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Chi semina vento raccoglierà tempesta
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Chi semina vento raccoglierà tempesta
E-book219 pagine4 ore

Chi semina vento raccoglierà tempesta

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Info su questo ebook

In Chi semina vento raccoglierà tempesta, Michael Lüders porta coraggiosamente alla luce verità finora taciute sui rapporti Occidente-Medio Oriente, sviluppando un’indagine storico-politica tanto rigorosa quanto coinvolgente. 
A partire dalle politiche coloniali fino ai nostri giorni, l’autore conduce una riflessione approfondita e documentata sulle contraddizioni che sono alla base degli interventi realizzati dall’Occidente nei territori del mondo arabo-musulmano. Ne esplora le conseguenze anche in relazione ai fenomeni di radicalizzazione del terrorismo islamico, rivelando molte informazioni laddove la copertura mediatica risulta superficiale.
Narrazione e interpretazione dei fatti, basata su molteplici e autorevoli fonti, si sviluppano con stile avvincente e un linguaggio comprensibile e immediato, che cattura il lettore e ne incalza l’attenzione verso la ricerca della verità. 
Un libro che si legge come un thriller politico ma che, purtroppo, descrive la realtà, scritto con passione e coraggio da uno dei più autorevoli esperti europei di Medio Oriente.
LinguaItaliano
Data di uscita10 giu 2017
ISBN9788899706180
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    Anteprima del libro

    Chi semina vento raccoglierà tempesta - Michael Lüders

    2014

    Seminare vento, raccogliere tempesta:

    introduzione

    Quando ho raccontato a un amico di Budapest quale fosse l’intenzione di questo libro, lui l’ha compresa a modo suo: How the Americans and British fucked up the Middle East and happily continue to do so¹. In fondo non è neanche sbagliato, anzi. Questo libro è un regolamento di conti con quella politica occidentale che ama vantarsi di agire in base a valori ma che spesso, nel Vicino e Medio Oriente, ha lasciato dietro di sé terra bruciata. Gli attori principali sono gli Stati Uniti e il loro più fedele alleato, la Gran Bretagna. Almeno dall’11 settembre, però, fanno la loro parte anche gli altri Stati membri della UE.

    Chi voglia capire i conflitti di oggi, tra i quali l’avanzata dello Stato Islamico, la diatriba sul nucleare con l’Iran o la guerra in Siria, deve interessarsi alla politica occidentale e all’influsso che ha avuto sulla regione dopo la fine della Seconda Guerra mondiale. Non è l’unico fattore scatenante, ovviamente, ma ha un effetto quasi garantito. A cominciare dal rovesciamento di Mossadeq in Iran, nel 1953, peccato originale per antonomasia. Come mostreranno le considerazioni che seguono, lo schema di base degli interventi occidentali nel mondo arabo-musulmano è rimasto pressoché immutato nei decenni. In primis, la tendenza a suddividere le parti in conflitto in buoni e cattivi.

    Uno Stato, un soggetto non statuale (Hamas, Hezbollah) o un capo di governo viene demonizzato non appena bollato come cattivo, anche grazie al concorso del personale di servizio nei pensatoi e nei media. Per raggiungere il fine, il paragone con Hitler è un mezzo gradito quanto efficiente: discutere con criminali di questo calibro, e tanto più trattare con loro, sarebbe acquiescenza, un tradimento dei valori simboleggiati dall’Occidente. Mossadeq fu il primo a essere demonizzato in Occidente come secondo Hitler. Nel 1951 aveva nazionalizzato l’industria petrolifera iraniana già controllata dalla Gran Bretagna e due anni dopo pagò questa mossa con un colpo di Stato ordito dai servizi segreti britannici e americani. Dopo di lui il presidente egiziano Nasser, che nel 1956 aveva nazionalizzato il canale di Suez e si era così attirato la collera degli investitori britannici e francesi: anche lui un nuovo Hitler, che si puntò a rovesciare mediante la crisi di Suez, invano. Gli ultimi quattro della lista: Saddam Hussein, l’ex presidente iraniano Ahmadinejad, Bashar al-Assad e Vladimir Putin.

    Il male assoluto trova naturalmente il suo corrispettivo nel bene disinteressato. I buoni siamo noi, la politica occidentale, perché quest’ultima sta per libertà, democrazia e diritti umani. I politici occidentali evitano, per quanto possibile, di fare riferimento a interessi. Preferiscono dare l’impressione di portare avanti un programma su scala mondiale di democratizzazione e benessere. Gli errori, i fallimenti, le bugie e i crimini da loro commessi, che solo dall’11 settembre sono costati la vita a centinaia di migliaia di persone nel mondo arabo-musulmano, sono ignorati con magnanimità. E ovviamente i buoni hanno il diritto di punire i cattivi, per esempio per mezzo di sanzioni economiche. Sempre con la speranza inespressa che il regime cambi. Negli ultimi tempi ne sono state inflitte soprattutto all’Iran e alla Russia. Nei confronti della Cina, Washington ha congelato di soppiatto la politica delle sanzioni varata nel 1989, dopo il massacro di Tiananmen a Pechino, in quanto nel frattempo le economie dei due Paesi si sono intrecciate troppo strettamente.

    I buoni sono convinti della superiorità della propria morale perché lottano per la libertà dell’Ucraina o per i diritti umani in Iran. Si tratta però in primo luogo di mettere fuori gioco o indebolire oppositori geopolitici o di impedirne la crescita. Il fatto che Paesi come la Cina, l’India o il Brasile non si conformino alla politica sanzionatoria dell’Occidente, nei confronti né della Russia né dell’Iran, non irrita i suoi sostenitori, per i quali è Washington l’ombelico del mondo. Per di più credono che la loro politica sia efficace: abbiamo esercitato una tale pressione sui mullah che finalmente stanno trattando sul loro programma nucleare! Ciò è vero solo in parte. L’altra faccia della medaglia è questa: o si trova un accordo con quella media potenza regionale che è l’Iran oppure, prima o poi, si arriverà inevitabilmente all’escalation, alla guerra. Una guerra che, a parte gli estremisti israeliani e americani, nessuno può voler combattere sul serio.

    Anche se in realtà politici e opinionisti nostrani forse sanno che le risorse economiche e militari dell’Occidente sono da tempo arrivate al limite, che gli Stati Uniti rappresentano una potenza mondiale in ripiegamento e che, in un mondo sempre più multipolare, noi occidentali non possiamo più imporre agevolmente la nostra volontà, la maggior parte dei fautori della pura dottrina The West is Best si comporta tuttora come se il muro di Berlino fosse appena crollato. La fede nella propria onnipotenza sembra intatta. Come spiegare, altrimenti, che la politica occidentale punta più allo scontro che alla collaborazione e che lascia trasparire una disponibilità talmente scarsa a imparare dai propri errori? Per esempio, la guerra al terrorismo ha forse indebolito o addirittura sconfitto Al-Qaida o i talebani? Dal 2001 gli Stati Uniti sono intervenuti militarmente o hanno compiuto attacchi con droni in sette Paesi a maggioranza musulmana: Afghanistan, Iraq, Somalia, Yemen, Pakistan, Libia e Siria. In quale di questi Paesi le condizioni di vita degli abitanti sono poi migliorate e si profilano stabilità e sicurezza? Esiste un solo intervento militare dell’Occidente che non abbia avuto per conseguenza caos, dittatura e nuova violenza? Qualcuno può contestare la seguente affermazione? Senza la caduta di Saddam Hussein, provocata nel 2003 dagli Stati Uniti nel contesto della coalizione favorevole alla guerra, e senza la successiva devastazione dello Stato iracheno ad opera di una politica americana di occupazione ignorante e tendente al confessionalismo, oggi lo Stato Islamico non esisterebbe.

    Nel frattempo la regione che si estende dall’Algeria al Pakistan è un arco di crisi pressoché ininterrotto, funestato da guerre, disgregazione statuale, stagnazione e violenza. Tra le molteplici cause di tutto ciò ne spiccano due. Da un lato, il fatto che chi detiene il potere non sia capace né propenso a servire interessi diversi da quelli clientelari. Qualsiasi opposizione è repressa con la violenza. Finché un giorno salta tutto per aria, l’ultima volta in occasione delle rivolte arabe. Segue l’ascesa al potere di militari, milizie o signori della guerra, di clan e tribù, di gruppi religiosi o etnici e con ciò particolarismo, autodistruzione e barbarie. In questo contesto prosperano vari gruppi di jihadisti che si servono del Corano come sfondo per giustificare l’arbitrio, la conquista e il terrore.

    Dall’altro lato, l’influenza esercitata dall’Occidente fin dai tempi del colonialismo, incluso il fatto che i confini della maggior parte dei Paesi arabi furono tracciati col righello da Gran Bretagna e Francia dopo la Prima guerra mondiale. Negli anni Cinquanta gli Stati Uniti assunsero il ruolo di potenza egemone della regione. Gli interventi di Washington, in primis il colpo di Stato di Teheran del 1953, continuano a produrre effetti, anche se da noi, in Occidente, sono da tempo dimenticati oppure eclissati dall’immagine di una superpotenza benevola e insostituibile.

    Per comprendere meglio il presente, iniziamo allora dal passato: dall’esempio dell’Iran.

    1 Come gli americani e i britannici hanno incasinato il Medio Oriente e continuano allegramente a farlo.

    Colpo di Stato a Teheran:

    il peccato originale

    Il colpo di Stato che rovesciò il primo ministro iraniano democraticamente eletto, Mohammed Mossadeq, era stato programmato minuziosamente e preparato per mesi. La CIA (Operation TPAJAX) e il servizio segreto britannico MI 6 (Operation Boot) non avevano lasciato nulla al caso. L’obiettivo era chiaro: campagna per l’instaurazione di un governo filoccidentale in Iran, si legge in un documento della CIA del 1953 da poco desegretato. E più avanti:

    "BERSAGLIO Il primo ministro Mossadeq e il suo governo.

    METODI ATTUATIVI Metodi legali e paralegali volti a rovesciare il governo Mossadeq e a sostituirlo con un governo filoccidentale (...).

    AZIONE CIA Il piano è stato attuato in quattro fasi:

    [censura] (…) incoraggiare lo Scià a esercitare i suoi diritti costituzionali firmando i decreti atti a consentire che Mossadeq sia estromesso dalla carica di primo ministro in modo conforme alla legge.

    Saldare le fazioni politiche iraniane di tendenza ostile a Mossadeq, compreso l’influente clero, e coordinarne le iniziative per assicurarsi il loro appoggio, in modo che caldeggino qualsiasi azione legale dello Scià volta a estromettere dalla carica Mossadeq.

    [censura] (…) disilludere la popolazione iraniana riguardo al mito del patriottismo di Mossadeq, dando risalto alla sua collaborazione con i comunisti e anche al fatto che ha manipolato l’autorità conferitagli dalla Costituzione per smania di potere personale.

    4. Allo stesso tempo occorre portare avanti una ‘guerra dei nervi’ contro Mossadeq. Lo scopo è far prendere coscienza a lui e all’opinione pubblica che non è il caso di fare affidamento su aiuti economici e che gli Stati Uniti guardano alla politica di Mossadeq con estrema preoccupazione:

    una serie di dichiarazioni ufficiali di alti funzionari americani volte a chiarire che Mossadeq non ha motivo per attendersi ulteriori aiuti dagli Stati Uniti;

    articoli di quotidiani e periodici statunitensi che criticano lui e i suoi metodi e

    [censura] (…) assenza dell’ambasciatore americano, cosa che accentua l’impressione che gli Stati Uniti abbiano perso fiducia in Mossadeq e nel suo governo (…)

    L’estromissione di Mossadeq dal potere è stata eseguita con successo il 19 agosto 1953 (…)".

    Esattamente lo stesso giorno di 60 anni dopo, il 19 agosto 2013, il National Security Archive della George Washington University di Washington ha pubblicato su internet i documenti della CIA di allora, acquisiti ai sensi del Freedom of Information Act, tranne quelli non divulgabili in quanto ancora classificati come segretissimi. Il voluminoso materiale è impressionante perché testimonia un’insensibilità degna di nota ma anche un’inquietante professionalità. In seguito a tale divulgazione la CIA fu costretta ad ammettere pubblicamente per la prima volta che il servizio segreto americano aveva preso parte a quel colpo di Stato da capofila.

    Ciò non è assolutamente di interesse soltanto storico o accademico. Nei negoziati sul nucleare con l’Iran, per esempio, svolge un ruolo importante a livello subliminale. Per Teheran si tratta qui di capire se si può fidare degli Stati Uniti, se hanno effettivamente imparato a rispettare la sovranità dell’Iran oppure se, ancora una volta, puntano a un cambio di regime. Tale vicenda mise fine all’effimero esperimento della democrazia iraniana e gettò le basi per la dittatura dello Scià, a sua volta spazzata via dalla rivoluzione islamica del 1979. In quale misura continui ancora oggi a produrre effetti, è dimostrato anche dal discorso che il presidente Obama rivolse al mondo islamico nel 2009 al Cairo. Obama fece un’ammissione: In piena guerra fredda gli Stati Uniti hanno contribuito al rovesciamento di un governo iraniano democraticamente eletto. Solo una frase, e volutamente vaga, ma Obama sarà stato consapevole del fatto che, nella memoria collettiva non solo degli iraniani ma anche di molti arabi e musulmani, il 19 agosto 1953 ha almeno lo stesso rilievo del 17 giugno 1953 in Germania².

    Denaro al di là dei sogni più audaci

    In Gran Bretagna, la partecipazione al colpo di Stato non è ancora stata oggetto di discussione a livello ufficiale. Negli anni Settanta alti funzionari britannici persuasero Washington a non pubblicare documenti che per Londra sarebbero stati oltremodo imbarazzanti. Solo il ministro degli Esteri Jack Straw, in reazione al discorso di Obama del Cairo, ammise nel 2009 che nel corso del XX secolo vi erano state molte ingerenze della Gran Bretagna negli affari iraniani. Il ministero degli Esteri di Londra, a proposito delle pubblicazioni del National Security Archive, osservò che un coinvolgimento nel colpo di Stato non si poteva né confermare né smentire.

    Il motivo di tanto signorile riserbo potrebbe benissimo essere che l’iniziativa del sovvertimento sia partita da Londra. I britannici detenevano il monopolio sull’industria petrolifera iraniana fin dai suoi albori, nel 1909. L’Anglo-Persian Oil Company diventò nel 1935 l’Anglo-Iranian Oil Company, AIOC, e infine, nel 1953, British Petroleum, BP. Prima della Seconda guerra mondiale erano affluiti in Gran Bretagna utili per circa ottocento milioni di sterline, mentre quelli conseguiti dall’Iran ammontavano a soli 105 milioni di sterline. Il primo ministro Winston Churchill definì l’AIOC un premio che arriva da un Paese favoloso, al di là dei sogni più audaci. Nel contempo Abadan, sito di estrazione del petrolio nel Golfo Persico, era di fatto una colonia britannica in cui vigeva un regime di apartheid. Vietato agli iraniani, era scritto per esempio sulle fontane d’acqua potabile. Le cattive condizioni di lavoro provocavano ripetutamente proteste e scioperi che venivano repressi con la violenza. Alla fine degli anni Quaranta la protesta prese forma sul piano politico e un gruppo di parlamentari pretese di rinegoziare i contratti conclusi con la Gran Bretagna per la prospezione. Il loro portavoce era l’avvocato Mohammed Mossadeq, che aveva studiato in Francia e in Svizzera. Con i suoi compagni di lotta fondò il Fronte nazionale, per porre fine al predominio britannico e combattere l’autocrazia dello Scià. Il Fronte rivendicava tra l’altro libertà di stampa, libere elezioni senza brogli e una monarchia costituzionale.

    Lo Scià: nel 1921 Reza Khan, ufficiale della brigata dei cosacchi, in origine una truppa d’élite di unità a cavallo russe e ucraine al soldo di Teheran, aveva rovesciato la dinastia dei Cagiari, regnante dal 1796. Nel 1926 si era fatto incoronare Scià (sovrano) e aveva così fondato la dinastia Pahlavi. Pahlavi, sinonimo di mediopersiano, era la lingua dell’impero sasanide, il secondo impero persiano dell’antichità (224-641). Nel 1941, a causa degli stretti rapporti con la Germania nazista, fu costretto dagli Alleati ad abdicare. Il figlio Mohammed Reza gli succedette come Scià e tale rimase fino alla rivoluzione islamica del 1979. Con l’aiuto dello Scià e dei suoi fedeli seguaci, ampiamente rappresentati in Parlamento per effetto di manipolazioni elettorali, i britannici tentarono di impedire l’affermazione politica del Fronte nazionale. Ciononostante, alle elezioni parlamentari del 1950 divenne uno dei principali partiti e presentò all’AIOC una proposta per un riparto più adeguato dei proventi del petrolio. L’AIOC però rifiutò di trattare e ciò scatenò proteste e scioperi in tutto il Paese. Ormai la nazionalizzazione dell’industria petrolifera era pretesa da ampie

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