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L'aquila e il toro
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E-book437 pagine5 ore

L'aquila e il toro

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L'Aquila, simbolo per eccellenza della potenza politica e militare degli Stati Uniti, e il Toro, rappresentazione, invece, dell'euforia borsistica di Wall Street stanno soffrendo oggi, più che mai, di una profonda crisi a causa di scelte estreme che hanno caratterizzato la politica americana dalla presidenza di Ronald Reagan sino a quella di George W. Bush. L'attuale crisi del capitalismo statunitense viene analizzata dall'Autrice, ripercorrendo anche esperienze di altre nazioni, come Russia, Cina e India che, dalla globalizzazione del primo decennio del nuovo secolo, sono emerse come possibili alternative di potenza agli Stati Uniti, tanto da far prospettare un'era post-americana. Anche l'Africa e l'America Latina, da sempre sorprendenti per le contraddizioni politiche, economiche e sociali, stanno ora sperimentando un'evoluzione che fa assumere loro il carattere di paesi in via di riscatto e di nuova globalizzazione. In questa ricostruzione storica, l'Autrice evidenzia, quindi, la genesi delle cause, nemmeno tanto celate, del declino politico ed economico degli Stati Uniti e del ruolo degli organismi sovranazionali nella fallimentare gestione delle gravi crisi che hanno coinvolto le relazioni fra Stati nell'era della globalizzazione.
LinguaItaliano
Data di uscita18 lug 2012
ISBN9788864589992
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    Anteprima del libro

    L'aquila e il toro - Germana Tappero Merlo

    1955

    Introduzione

    L’idea di scrivere un testo che analizzasse le cause del declino di una potenza politica ed economica come gli Stati Uniti non è certo originale, soprattutto dopo le crisi finanziarie che hanno travolto Wall Street e l’intero sistema produttivo americano, e la folgorante vittoria del candidato democratico alla Casa Bianca, Barack Obama, in chiaro segno di aperta opposizione alla politica repubblicana di George W. Bush. Sicuramente una marea di testi di osservatori e analisti politici ed economici invaderà gli scaffali di librerie e biblioteche, spiegando con complesse classificazioni politologiche e inutili modelli econometrici, le grandi trasformazioni che hanno indebolito la nazione americana, hanno messo in profonda crisi l’economia capitalistica e hanno fatto emergere o scoprire nuovi protagonisti di un villaggio globale in continua evoluzione. Lo scopo ultimo di questo testo è, però, differente: dato che è convinzione profonda di chi scrive che non esistano verità assolute e, soprattutto, scuole o modelli teorici in grado di spiegare la complessità di comportamenti che determinano la vita politica ed economica dei differenti paesi, l’obiettivo di questo saggio è quello di dare poche spiegazioni certe quanto, invece, sollevare interrogativi o dubbi su dottrine, decisioni, comportamenti, ed anche, ma non solo, su chi le adotta o li pratica.

    È un testo che nasce come analisi critica delle scelte politiche, economiche e, in parte, anche militari, fatte negli anni dagli Stati Uniti, senza fare un processo, con verdetto già scontato di condanna, alla grande potenza d’oltreoceano: non è un testo antiamericano, ma al contrario, vuol essere un atto dovuto e di affezione da parte di chi da molti anni studia la storia e la politica americana, alla ricerca del perché gli Stati Uniti, mito della democrazia, così come celebrato nel 1834 da Alexis de Tocqueville, e di cui conservano ancora quella costituzione e quel sistema federale, si siano ritrovati sempre più al centro di un dibattito molto critico sul loro modo di concepire, di attuare e imporre la democrazia, non solo politica, ma soprattutto economica. Mai come a fine mandato di George W. Bush è stato ampio e profondo il sentimento antiamericano, e non è un caso che la vittoria di Barack Obama sia stata celebrata, quasi osannata, come una liberazione da una gestione con troppe menzogne, come quella sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein che fu il pretesto per l’avvio della guerra in Iraq, e dai tardivi e incoerenti interventi economici, come il forte supporto finanziario statale agli istituti di credito in seguito alla crisi dell’autunno del 2008, dopo anni di liberalizzazione sfrenata e incontrollata del mondo della finanza.

    Quali sono stati quindi i meccanismi che hanno portato a una crisi profonda gli Stati Uniti e, con essi, anche il concetto stesso di democrazia americana? Alcuni autori hanno già lucidamente ed esaurientemente affrontato gli aspetti politici e sociali; e rimandiamo a quelle letture¹ per capire tali fenomeni, per concentrarci, invece, su aspetti più propriamente economici interni e internazionali, e non solo statunitensi, che hanno finito per influenzare profondamente la politica estera americana, le relazioni internazionali, il fenomeno della globalizzazione nel suo complesso e, soprattutto, hanno permesso la nascita di nuovi e potenti protagonisti, politici, economici, finanziari e anche militari.

    Il lettore troverà così numerose informazioni, connessioni e anche ipotesi o dubbi sul futuro di molte nazioni che, dall’inizio del nuovo millennio e, in particolare, dopo le scelte strategiche statunitensi del dopo 11 settembre, si contendono il ruolo di grande potenza, con un’unica certezza, per lo meno per chi scrive, ossia l’avvio di un’era di globalizzazione post-americana perché, in parte per scelte errate e, in parte, per naturale evoluzione proprio della globalizzazione, gli Stati Uniti hanno permesso che essi stessi perdessero il primato di potenza politica, per dare maggior spazio e far eccellere i loro obiettivi di politica economica e geostrategica, non pienamente condivisi o accettati dal resto della comunità internazionale. Nuovi Stati o realtà economiche, come Cina, India o Brasile, o vecchi antagonisti come la Russia, sono sempre più concentrati sui loro interessi piuttosto che a soddisfare quelli di un Occidente in crisi, sia questo rappresentato dagli Stati Uniti o dall’Europa: i nuovi paesi esprimono nuove potenze economiche e anche militari e stanno rivendicando un ruolo da protagonisti. Essi impongono i loro interessi non tanto attraverso l’antiamericanismo, che presupporrebbe sfida e contrasto, quanto piuttosto in un contesto più di post-americanismo, appunto, dove i rapporti si vogliono fondati sulla parità. Man mano che questi nuovi Stati diventano più attivi, lo spazio d’azione degli Stati Uniti non può che ridursi progressivamente. È necessario, infatti, destrutturare l’usuale forma mentis che ha caratterizzato, sino ad ora, l’approccio analitico della politica estera americana e delle relazioni internazionali: se un G8, per volontà statunitense e dei suoi alleati, non vuole includere la Cina o sbattere fuori la Russia, non è più un problema per costoro, perché nuove realtà di aggregazione, nuove forme anche di ricatto politico ed economico sono ormai un dato acquisito e ampiamente utilizzato, per cui negare un’alleanza o un finanziamento non significa più emarginare l’altro, quanto permettergli di trovare altre intese, fors’anche più redditizie.

    La globalizzazione post-americana dimostra, inoltre, che il potere si sta spostando dagli Stati verso altri soggetti, in un’alleanza transnazionale che scavalca i confini territoriali per aggregarsi attraverso nuove forme, di cui quelle finanziarie sono solo l’esempio più palese e conosciuto: l’intreccio di interessi economici e politici transnazionali, che si attua attraverso la collaborazione di quelle che nel testo sono state definite élites, determina veramente il centro di potere decisionale. La capacità di relazionarsi commercialmente, in cui l’approvvigionamento di materie prime e l’autonomia energetica giocano un ruolo primario, ha sostituito i tradizionali fattori di riferimento delle relazioni internazionali tradizionali. La nascita e lo sviluppo di modelli alternativi di crescita e di globalizzazione sono l’inevitabile conseguenza della fine della logica binaria della Guerra fredda e dell’evoluzione di un’economia globale che, dando una spropositata importanza a fattori esclusivamente finanziari, ha finito per implodere con le crisi dell’autunno 2008 e l’inevitabile recessione che ha colpito gli Stati Uniti e gran parte dei paesi occidentali più industrializzati.

    La responsabilità maggiore di quanto è avvenuto è da attribuirsi alla potenza americana che sembra non aver avuto quella visione strategica di lungo periodo, che le avrebbe permesso di ottenere solo grandi vantaggi politici ed economici dalla vittoria della Guerra fredda contro l’Unione Sovietica. È una responsabilità che non risiede solo ed esclusivamente nell’adozione ed estremizzazione di una dottrina economica neoliberista che, come si vedrà nel testo, è stata adottata acriticamente dalla maggior parte dei paesi industrializzati e, soprattutto, dagli organismi sovranazionali preposti a garantire lo sviluppo e la crescita del resto del mondo: è una responsabilità che risale agli albori del sistema politico ed economico internazionale contemporaneo, ossia a quell’immediato dopoguerra, quando a Bretton Woods, con l’istituzione del Fondo monetario e della Banca mondiale vennero poste su basi infauste le fondamenta del nuovo sistema internazionale e i rapporti fra paesi creditori e quelli debitori, per lo più quelli di nuova indipendenza politica. Non è un caso, infatti, che di fronte alle gravi crisi finanziarie venga chiesto, coralmente, la riforma del sistema monetario e finanziario, attraverso una nuova Bretton Woods.

    E pensare che il principio ispiratore di quella conferenza era stato quello di istituire un sistema di scambi internazionali fondati su principi liberisti e su accordi multilaterali, in contrapposizione a quel protezionismo e a quel bilateralismo troppo riduttivi delle relazioni politiche ed economiche degli anni fra le due guerre e, per gli osservatori di allora, anche i principali responsabili della grande depressione del ’29. Secondo quei politici e quegli economisti, occorreva istituire un sistema più solido, che garantisse la sopravvivenza del capitalismo e del liberoscambismo, in cui anche i principi wilsoniani di pace e prosperità fra le nazioni potessero esprimersi con la supervisione e la garanzia di una potenza come gli Stati Uniti, vincitrice del secondo conflitto mondiale con i suoi più deboli e martoriati alleati, Gran Bretagna e Unione Sovietica.

    I piani iniziali di J.M. Keynes e di H.D. White, sebbene con alcune differenze, concordavano nell’introdurre quegli accorgimenti che avrebbero permesso agli organismi sovranazionali di controllare le politiche monetarie dei diversi paesi e la creazione di liquidità internazionale: Keynes, in particolare, suggeriva l’abbandono del gold standard, attraverso lo sganciamento delle valute dall’oro a vantaggio di una valuta di riserva sovranazionale e l’introduzione di un sistema di cambi flessibili, in modo da penalizzare le speculazioni sui cambi e i movimenti a breve di capitali. La Banca mondiale, con ruolo di controllore, avrebbe dovuto avere un ampio grado di autonomia rispetto alle autorità nazionali, a loro volta libere artefici degli interventi di stabilizzazione monetaria e di piena occupazione. Ciò che sia Keynes che White volevano ad ogni costo evitare era che, attraverso l’aggancio all’oro di una valuta nazionale, qualsiasi intemperanza o squilibrio all’interno di quella nazione guida si riversassero, con effetto domino, su tutte le altre valute nazionali. In particolare, con il piano di Keynes, venivano poste le basi per una gestione dell’economia e della finanza internazionale praticamente immune da contraccolpi speculativi interni o esterni a una valuta.

    I due piani vennero, comunque, rigettati. L’accordo finale fu, in realtà – e a differenza di quanto viene normalmente sostenuto senza l’adeguata analisi storica di quei fatti – fortemente influenzato dall’impostazione diametralmente opposta di J.H. Williams che, conformemente agli interessi della finanza privata statunitense, sosteneva la necessità di un sistema di cambi fissi e stabiliva la centralità del dollaro come moneta internazionale. Era l’inevitabile conseguenza del desiderio di difendere il ruolo degli Stati Uniti come paese egemone in campo finanziario e commerciale all’interno del nuovo sistema monetario internazionale, con inevitabili ripercussioni anche in quello politico. L’istituzione, infatti, di due organismi come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, fortemente voluti dagli Stati Uniti, e destinati, rispettivamente, agli interventi di stabilizzazione dei disavanzi delle bilance dei pagamenti dei singoli paesi e ad erogazione di crediti su progetti di investimento, sarebbero diventati negli anni, e come verrà evidenziato nel prosieguo del testo, una longa manus del controllo statunitense su tutto ciò che avrebbe riguardato i futuri flussi economici e finanziari mondiali, e i modi e i contesti in cui concedere prestiti. Non veniva più previsto l’obbligo per i paesi con la bilancia dei pagamenti in surplus di riequilibrare i loro conti con l’estero e nemmeno venivano previsti rigidi controlli sovranazionali sui movimenti a breve dei capitali. Al contrario, alla grande finanza privata statunitense, strenua avversatrice del piano keynesiano a Bretton Woods, l’impostazione di Williams garantì il compito di creare liquidità e di gestire i movimenti di capitali a breve, finendo per istituzionalizzare il rapporto fra Stati Uniti (in posizione creditoria) e resto del mondo (in posizione debitoria) su di un livello unidirezionale, gettando così le basi della futura asimmetria finanziaria all’interno del sistema internazionale.

    Infatti, nel 1971, passata l’euforia degli anni dei miracoli economici, trainati dal Piano Marshall e dalle politiche di ricostruzione, e all’ombra di una politica internazionale che soggiaceva all’inevitabile logica della contrapposizione fra Stati Uniti e Unione Sovietica, per la nazione americana divenne imperativo sganciare la convertibilità del dollaro all’oro, a causa delle forti oscillazioni di quella valuta sui mercati internazionali e la conseguente ondata inflazionistica che la colpì.

    Anche alcuni paesi europei, come Francia e Germania, costretti a rigidi interventi monetari e compressione dei salari, avevano già subito le lotte sindacali che, per tutti gli anni ’70, avrebbero poi pesantemente influenzato l’intero sistema politico ed economico, con inevitabili ripercussioni sociali. La decisione statunitense, presa unilateralmente e senza consultare gli altri firmatari degli accordi di Bretton Woods, era il risultato tangibile della volontà di Washington di sganciarsi dai vincoli imposti nel 1944, ma soprattutto era la dimostrazione di quanto quelle decisioni fossero state disastrose e, sebbene non dichiarandolo, con la decisione di inconvertibilità del dollaro, gli Stati Uniti avevano posto definitivamente fine a Bretton Woods.

    Quel che restava, ossia il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e il Gatt, un organismo nato per gestire le relazioni commerciali internazionali, diventato più tardi il Wto, avrebbe svolto il ruolo di strumenti di intervento abilmente gestiti per proiettare a livello mondiale le linee guida di un’impostazione che sarebbe stata ben lontana da quel desiderio di stabilità nelle relazioni economiche e finanziarie e del principio di reciprocità negli scambi commerciali, che avevano indotto i leader politici del secondo dopoguerra a convocare la conferenza di Bretton Woods. Avrebbero prevalso, infatti, considerazioni di natura politica, e in particolare, quelle interne di un’America sfiancata da una devastante e perdente guerra in Vietnam e in piena competizione nucleare con l’Unione Sovietica: la necessità di proiettare la propria influenza su aree strategiche, soprattutto per gli scambi economici e commerciali internazionali, di controllarne le rotte e di garantirsi adeguate fonti energetiche in vista di consumi sempre più elevati e le conquiste dello spazio, avevano, infatti, indotto entrambe quelle potenze ad una competizione anche bellica, sebbene per procura, in aree come il Medio Oriente, l’Africa o appunto l’Indocina, camuffata in estenuanti confronti ideologici che, con il tempo, avrebbero assunto sempre nuove connotazioni, sino a sfociare nelle star wars dell’era reaganiana.

    Altre realtà aggregative e non ideologiche stavano, inoltre, assumendo potere: la corsa affannosa alle riserve di greggio aveva, inevitabilmente, fatto prendere coscienza ai paesi produttori di petrolio, riuniti nell’Opec, della loro importanza anche ricattatoria nei confronti del resto del mondo industrializzato. Le crisi petrolifere dell’inizio degli anni ’70, con il quadruplicamento del prezzo del greggio, da 2 a 8 dollari al barile, si affiancarono a problematiche mai risolte, quali il conflitto israelo-palestinese che, da oltre sessant’anni, in un contesto che dovrebbe essere limitato geograficamente, in realtà assorbe e accelera le più grandi contraddizioni delle relazioni internazionali. La valenza strategica del Medio Oriente in questo lungo arco di tempo e proprio a causa o, per alcuni, anche in virtù, della presenza di fattori così cruciali, come petrolio ed estremismi religiosi, è così elevata che pare non avere eguali nella storia contemporanea. E sebbene sia passata la Guerra fredda, siano finite o mutate le ideologie e gli approcci al problema della Terra Promessa e della Palestina, tutte le relazioni internazionali fanno comunque, sempre, ed inevitabilmente riferimento a quell’area. Ignorare quanto è accaduto e accade in quella regione e nell’infinito scontro fra Israele e i suoi nemici, siano essi nazioni vicine o movimenti estremisti, significa adottare un approccio manchevole di fattori esplicativi. In questo testo, la questione israelo-palestinese è stata considerata nei suoi aspetti contingenti a situazioni particolari, evitando di affrontare un tema già abbondantemente illustrato da una sostanziosa bibliografia: chi scrive, avendo già ampiamente trattato di questioni mediorientali, è ben consapevole che proprio dalle vicende di quel conflitto e dalla sua mancata soluzione ci siano insegnamenti da trarre per impostare su nuove basi l’azione mediatrice e di intervento degli organismi sovranazionali, fino ad ora consessi inconcludenti per via di direttive avulse da quelle tragiche realtà².

    Questo saggio è, quindi, diviso in tre unità: la prima prende in esame quanto è accaduto negli Stati Uniti dagli anni reaganiani sino ai nostri giorni, evidenziando quelle scelte politiche, economiche e militari che hanno condotto la grande nazione americana a vincere la competizione, anche ideologica, con l’Unione Sovietica, ad assurgere a superpotenza economica e, nel contempo, a gestire i processi di globalizzazione, in un confronto con il resto del mondo coinvolto in un’evoluzione accelerata dai progressi tecnologici in cui gli Stati Uniti primeggiavano e, in parte, primeggiano ancora, da cui la definizione del titolo del testo come l’Aquila, simbolo per eccellenza della potenza politica e militare statunitense, e il Toro, rappresentazione, invece, del suo potere economico e finanziario. Si è cercato così di evidenziare la genesi delle cause, nemmeno tanto celate, della loro crisi, che per alcuni è vero e proprio declino.

    Nella seconda parte, saranno illustrate le vicende economiche e politiche di quelle nazioni come Russia, Cina e India che, dalla vittoria americana della Guerra fredda e dalla caduta del muro di Berlino e, in ogni caso, dai molteplici fattori che hanno caratterizzato la globalizzazione economica del primo decennio del nuovo secolo, sono emerse come alternative di potenza, economica e politica, alla nazione d’oltreoceano, tanto da far prospettare un’era post-americana.

    La terza parte riguarda, invece, l’analisi, seppure a grandi pennellate, di due realtà continentali, l’Africa e l’America Latina, da sempre sbalorditive per le loro contraddizioni politiche, economiche e sociali, ma che ora stanno vivendo un’evoluzione che, da decennale condizione di paesi in via di sviluppo, fa assumere loro gli aspetti di paesi in via di riscatto e di nuova globalizzazione. Una condizione, quindi, ancora improntata all’evoluzione, a causa di quel in via di che, comunque, non impedisce a costoro di presentarsi sul palco mondiale con ruoli da protagonisti e con colpi di scena per le loro ricchezze energetiche e agroalimentari e le nuove alleanze anche strategico-militari, che finiranno, sicuramente, per influenzare i caratteri della nuova globalizzazione politica ed economica.

    Come affermato all’inizio di questa introduzione, non si tratta di avere la presunzione di coprire la totalità di problematiche che caratterizzano l’intero pianeta e le relazioni internazionali e, tanto meno, fornire verità assolute: si tratta di dare al lettore strumenti interpretativi, aggregando molteplici informazioni e cercando di trarre logiche deduzioni da un’infinità di dati, scrollandosi però di dosso quelle impostazioni e quei modelli di analisi che danno origine ad una moltitudine di etichette (multilateralismo, funzionalismo, unilateralismo e così via) che impediscono di ragionare senza ipocrisia e pregiudizio e che non possono che portare a comportamenti faziosi che, di fronte a crisi politiche e finanziarie sempre più gravi e ricorrenti, come quelle mediorientali o caucasiche e quelle di Borsa, risultano inconcludenti e generatori di nuove catastrofi.

    Roma, febbraio 2009

    1 Il saggio più completo al riguardo è quello di O. Bergamini, Democrazia in America? Il sistema politico e sociale degli Stati Uniti, Ombre corte, Verona 2004.

    2 Cfr. G. Tappero Merlo, Medio Oriente e Forze di Pace. Cinquant’anni di guerre e interventi multinazionali in Israele, Libano e Golfo Persico, F. Angeli, Milano 1997.

    I PARTE – Alle origini della crisi della potenza statunitense

    1. La rivoluzione conservatrice

    La riscossa reaganiana

    I fenomeni di destabilizzazione che avevano iniziato a emergere alla fine degli anni ’70, dopo la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro e le crisi petrolifere, sarebbero esplosi violentemente nel corso della prima metà degli anni ’80. L’inflazione galoppante, l’instabilità dei tassi di cambio e delle stesse ragioni di scambio, i mutevoli squilibri nei pagamenti internazionali, l’eccessivo aumento dei tassi d’interesse con le conseguenti crescenti difficoltà dei paesi debitori, in particolare dei Paesi in via di sviluppo, sarebbero state le caratteristiche salienti di un’economia che mostrava forti sintomi di instabilità e discontinuità. Erano segnali che preannunciavano l’inizio della fine dell’economia fordista, con la sua produzione e il suo consumo di massa, ma anche la sua regolamentazione sociale e politica. La stessa Guerra fredda − che la caduta del muro di Berlino alla fine di quel decennio avrebbe sancito l’inevitabile (almeno si credeva allora) conclusione − con le sue guerre limitate, era stata, in larga parte, anche una competizione tra il modello economico fordista e quello comunista³. Nella stessa contrapposizione fra armamenti tecnologicamente molto diversi, così come nella struttura di comando degli opposti eserciti – anche, e in particolar modo, nelle guerre combattute per procura, come quelle arabo-israeliane – era emersa chiaramente questa competizione fra modelli organizzativi e produttivi completamente differenti.

    Alcuni commentatori fanno risalire la crisi del fordismo già alla fine degli anni ’60 e l’inizio di quelli ’70, con l’emergere di nuovi mercati off shore non regolamentati dall’eurodollaro: una crisi che fu, in seguito, accelerata dallo sviluppo della tecnologia informatica che stava nascendo oltreoceano e che avrebbe condotto, nell’arco di poco più di un decennio, alla globalizzazione. Ma agli inizi degli anni ’80 furono, certamente, le politiche adottate da Ronald Wilson Reagan negli Stati Uniti e Margaret Thatcher in Gran Bretagna che, scientemente, smantellarono quella forma di capitalismo per instaurarne un’altra nuova e, secondo i suoi fautori, più forte di fronte alla crisi di fine decennio. Ciò che era un pilastro della buona economia degli anni immediatamente seguenti il secondo conflitto mondiale, come la programmazione economica, le partecipazioni statali nelle infrastrutture e le organizzazioni sindacali, apparve come un ostacolo allo sviluppo e causa prima delle ricorrenti crisi economiche⁴. Con l’adozione dei principi neoliberisti e monetaristi, propri dei governi Reagan e Thatcher, in chiara rottura con quelli keynesiani e solidaristici, per alcuni analisti e per tutti gli anni ’80 si assistette, quindi, al passaggio verso un capitalismo di transizione o di fine millennio, in cui emerse, sempre più prepotentemente il primato degli obiettivi economici su quelli politici, che avevano, invece, caratterizzato la storia contemporanea del secondo dopoguerra. Alcuni accenni di questa evoluzione si erano già avuti con la nomina di Henry Kissinger a Consigliere della sicurezza durante la presidenza Nixon: la stessa geopolitica, nata con Kissinger negli anni ’70, avrebbe assunto in quel decennio e fors’anche come reazione alla guerra elusivamente ideologica del Vietnam, una connotazione sempre più economica. Lo stesso crollo dell’Unione Sovietica, alla fine degli anni ’80, sarebbe da intendersi come trionfo definitivo del liberismo come modello politico-economico. I dettami del nuovo capitalismo di fine millennio si sarebbero, infatti, ben adattati al nuovo corso della politica estera statunitense, ispirata all’idea di Rinascita americana. E sarebbe stata la stessa impostazione dottrinale che avrebbe portato alla definizione di impero del male riferita all’Unione Sovietica − propria di una terminologia messianica dimenticata dalle precedenti amministrazioni − e alla teoria della fine della storia di Fukuyama, pensiero precursore dello scontro di civiltà di Huntington.

    Gli Stati Uniti furono, quindi, indotti a questo cambiamento radicale a causa delle complesse vicende accadute negli anni ’70 e le scelte politiche che ne erano scaturite (inconvertibilità del dollaro e la sua svalutazione), in cui avevano perso peso, non solo economico, ma soprattutto politico. Il Giappone, uscito distrutto economicamente dal secondo conflitto mondiale, li aveva superati in termini di competitività economica, mentre a livello internazionale, i fallimenti nella gestione della politica estera dell’amministrazione Carter, soprattutto le vicende legate alla rivoluzione iraniana e all’insuccesso dell’operazione per la liberazione degli ostaggi dell’ambasciata americana a Teheran nel 1979, sollevavano più che giustificati dubbi circa la leadership politica degli Stati Uniti come superpotenza. Proprio la questione degli ostaggi venne risolta dalla nuova amministrazione Reagan che segnava il ritorno dei repubblicani alla Casa Bianca, i quali, con l’elezione nel 1988 di George H. Bush, vi avrebbero soggiornato per ben tre mandati presidenziali. La salita al potere di Reagan rappresentava, quindi, l’inizio di una svolta conservatrice, dopo gli anni contrassegnati dall’idealismo e dallo slancio pacifista carteriani, che avrebbe portato alla restaurazione dei principi tradizionali americani nella gestione politica ed economica degli Stati Uniti. Di fondo, vi era la convinzione di saper fare le scelte giuste, politicamente e moralmente, e se qualche nazione entrava in conflitto con la loro politica estera era da considerarsi una minaccia, non tanto al territorio (l’inviolabilità dei confini era ancora una fondata sicurezza), quanto all’ideale americano di ordine naturale.

    Tutta la storia della presidenza Reagan sarebbe stata, quindi, in funzione di un obiettivo profondamente idealistico, ossia il rifiuto di coesistere con il comunismo, raggiungibile però attraverso l’impiego di una tattica che, alcuni autori, hanno definito brutalmente realista e che sarebbe consistita, fra l’altro, anche nel finanziamento dei narcotrafficanti in Nicaragua e in Afghanistan⁵. L’utilizzo dei fondi provenienti dal traffico di droga, che fosse in Centro America o nella Golden Crescent, la Mezzaluna d’oro afgana e pachistana, fu una pratica – e per alcuni osservatori lo è tuttora – delle covered operations della Cia in appoggio a gruppi armati: così avvenne per il sostegno finanziario ai guerriglieri Contras nicaraguensi, in cui confluirono anche fondi provenienti dalla vendita di armi statunitensi al governo khomeinista che si sapeva essere nemico degli Stati Uniti, o alla base islamica militante dei mujaheddin afgani. Con quei finanziamenti, a cui si aggiunsero anche quelli messi a disposizione dall’Arabia Saudita, costoro scatenarono una jihad contro i sovietici. Nel marzo del 1985, Reagan firmò, infatti, il National Security Decision Directive 166 ⁶, che aumentava gli aiuti militari segreti ai mujaheddin afgani. Quel documento ribadiva il fatto che l’obiettivo della guerra segreta afgana era quello di sconfiggere le truppe sovietiche attraverso azioni occulte e incoraggiarne, così, il ritiro. Quel nuovo aiuto americano comportò un incremento elevato di forniture di armi, fino a 65 mila tonnellate l’anno dal 1987, ma soprattutto favorì un flusso continuo di consiglieri militari e personale della Cia, che da quel momento collaborarono con i servizi segreti pachistani.

    La spregiudicatezza di quelle operazioni, e soprattutto degli uomini che ne furono gli artefici, venne svelata dalle commissioni d’inchiesta che indagarono sul colonnello Oliver North e l‘affare Iran-Contras, e che portarono al rischio di impeachment per il presidente Reagan: Washington acquistava, infatti, armi con i dollari del narcotraffico e riforniva i combattenti per la libertà nella guerra segreta statunitense contro il governo sandinista. Ma ancor più eclatante è stato scoprire che maggior spregiudicatezza venne utilizzata nella nomina di alcuni di quei protagonisti di allora nello staff del presidente George W. Bush jr, come Richard Armitage, assistente alla difesa ai tempi di Reagan, e nominato da Bush figlio come vicesegretario di Stato, oppure di Elliot Abrams, assistente al segretario di Stato di Reagan, e poi nominato direttore generale del Consiglio di sicurezza nazionale con compiti, così almeno recitava la motivazione della nomina, per la democrazia, i diritti umani e le operazioni internazionali, anche se, nel frattempo, si era dichiarato colpevole di almeno due imputazioni di falsa testimonianza di fronte al Congresso, proprio per l’affare Iran-Contras⁷.

    A discolpa di Reagan, verso cui il giudizio di storici e analisti non è sempre benevolo, bisogna riconoscergli d’aver intuito che, attraverso una svolta così marcata nella politica estera, avrebbe assicurato al suo paese quella coesione interna persa con la guerra in Vietnam. L’obiettivo ambizioso di debellare una potenza militare come quella sovietica, senza far scendere gli eserciti direttamente in campo, ma sostenendo semplicemente la causa della democrazia liberale e della forza dell’ideologia occidentale, sicuramente riunì il popolo americano: buon gioco, riconosciuto unanimemente, fu quello di imporre una corsa al riarmo per la difesa spaziale (la SDI, Strategic Defence Iniziative, più nota come Star Wars), che venne abbandonata dalla dirigenza sovietica perché antieconomica e tecnicamente svantaggiosa, per concentrarsi su aspetti più urgenti di trasformazione e modernizzazione della nazione.

    L’accanimento ideologico statunitense, però, fece sì che l’unica funzione degli Stati Uniti fosse quella di annientare l’Unione Sovietica come superpotenza, senza concentrarsi adeguatamente su quali avrebbero potuto essere le conseguenze geopolitiche della fine del bipolarismo e della dissoluzione di un impero, quello sovietico, carico di aspettative – di cui il riscatto economico dopo anni di isolamento ne era un esempio – e pieno di contraddizioni, come contraddittorie erano le realtà politiche, sociali e anche religiose delle sue ex repubbliche dell’Asia centrale. L’esaltazione dei neocons della vittoria di Reagan sull’Unione Sovietica, e quindi, della Guerra fredda, non tiene, inoltre, conto di un altro grande fattore, ossia l’azione di quelle forze di opposizione che caratterizzarono la storia della Cecoslovacchia e della Polonia di quegli anni. I movimenti di Carta 77 di Vaclav Havel e di Solidarnosc di Alec Walesa nacquero ben prima dell’arrivo di Reagan alla Casa Bianca: vennero appoggiate e sostenute dalla tanto vituperata amministrazione Carter e dalla politica di distensione seguita dal suo Segretario di Stato Cyrus Vance. Non per sminuire l’apporto di Reagan alla caduta del muro di Berlino e del regime sovietico, o per raggelare l’entusiasmo dei neocons, ma è necessario pure sottolineare che quella politica ebbe successo anche perché, da parte dell’establishment politico e militare statunitense, vi fu una sopravvalutazione delle possibilità dell’Unione Sovietica.

    Inoltre, quando gli Stati Uniti, nel corso di quei mandati repubblicani, iniziarono anche a imporre, più o meno velatamente, i loro nuovi dettami economici agli altri paesi, divennero di fatto i catalizzatori di tutti i mali di un sistema economico globale che nasceva dall’esperienza neoliberista, appunto, di quegli anni ’80.

    Neoliberismo e mercati

    Alla base del nuovo corso economico vi erano, come esponente di spicco, Milton Friedman e il suo saggio Capitalism and Freedom, nel quale enunciava i principi base del liberismo globale,

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