO, e particolarmente il suo Political Action Committee, è noto per i suoi interessi politici, che talvolta sono andati oltre i problemi dei lavoratori come tali, fino a toccare problemi di carattere generale, a respiro nazionale

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