Una nazione a rischio: La crisi americana e l'eredità di Trump
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Info su questo ebook
Giuseppe Maione
Giuseppe Maione (Napoli, 1942) ha insegnato Storia Contemporanea e Storia dell’Economia Contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna. Tra i suoi ultimi libri: Le merci intelligenti (2001), Lo Stato a una dimensione (2006), Ripensare il Sessantotto (2018). Per i nostri tipi ha pubblicato 1969. L’Autunno Operaio (2019).
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Anteprima del libro
Una nazione a rischio - Giuseppe Maione
ESPLORAZIONI
Giuseppe Maione
una nazione a rischio
La crisi americana
e l’eredità di Trump
manifestolibri
© 2021 manifestolibri La talpa srl
via della Torricella 46 00030
Castel S. Pietro RM
ISBN 979-12-8012-459-3
www.manifestolibri.it
info: book@manifestolibri.it
Immagine di copertina:
Assalto a Capitol Hill da Shutterstock Inc
Indice
Premessa
Introduzione. Divisione e rancore
1. I giorni dell’ira
2. Le radici del malessere: uno sguardo d’insieme
Capitolo primo. L’età dell’oro e il suo tramonto
1.1. Fare l’America di nuovo grande
1.2. La società del benessere
1.3. Le conseguenze del trapasso
1.4. L’America nel mondo
Capitolo secondo.
Sviluppo economico e malessere sociale
2.1 Progresso tecnico e disuguaglianza
2.2 La dimensione del malessere
Capitolo terzo. Una guerra perduta
3.1 La formula sviluppo più assistenza
Capitolo quarto. In nome della legge
4.1 Tecniche di addestramento
4.2 Le origini storiche della violenza istituzionale
4.3 La protezione giudiziaria
Capitolo quinto. Il grand design di Donald Trump
5.1 La guerra delle tariffe
5.2 Un fantastico taglio fiscale
5.3 Rebuilding America
5.4 A chi importa dei programmi elettorali?
Capitolo sesto. La deriva autoritaria
6.1 Una tendenza generale
6.2 Ma con Trump, un ulteriore passo avanti
6.3 Ansia di estinzione
Capitolo settimo. Tra due lealtà
7.1 Scoramento e fiducia
7.2 La svolta del 2020
7.3 Riassumendo
Osservazioni conclusive
Premessa
Al mattino del 6 gennaio 2021, una folla stimata in 40 mila persone, su incitamento dello stesso presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, si mise in marcia verso la sede del Congresso, Capitol Hill, con l’obiettivo di impedire la ratifica dei risultati elettorali.
Poco prima delle 13 i manifestanti, guidati dalla galassia dei gruppi suprematisti e neo nazisti, ruppero gli sbarramenti eretti a difesa del grande edificio, ebbero ragione dei pochi agenti mobilitati per l’occasione e fecero irruzione nelle aule parlamentari, distruggendo, saccheggiando, circolando indisturbati per oltre quattro ore.
Una forca con un nodo scorsoio penzolante fu innalzata dinanzi alla porta d’ingresso e i manifestanti intonavano: «Impiccate tutti i congressisti».
Le immagini dello scempio hanno fatto il giro del mondo suscitando sgomento e stupore presso i governi amici o malcelato compiacimento presso quelli che con gli Usa hanno relazioni conflittuali.
In ogni caso il prestigio della più grande democrazia occidentale ne è uscito in pezzi e si dubita che possa essere restaurato in breve tempo.
La profondità e l’angoscia della reazione nel mondo – è stato scritto – indicano che qualcosa di veramente basilare nelle relazioni dell’America col mondo si è rotto. Sarà necessario molto […] per convincere gli amici democratici o gli avversari dittatoriali che l’assalto al cuore della democrazia americana da parte dei fanatici seguaci di Trump è soltanto una disfunzione temporanea¹.
Tuttavia, la preoccupazione degli americani al momento è rivolta verso l’interno, non meno che verso l’esterno.
Lo sbigottimento si esprime nella domanda: «come è potuto succedere?» e le risposte immediate fanno riferimento alla inquietante impreparazione o passività o persino collusione delle forze di polizia – oltre che, naturalmente, alle parole e ai comportamenti del presidente sconfitto, rivolti a incentivare una azione eversiva che non ha precedenti.
Ma chi guarda al di là dell’immediato pone degli interrogativi ben più radicali.
Il presidente eletto, Biden, ha affermato: «Le scene di caos dinanzi al Capitol non riflettono la vera America, non rappresentano ciò che siamo». E qualcuno gli ha risposto: «No, l’America è proprio questo: abbiamo aperto una mela e scoperto che è piena di vermi»².
A fronte di coloro che cercano speranze rassicuranti («ciò che è accaduto mercoledì è la fine del trumpismo») sta il dubbio angoscioso di chi si chiede: «Donand Trump è stato una aberrazione oppure l’infausto annuncio di un declino della maggiore democrazia del mondo?».
Un diplomatico di carriera ed eminente figura pubblica come Richard Haass non ha dubbi rispetto al carattere irreversibile del declino:
Stiamo guardando immagini che mai avrei immaginato di dover vedere in questo paese – in un’altra capitale sì, ma non in questa. Nessuno nel mondo avrà più verso di noi rispetto o timore o fiducia nello stesso modo. Se l’era post-americana ha una data d’inizio, è quasi certamente il giorno d’oggi³.
L’economista premio Nobel
Paul Krugman
invita a smettere di parlare del trumpismo con termini equivoci e a definirlo esplicitamente per quel che è: fascismo puro e semplice.
Donald Trump comunque è di certo un fascista – un autocrate disposto a usare violenza per raggiungere i suoi scopi razziali e nazionalisti. Così sono molti dei suoi seguaci. Se avevate qualche dubbio a riguardo, l’attacco di mercoledì al Congresso dovrebbe aver avuto l’effetto di eliminarlo⁴.
Ma il fascismo – noi europei ne abbiamo contezza – si definisce come un "movimento reazionario di massa", caratterizzato quindi dalla capacità dei ceti possidenti, i well-off, di scatenare la rabbia dei ceti poveri proprio contro quella sinistra politica che dovrebbe rappresentare i loro interessi, e che in determinate epoche storiche, in particolari congiunture sociali, si dimostra incapace di farlo.
Non è sufficiente quindi la chiarezza terminologica per definire un fenomeno nei suoi termini reali: quel che occorre spiegare è perché quasi metà della popolazione americana si sia posta al seguito di un progetto che viene definito come fascista.
Nel suo discorso di insediamento, dopo la vittoria del 2016, Trump pronunciò le seguenti parole:
Per troppo tempo un piccolo gruppo nella capitale della nostra nazione si è accaparrato i benefici del governare mentre il popolo ne ha subito i costi. Washington è fiorita, ma il popolo non ha condiviso questa ricchezza. I politici hanno prosperato – ma i posti di lavoro sono stati perduti e le fabbriche chiuse. L’establishment ha protetto sé stesso, ma non i cittadini del nostro paese. Le loro vittorie non sono state le vostre vittorie; i loro trionfi non sono stati i vostri trionfi; e mentre essi celebravano nella capitale della nostra nazione, vi era poco da celebrare per le famiglie che lottavano per sopravvivere in tutto il resto della nazione.
La dissacrazione del Congresso del gennaio 2021 è stata la risposta a questo tipo di retorica, un movimento reazionario di massa di quelli che si verificano in situazioni di crisi cronica della economia, delle istituzioni, dei rapporti sociali.
Ma è possibile affermare che gli Stati Uniti, ossia la macchina produttiva più potente del mondo, stiano attraversando una crisi di questa natura? E se è proprio questo il caso, quali ne sarebbero i fattori determinanti?
La presente ricerca rappresenta un tentativo di rispondere a domande di questo genere, o comunque di spostare il problema dalla deprecazione superficiale del trumpismo all’analisi delle cause profonde che lo hanno generato.
¹ Awe and Shock, «The New York Times», January 9, 2012.
²
Lionel Schriver
, The Traitorous Trump should be ousted now, «The Times», January 8, 2021.
³ Awe and schock, art. cit.
⁴
Paul Krugman
, Appeasement Got Us Where We Are, «The New York Times», January 8, 2021.
Introduzione
Divisione e rancore
1. I giorni dell’ira
Le recenti elezioni hanno rivelato che gli Usa sono una nazione fortemente polarizzata – ma questa è ormai poco più che una banalità.
Peraltro è anche un eufemismo.
Polarizzazione
significa confronto serrato tra due parti politiche. Tutti i commentatori osservano però che il confronto serrato si esprime in realtà come rabbia (anger) verso gli avversari, e che la rabbia si spinge fino all’odio: politics of hate è stata la locuzione spesso usata per descrivere il dibattito elettorale dell’autunno 2020.
Su una autorevole rivista come Scientific American è stato scritto:
Questo fenomeno [l’odio politico] differisce dalla normale divergenza che ogni partito mostra quando si tratta di questioni come l’economia, la politica estera, il ruolo della protezione sociale. Invece esso è incentrato su membri di un partito che manifestano ripugnanza (abhorrence) per i loro oppositori – una alterità negativa
(othering) nella quale un gruppo considera i suoi rivali come del tutto alieni, da ogni punto di vista.
Si tratta dunque non solo di polarizzazione, bensì di una «forma tossica di polarizzazione» che ha «alterato in profondità il discorso politico, la public civility, e persino il modo con cui i politici governano»¹.
Questa visione sconsolata percorre tutte le analisi della battaglia elettorale:
Ora che le elezioni presidenziali si avviano alla conclusione, una cosa è chiara: l’America è una nazione rabbiosa. Dalle proteste per la persistente ingiustizia razziale alle contro proteste legate al nazionalismo bianco, un rancore rabbioso si sta diffondendo in tutto il paese².
Oppure: «Una cosa è certa, il vero vincitore delle elezioni è la divisione dell’America».
E nessuno si nasconde la gravità del pericolo:
La polarizzazione sta uccidendo il nostro paese. Sta indebolendo i legami politici e sociali, separando le fortune economiche e conducendo a velenose divisioni politiche. La iper/polarizzazione sta ammorbando la nostra politica facendo apparire la nostra democrazia come sempre più malfunzionante. L’ossessione per le nostre differenze sta spezzando [la società] in gruppi tribali che si fanno la guerra tra loro […]³.
Questo stato di cose non riguarda solo il presente, ha attirato ormai da qualche tempo l’attenzione di studiosi e osservatori.
Non per caso, in un decennio hanno visto la luce 35 libri che hanno titoli come American Rage: How Anger Shapes Our Policy, o Lethal Mass Partizanship o Causes and Consequences of Polarization. Mentre non si contano i brevi saggi o articoli di giornale che trattano lo stesso tema.
E poiché gli americani sono persone pratiche, qualcuno si è anche preoccupato di misurare le perdite economiche del fenomeno in termini di dollari. Dunque, analisi su The Cost of Polarization o Political Economy of Hatred⁴.
Da analisi del genere emerge un quadro della vita quotidiana negli Usa degli anni Duemila che appare incomprensibile agli osservatori stranieri, e che sarebbe persino poco credibile se non fosse avallato da informazioni e dati che provengono da fonti sicure e convergenti.
Per quanto possano apparire aneddotiche o futili, queste informazioni permettono di vedere da vicino alcuni aspetti della crisi americana forse meglio di quanto non lo consentano le più sofisticate analisi sociologiche.
Apprendiamo ad esempio che la partigianeria ha incrementato la violenza politica:
Dal 2016 i crimini per odio sono aumentati e molti americani sembrano condividere l’idea della violenza tra gruppi. Uno studio del 2018 ha legato questo trend alla partisan identity strenght – quanto l’essere democratico o repubblicano definisce ciò che tu sei. «Diventa logico che se l’identità si rafforza e il conflitto si intensifica la gente comincia ad approvare la violenza» sostiene la politologa Liliana Mason⁵.
La normale discussione politica con chi pensa in modo diverso diviene con ciò un fattore di frustrazione, le amicizie si rompono, persino i legami familiari ne risentono se i coniugi sono su fronti politici opposti:
Nei due anni trascorsi dopo le elezioni del 2016, un numero crescente di americani ora si dichiara stressato e frustrato
nel parlare di politica con persone con le quali si è in disaccordo. Tra i democratici e i simpatizzanti questo modo di sentire è più profondo, col 45% che lo diceva […] nel marzo del 2016 e il 57% nell’ottobre del 2018.
Frustrazioni del genere intaccano persino alcune tra le più sacre istituzioni familiari americane:
Uno studio recente ha accertato che i pranzi del Thanksgiving sono diventati più brevi in modo consistente in zone dove gli americani condividono i pasti tra persone di partito diverso. L’effetto è peggiore nelle zone con pesante propaganda politica. I ricercatori hanno stimato che 34 milioni di ore/persona di discussioni politiche sono state eliminate nel 2016 grazie all’effetto della polarizzazione.
John Green, politologo della Università di Akron afferma che tutto ciò va oltre «la competizione per il potere e oltre le posizioni politiche». Si tratterebbe invece di «un disgusto viscerale per le posizioni dell’altro». Al punto che «ogni singolo aspetto della vita quotidiana è diviso lungo una linea partigiana»
E in effetti un altro studio che si è proposto di andare più a fondo in questi aspetti della vita quotidiana
è approdato a conclusioni sconcertanti: «Ogni cosa che sembra interamente apolitica può veicolare messaggi partigiani».
[L]iberal e conservatori decorano le loro case in maniera differente. I conservatori preferiscono orologi e bandiere; i liberal amano le mappe e cose artistiche. [Democratici e repubblicani] tendono a fare spese in negozi diversi […]. I Democratici preferiscono prendere il caffè da Starbucks in locali di stile cosmopolitico e in tazze di stile italiano. Dunkin attira i conservatori con la sua immagine da classe operaia, enfatizzata dallo slogan L’America corre con Dunkin
⁶.
Lo stesso vale per gli abiti. Gli abiti mimetici fanno molto conservatore, mentre lo stile yoga è liberal: «le nostre identità partigiane – si conclude – hanno saturato per intero le nostre vite».
Questa contrapposizione che si estende persino al modo di vivere di ogni giorno ha però qualcosa di enigmatico.
Potremmo aspettarcela in partiti che hanno differenze profonde quanto alla loro collocazione sullo spettro politico. Invece, se si guarda alle iniziative concrete che i due partiti hanno espresso fino agli ultimi anni, sia riguardo al potere legislativo che anche a quello esecutivo, più che una polarizzazione si registra una sorta di convergenza al centro
.
Nei suoi atti di governo il partito democratico non è più radicale di quello repubblicano; le ali estreme delle due formazioni non sono mai riuscite a prevalere – almeno, fino all’avvento di Donald Trump.
Questo ha indotto alcuni studiosi a dubitare del fatto che, al di là delle manifestazioni di ripugnanza reciproca, la polarizzazione sottintenda una effettiva, inconciliabile diversità nelle preferenze che riguardano le politiche economiche e sociali.
Si è concluso, per la verità in modo un po’ troppo perentorio, che «la polarizzazione è un mito», ma chi sostiene questa tesi ha dalla sua un argomento forte. Non si può dire che un elettorato sia polarizzato se è solo spaccato
in due metà approssimativamente uguali e variabili di poco da una elezione all’altra. Ciò potrebbe essere indice non già di tenace attaccamento a una o all’altra bandiera, bensì semplicemente dell’esistenza di una vasta zona grigia di elettori indecisi. Sarebbero l’indecisione e l’ambiguità delle scelte di molti votanti a generare quel bizzarro equilibrio dei risultati che si registra dagli anni Ottanta a questa parte.
Essi [i sostenitori di questa tesi] dimostrano che la maggior parte degli americani esprime posizioni moderate su molti temi, che larga parte dell’elettorato non si identifica con una forte ideologia e che la distribuzione dei punti di vista e l’ideologia dichiarata sono state largamente stabili nel tempo. [Dunque, è la conclusione] «Le prove più dirette mostrano poca o nessuna evidenza di una crescente polarizzazione»⁷.
Queste ricerche precedono per la verità l’avvento di Trump e quindi non possono tener conto del cambiamento di clima verificatosi negli ultimi anni.
Tuttavia è accertabile che persino sui temi più divisivi, come l’aborto o il terrorismo o il welfare, secondo inchieste più recenti, le posizioni estreme sono minoritarie e quelle centriste
, oltre che maggioritarie sono anche molto stabili nel tempo⁸.
E questo probabilmente riflette un dato evidente: la scarsa differenza tra governi democratici e governi repubblicani quanto alle realizzazioni, i provvedimenti effettivamente attuati durante i diversi mandati presidenziali.
Dunque l’attuale crisi della società americana si presenta sotto forma di un rebus: da un lato una contrapposizione rabbiosa e rancorosa tra il popolo
progressista e quello conservatore; dall’altro una convergenza dei programmi politici e delle azioni di governo.
Tentare di sciogliere l’enigma significa giungere a una più chiara comprensione del reale significato delle recenti elezioni americane e nello stesso tempo collocare Trump e il trumpismo
in una corretta prospettiva storica; sottolineare cioè come, al di là del risultato elettorale, si tratta di un aspetto ormai radicato della crisi, dunque qualcosa che è destinato a durare nel tempo.
2. Le radici del malessere: uno sguardo d’insieme
La crisi della società americana ha origini lontane: coincide col passaggio da una economia industriale a un sistema produttivo fondato sul settore terziario.
Un progresso dal punto di vista tecnologico perché si è affermato un sapere materiale del tutto nuovo, quello basato sull’elettronica e il digitale; ma un regresso in termini sociali perché la nascita di una varietà di innovazioni che ha di fatto cambiato il modo di vivere e di lavorare dei cittadini, non ha evitato, e anzi ha prodotto, il declino di interi ceti, lavorazioni, comunità.
La divisione dell’elettorato della quale si è detto nasce anche da fattori culturali e politici, ma ha alla radice il contrasto fondamentale tra coloro che hanno potuto beneficiare del progresso e coloro che ne sono stati esclusi.
A questi ultimi sono state fatte molte promesse, e annunciati impegni solenni.
Cominciò Johnson fin dal 1964:
Questa amministrazione oggi, qui e ora, dichiara guerra incondizionata alla povertà in America. Io chiedo al Congresso e al popolo americano di unirsi a me in questo sforzo. Non sarà una lotta breve o facile, non sarà sufficiente un’arma singola nella nostra strategia, ma noi non ci fermeremo finché la guerra non sarà vinta. La più ricca nazione della terra è in grado di vincerla. E non può permettersi di