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Le finanze occulte del Führer: Dal trattato di Versailles all’ascesa di Hitler. Le responsabilità di politici, banchieri e imprenditori americani nel riarmo della Germania
Le finanze occulte del Führer: Dal trattato di Versailles all’ascesa di Hitler. Le responsabilità di politici, banchieri e imprenditori americani nel riarmo della Germania
Le finanze occulte del Führer: Dal trattato di Versailles all’ascesa di Hitler. Le responsabilità di politici, banchieri e imprenditori americani nel riarmo della Germania
E-book626 pagine3 ore

Le finanze occulte del Führer: Dal trattato di Versailles all’ascesa di Hitler. Le responsabilità di politici, banchieri e imprenditori americani nel riarmo della Germania

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Il Trattato di Versailles, promulgato il 10 Gennaio 1920, sancì le risoluzioni da assumere nei confronti della Germania, cui fu imposto il disarmo, la perdita di grandi porzioni di territorio e l’obbligo di risarcire i vincitori. Una commissione riunitasi a Londra stabilì le riparazioni di guerra nella stratosferica cifra di 132 miliardi di marchi oro. Per ripagare le riparazioni di guerra a Francia e Inghilterra, la Germania fu quindi costretta ad accettare l’aiuto finanziario offerto dagli istituti di credito americani. Fu in quel frangente che nacquero nel paese organizzazioni di destra, conservatrici, nazionaliste ed ex combattenti, tra cui il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori di Adolf Hitler.
Questo testo ricostruisce il periodo tra le due guerre mondiali, con particolare attenzione ai rapporti intercorsi fra gli Stati Uniti e la Germania. Politici, banchieri e imprenditori, da una parte e dall’altra, sono quindi i protagonisti di questo racconto, come fosse un romanzo in cui le vicende degli attori s’intersecano per formare un enorme mosaico, preludio all’ascesa al potere del Führer e al conflitto mondiale che tante cicatrici ha lasciato nelle generazioni a venire.
LinguaItaliano
Data di uscita3 nov 2023
ISBN9791255044468
Le finanze occulte del Führer: Dal trattato di Versailles all’ascesa di Hitler. Le responsabilità di politici, banchieri e imprenditori americani nel riarmo della Germania

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    Le finanze occulte del Führer - Simone Barcelli

    SIMBOLI & MITI

    SIMONE BARCELLI

    Le finanze occulte

    del Führer

    Dal trattato di Versailles all’ascesa di Hitler

    Le responsabilità di politici, banchieri

    e imprenditori americani

    nel riarmo della Germania

    «La verità è la trovata sensazionale più grande che ci sia».

    (Liubov Summ)

    LOGO EDIZIONI AURORA BOREALE

    Edizioni Aurora Boreale

    Titolo: Le finanze occulte del Führer

    Dal trattato di Versailles all’ascesa di Hitler. Le responsabilità di

    politici, banchieri e imprenditori americani nel riarmo della Germania

    Autore: Simone Barcelli

    Collana: Simboli & Miti

    Editing a cura di Nicola Bizzi

    ISBN versione e-book: 979-12-5504-446-8

    LOGO EDIZIONI AURORA BOREALE

    Edizioni Aurora Boreale

    © 2023 Edizioni Aurora Boreale

    Via del Fiordaliso 14 - 59100 Prato - Italia

    edizioniauroraboreale@gmail.com

    www.auroraboreale-edizioni.com

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    CAPITOLO I

    SCRIBA GERMANOFILO DI CAMBRIDGE

    A cent’anni di distanza dal Trattato di Versailles, firmato il 28 Giugno 1919 e promulgato il 10 Gennaio successivo, pare doveroso tornare a discutere di quell’accordo tra le parti, per la verità non tutte pienamente convinte, che sancì le risoluzioni da assumere nei confronti della Germania, cui fu imposto il disarmo, la perdita di grandi porzioni di territorio e l’obbligo di risarcire i vincitori. Una commissione formata da rappresentanti di Stati Uniti, Inghilterra e Francia, riunitasi a Londra il 5 Maggio 1921, stabilì le riparazioni di guerra nella cifra di 132 miliardi di marchi oro (che in realtà, come spiegheremo meglio più avanti, si riducevano a cinquanta).

    Per ripagare le riparazioni di guerra a Francia e Inghilterra, la Germania fu quindi costretta ad accettare l’aiuto finanziario offerto dagli istituti di credito americani.

    Quello che passò alla storia come il Trattato di Versailles, in realtà si dimostrò niente più di un compromesso tra le aspirazioni, non solo territoriali, di Inghilterra e Francia, e le aperture forse eccessive degli Stati Uniti verso la Germania.

    Sotto la minaccia di un’invasione, la Germania firmò malvolentieri quel trattato capestro, non avendo altre scelte, poiché fin dall’inizio gli furono precluse anche le vie diplomatiche¹.

    L’opinione pubblica americana, soprattutto i cattolici irlandesi e i tedeschi emigrati in America, palesava malcontento poiché riteneva il trattato troppo favorevole per l’Inghilterra. È pur vero che, come ricorda Eugene Davidson nel suo L’ascesa di Adolf Hitler, addirittura «John Maynard Keynes, noto economista e membro della delegazione inglese, diede le dimissioni per protesta e scrisse un libro intitolato Le conseguenze economiche della pace, col quale dimostrò l’irrazionalità delle riparazioni punitive e delle clausole economiche del trattato, attaccandone i responsabili»².

    Lo storico Francesco Perfetti, riferendosi al saggio pubblicato da Keynes, sostiene che l’economista «ebbe parte notevole nella progressiva delegittimazione del Trattato di Versailles. La tesi centrale del saggio era che la pace imposta dal Trattato avrebbe completato la distruzione economica dell’Europa già operata dalla guerra. Il Trattato non conteneva disposizioni utili per risollevare economicamente l’Europa: non c’era nulla in esso che giovasse a «mutare in buoni vicini gli Imperi centrali sconfitti; né a recuperare la Russia» e neppure a «promuovere in alcun modo un patto di solidarietà fra gli stessi Alleati». Esso era deprecabile anche dal punto di vista morale, essendo «odiosa e ripugnante» la politica volta a «ridurre la Germania in servitù per una generazione» e a «degradare la vita di milioni di esseri umani privando un'intera nazione della felicit໳.

    Ai dubbi espressi da Keynes, rispose subito André Tardieu, ministro francese delle Regioni liberate, che apostrofò l’economista ‘scriba germanofilo di Cambridge’⁴.

    Insomma, la cosiddetta Repubblica di Weimar, che avrebbe dovuto pagare quasi subito 250 milioni di dollari e poi versarne 500 ogni anno, nasceva già morta. Il governo fu costretto a emettere obbligazioni e istituire un fondo d’ammortamento per sostenere il pagamento di queste riparazioni. Ma l’economia tedesca non riuscì a risollevarsi, tanto che non fu possibile rispettare il pagamento delle riparazioni. Questo comportò l’ennesima umiliazione per la Germania: da lì a poco alcune divisioni dell’esercito di Francia e Belgio, per rivalsa, occuparono militarmente prima la Renania smilitarizzata, poi la regione della Ruhr. Il paese, a quel punto, con le casse statali completamente vuote, una inflazione fuori controllo e la requisizione della porzione più produttiva del suo territorio, si stava avviando verso il fallimento economico. Fu così che nacquero organizzazioni di destra, conservatrici, nazionaliste ed ex combattenti, anche se queste formazioni, soprattutto per mancanza di adeguate risorse economiche, non riuscirono mai a costituirsi in un fronte unitario.

    Fatta questa necessaria premessa, il testo che avete fra le mani cercherà di ricostruire, nella maniera più obiettiva possibile e con un poderoso supporto di rimandi a centinaia di pubblicazioni storiografiche ed economiche, il periodo tra le due guerre mondiali, con particolare attenzione ai rapporti intercorsi fra gli Stati Uniti e la Germania. Politici, banchieri e imprenditori, da una parte e dall’altra, sono quindi i protagonisti di questo racconto, come fosse un romanzo nato dalla fantasia dell’autore, in cui le vicende degli attori, tantissimi per la verità, s’intersecano per formare un enorme mosaico, preludio all’ascesa al potere, per niente scontata, del Führer Adolf Hitler e del suo Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori, e naturalmente al conflitto mondiale che tante cicatrici ha lasciato nelle generazioni a venire.

    È storia drammaticamente reale, affascinante per quanto si voglia, ma per tanti versi purtroppo anche orribile, tragica, non solo per le conseguenze prodotte da una guerra senza confini, per quei milioni di morti tra soldati e civili, ma anche e soprattutto per l’aberrante ‘soluzione finale’ pensata dai nazisti per sbarazzarsi degli ebrei.

    Alla fine ne escono tutti sconfitti, vincitori e vinti, poiché quanto emerso negli ultimi decenni, dopo la desecretazione di documenti finora riservati dell’FBI, dell’OSS (precursore della CIA) e del CIC (il servizio di controspionaggio dell’esercito statunitense), ha reso la faccenda molto più comprensibile, inchiodando tutti alle proprie terribili responsabilità.

    Questo libro non vuole essere una denuncia, ma semplicemente un racconto divulgativo delle tante trame oscure maturate nel ventennio del primo dopoguerra, con le conseguenze che tutti noi conosciamo. Non occorre fare processi, d’altronde i protagonisti di queste vicende sono morti da un bel pezzo, magari condannati dalla giustizia terrena, certamente da quella divina.

    Liubov Summ, nipote della scrittrice Elena Rzhevskaya, in occasione della recente riedizione integrale di Berlin, May 1945: Memories of a War Interpreter, ha sostenuto che «La verità è la trovata sensazionale più grande che ci sia»⁵.

    Una frase del genere è la miglior descrizione per questo testo, in cui non abbiamo dovuto inventare davvero niente per rendere più avvincente la trama. Fatti e personaggi si dipanano con naturalezza tra le pagine di questa nostra Storia recente, in un continuo susseguirsi di rivelazioni, tradimenti, colpi di scena e tanti, tantissimi soldi.

    Davide Pinardi, già Ricercatore di Storia Moderna all’Università Statale di Milano, si domanda: «si è mai indagato veramente sul sostegno occidentale a Hitler nei primi anni del regime? Sì. E i risultati sono davvero inquietanti. Ma le poche ricerche a riguardo sono rimaste nella cerchia ristretta di gruppi di professori non allineati, e l’opinione pubblica ne è praticamente all’oscuro. Oltretutto, essi sono stati spesso bollati come revisionisti: per questo, quando sento qualcuno definito con l’epiteto revisionista, mi interrogo non soltanto su di lui ma anche su chi formula l’accusa»⁶.

    Indubbiamente, questo specifico periodo storico è stato ricostruito in numerosi saggi, apparsi anche in lingua italiana, ma per la Maggior parte gli autori hanno concentrato la loro attenzione sulle vicende belliche, politiche e sociali del tempo, senza preoccuparsi più di tanto di sviscerare le tematiche economiche alla base di quei processi. 

    Per fortuna c’è qualche eccezione. Antonella Randazzo, per esempio, che si occupa di diritti umani e pedagogia, ha suggerito che i crimini di Hitler abbiano trovato ispirazione dagli stessi programmi realizzati in passato sia dagli Inglesi sia dagli Americani. Ma c’è di più, perché «per molti anni ci hanno fatto credere che il nazismo fosse dovuto a ragioni storiche non prevedibili, e che le responsabilità dei crimini nazisti e della guerra fossero esclusivamente sulle spalle di Hitler e dei gerarchi nazisti. Oggi è possibile provare che l’ascesa al potere di Hitler e la successiva preparazione alla guerra furono organizzate e finanziate dall’élite economico-finanziaria britannica e americana»⁷.

    Oppure il divulgatore Marco Pizzuti, quando cerca di dimostrare come la grande industria e il sistema bancario statunitensi abbiano concretamente sostenuto la corsa all’armamento del criminale regime nazista: «Sono sempre i vincitori a scrivere la storia e la seconda guerra mondiale non costituisce eccezione a questa regola. Ciò non significa che i vinti siano migliori dei vincitori, ma solo che tutte le nazioni coinvolte nel conflitto hanno i loro crimini ed errori da nascondere»⁸.

    Eppure, c’è dell’altro, però rigorosamente in lingua inglese. Diamo senz’altro merito, quindi, ad Antony Cyril Sutton, già professore di economia alla California State University di Los Angeles e ricercatore presso l’Hoover Institute della Stanford University. Nel suo Wall Street and the Rise of Hitler, pubblicato nel 1976, per primo e meglio di altri, ha ricostruito tutte le vicende attorno ai finanziamenti caduti a pioggia sulla Repubblica di Weimar e sul Terzo Reich di Hitler⁹. Sutton ha poi completato le ricerche con altri due libri: Wall Street and FDR, in cui strattonava anche Franklin Delano Roosevelt, il presidente degli Stati Uniti più volte rieletto tra il 1933 al 1945¹⁰, e Wall Street and the Bolshevik Revolution, che però non rientra nelle argomentazioni del volume che state leggendo. Sutton era anche troppo categorico nelle sue conclusioni: «senza i capitali offerti da Wall Street non ci sarebbe stato quasi sicuramente nessun Hitler né la Seconda Guerra Mondiale».

    Noi cercheremo invece di ragionarci un po’ sopra, per vedere se è possibile argomentare meglio e tirare somme più ragionevoli. Ma un pensiero di Sutton è condivisibile già da subito: gli «uomini d’affari non si recano a Washington come lobbisti e amministratori per servire gli Stati Uniti. Sono lì per servire i propri interessi di massimizzazione del profitto. Il loro scopo non è promuovere un’economia competitiva e di libero mercato, ma manipolare un regime politicizzato, a loro vantaggio».

    Poi, insiste sul tema una miriade di altre pubblicazioni, quasi tutte mai tradotte dall’inglese, oppure fuori commercio ed esaurite da qualche tempo, da cui è comunque stato possibile attingere preziose informazioni.

    Il presente lavoro nasce quindi dalla consultazione di tutte le risorse disponibili, che non sono poche, ma non sempre facilmente accessibili e nemmeno propriamente divulgative. È stata quindi fatta una scelta quanto più ragionata possibile, per non lasciare niente per strada, ma certamente qualcosa sarà sfuggito, come sempre accade.

    A questo punto, non resta che augurarvi buona lettura.

    Adolf Hitler nel 1933

    CAPITOLO II

    L’ESSENZA DEL DIVERTIMENTO

    Nell’estate del 1937 John Fitzgerald Kennedy ha appena festeggiato vent’anni e può concedersi una lunga vacanza - quasi tre mesi - nel Vecchio Continente, dopo aver frequentato il primo anno all’Università di Harvard. In macchina con lui l’amico fraterno LeMoyne Billings. Dopo aver visitato diverse nazioni comprese Spagna, Italia e Francia, i due trascorrono almeno cinque giorni in Germania: a quel punto, con loro a bordo della Ford Cabriolet, anche una ragazza tedesca conosciuta in quel frangente e che Kennedy definirà «l’essenza del divertimento».

    Quel che conosciamo di quel viaggio è desunto anche nei testi conservati al John F. Kennedy Presidential Library and Museum di Boston, in cui il futuro presidente degli Stati Uniti d’America scrisse dell’esperienza.

    Nell’Agosto di quell’anno, Kennedy credeva che il fascismo fosse «la cosa giusta per la Germania e per l’Italia, il comunismo per la Russia e la democrazia per l'America e l’Inghilterra. Che sono i mali del fascismo al confronto del comunismo?».

    Non poteva mancare naturalmente un accenno a Hitler, all’epoca saldamente al comando: «Sembra che qui Hitler sia molto popolare, come Mussolini in Italia, e che la propaganda sia la sua arma più potente»; ma Kennedy si spingeva anche a descrivere luoghi e persone: «Le città sono molto belle, dimostrano che le razze nordiche sono certamente superiori a quelle latine. I Tedeschi sono effettivamente troppo bravi, inducono gli altri popoli a coalizzarsi contro di loro per difendersi»¹¹.

    Lo storico Giordano Bruno Guerri chiarisce però che «Stati Uniti e Gran Bretagna venivano considerati, dal futuro presidente, Paesi così evoluti da essere pronti per la democrazia; la Russia, invece, così arretrata da avere bisogno di un periodo di collettivismo forzato, mentre i due Paesi usciti sconfitti dalla Prima Guerra Mondiale, e in pieno tumulto sociale, avevano bisogno del pugno forte della dittatura. Pensieri banali, ma molto diffusi allora, e poteva ben averli uno studente americano». Guerri suggerisce che probabilmente Kennedy volesse annotare «qualcosa di ovvio, ovvero il carisma di Hitler, quel carisma che aveva permesso al Führer di sedurre il proprio popolo: un argomento che non poteva non affascinare un giovane già con ambizioni di capo del proprio popolo. È più sorprendente, e disdicevole, che Kennedy preferisse parlare della tecnologia militare dei Tedeschi piuttosto che dei campi di sterminio, ormai noti. Anche in questo caso si può ricordare che Joseph [il padre, nda] non brillava per amore verso gli ebrei, ma andremmo troppo lontani con deduzioni e illazioni»¹².

    Kennedy tornerà in Germania altre tre volte. La prima nel 1939 per documentarsi sugli accordi di Monaco e cercare di comprendere perché la Gran Bretagna sottovalutasse la minaccia rappresentata da Adolf Hitler, senza riuscire a opporsi allo scoppio del secondo conflitto mondiale. Gli accordi di Monaco. L’inevitabile risultato della lentezza con cui la democrazia britannica abbandonò la politica del disarmo, questo il titolo scelto per la sua tesi di laurea, fu poi condensata nel libro Why England slept (Perché l’Inghilterra dormiva) che vendette ottantamila copie tra Stati Uniti e Gran Bretagna.

    Nel 1945, pochi mesi dopo il suicidio di Hitler, egli tornava in Europa come corrispondente del Chicago Herald-American e del New York Journal-American (entrambi della Hearst Communications di William Randolph Hearst, un amico di famiglia) per seguire la Conferenza di Potsdam, ma anche per visitare Kehlsteinhaus, il famoso Nido dell’Aquila del Führer¹³.

    In quest’ultima circostanza JFK è in compagnia, fra gli altri, del miliardario James Vincent Forrestal, già presidente della GAF (General Aniline and Film Corporation), una società che in origine si chiamava American I.G. Era infatti una filiale americana associata al complesso chimico tedesco I.G. Farben (Interessengemeinscheft Farbenindustrie), in cui si produceva anche il pesticida Zyklon B a base di cianuro utilizzato per lo sterminio degli ebrei. Torneremo a occuparci della I.G. Farben in seguito, per ora basti sapere che la General Aniline and Film Corporation fino al 1941, prima dell’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale, riforniva regolarmente la Germania dei prodotti chimici occorrenti per le esigenze del conflitto, che giungevano dall’America del Sud.

    Anche di Forrestal, sottosegretario (dal 1940) e segretario (dal 1944) alla Marina degli Stati Uniti, ma anche primo segretario del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti dal 1947, dovremo tornare a parlare.

    Infine, da presidente degli Stati Uniti, Kennedy sarà a Berlino Ovest per quattro giorni nel Giugno 1963, ove il 26 tenne il celebre discorso in cui pronunciò più volte le parole «Ich bin ein Berliner (Io sono di Berlino)» di fronte a un’entusiasta platea di centoventimila persone, due anni dopo la costruzione del muro che per ventotto anni impedirà la libera circolazione delle persone¹⁴.

    Nel 2017 Deidre Henderson, che fu assistente di ricerca nell’ufficio di Boston dell’allora senatore Kennedy nel 1959 e nel 1960, ha messo all’asta per duecentomila dollari un diario autentico e autografato che l’uomo politico scrisse dopo il viaggio in Germania nel 1945. Dalle memorie vergate dal giovane rampollo di una delle famiglie più in vista d’America, in tutto dodici pagine scritte a mano e quarantanove dattiloscritte, traspare in qualche modo anche una fascinazione per Hitler: «Chi ha visto questi luoghi può senz’altro immaginare come Hitler, dall’odio che adesso lo circonda, tra alcuni anni emergerà come una delle personalità più importanti che siano mai vissute. La sua ambizione sconfinata per il suo Paese ne ha fatto una minaccia per la pace nel mondo, ma lui aveva qualcosa di misterioso nel suo modo di vivere e nella sua maniera di morire, che gli sopravvivrà e continuerà a crescere. Era fatto della stoffa con cui si fanno le leggende»¹⁵.

    Oliver Lubrich, il professore di letteratura tedesca e comparata all’Università di Berna che ha condensato in un’antologia lettere, diari e riflessioni di personaggi che visitarono la Germania tra gli anni 1933 e 1945, ritiene che «l’affermazione che Adolf Hitler fosse ‘della stoffa delle leggende’ appare sconcertante» mentre «il fatto che non si sia quasi occupato dell’Olocausto, ma della tecnologia militare dei Tedeschi è dal punto di vista odierno come minimo discutibile».

    Eppure, come giustamente rileva lo storico Sergio Romano, «Mai come negli anni Trenta i giovani furono bombardati da messaggi tanto diversi e chiamati a fare scelte tanto difficili. Fu la guerra, in molti casi, che scelse la loro vita. Kennedy combatté nel Pacifico, comandò una piccola nave che venne speronata dai Giapponesi, portò in salvo quelli fra i suoi compagni che erano sopravvissuti, meritò una medaglia al valore»¹⁶.

    Lasciamo Kennedy alle sue giovanili elucubrazioni, condizionate forse dall’aver fumato dopo cena qualcuno dei sigari ritrovati nell’auto blindata del generale nazista Hermann Wilhelm Goering (luogotenente di Hitler), che la Gildemann Ltd di Berlino produceva espressamente per lui. Rimaniamo comunque in famiglia discutendo del fratello Maggiore Joe Jr. (che poi morirà in guerra), poiché anche lui aveva visitato la Germania nel 1934 ed era rimasto particolarmente colpito dalla figura di Hitler. Il giovane Kennedy approvava l’intuizione del Führer nel realizzare i bisogni del suo popolo, identificando un nemico comune per arginare la rabbia crescente della povera gente: «era una psicologia eccellente, ed era un peccato che dovesse essere rivolta agli ebrei, ma l’antipatia nei loro confronti era ben fondata. Erano a capo di tutti i grandi affari, nella legge, ecc. È tutto merito loro se sono giunti così lontano, ma i loro metodi erano stati abbastanza senza scrupoli... gli avvocati e i giudici di spicco erano ebrei, e se tu avessi un caso contro un ebreo, eri quasi sempre sicuro di perderlo... Per quanto riguarda la brutalità, deve essere stato necessario usarne un po’»¹⁷.

    Infine, spendiamo due parole anche per il padre dei due, Joseph Patrick Kennedy Sr., un ricchissimo uomo d’affari che riuscì a costruire la sua fortuna non solo

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