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I Casi del Commissario Locatelli: I Binari del Treno
I Casi del Commissario Locatelli: I Binari del Treno
I Casi del Commissario Locatelli: I Binari del Treno
E-book295 pagine4 ore

I Casi del Commissario Locatelli: I Binari del Treno

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Con questo libro, il quarto nella carriera di scrittore di Marco Franchini, egli stravolge completamente i suoi abituali riferimenti ai monti e alla vita là vissuta per cimentarsi con un giallo. Ed è cambiata anche l’ambientazione, avendo collocato i suoi personaggi nella Pianura Padana dell’immediato dopoguerra, dando vita ad una storia semplice nella sua concezione ma al contempo ricca di colpi di scena e con un finale a sorpresa. L’abilità dimostrata nel sapersi destreggiare nel mondo dell’investigazione di un tempo, senza tecnologia e metodi scientifici di ultima generazione, denota nell’autore una profonda passione per il giallo di una volta e per il “mondo in bianconero” come lo definisce egli stesso. Il protagonista principale, il commissario Locatelli, è un personaggio solitario ed inquieto, un puro che crede fermamente in ciò che fa e che non si piega ad alcun tipo di compromesso pur di conseguire il risultato di far trionfare la giustizia. Distaccato da Bergamo in un paesino della pianura sotto il Po per punizione, si trova coinvolto in un caso davvero importante che lo impegna quasi allo sfinimento, malvoluto dalla comunità perché “forestiero” e perché diretto, senza peli sulla lingua. Quello che inizialmente sembra un banale caso di furto, si rivela poi un vero rompicapo che sfocia in tre diversi filoni di indagine. Con abilità e tanto lavoro di pura investigazione, il commissario Dario Locatelli saprà portare alla risoluzione di tutti i casi e la comunità ed i suoi superiori dovranno ricredersi nei suoi confronti. L’autore anche stavolta non si limita a raccontare la storia, i fatti, ma descrive con dovizia di particolari e con il consueto amore per la terra che lo contraddistingue, il paese dove è stato ambientato il giallo. Nonostante l'ambientazione non riveli mai il vero nome del luogo in cui le vicende si svolgono, risulterà evidente, soprattutto a chi vive in quel paese reale per la descrizione di particolari che esistono tutt'oggi, quale questi possa essere. I nomi dei personaggi sono di pura invenzione ma, avendo l'autore attinto ai tipici cognomi della zona, potrebbe essere che vi siano coincidenze ai fini narrativi da ritenersi puramente casuali. Ogni riferimento a luoghi, cose o persone reali o realmente esistiti è da ritenersi pertanto puramente casuale. L'immagine di copertina è dell'autore.
LinguaItaliano
Data di uscita17 lug 2017
ISBN9788826483559
I Casi del Commissario Locatelli: I Binari del Treno

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    I Casi del Commissario Locatelli - Marco Franchini

    Marco Franchini

    I Casi del Commissario Locatelli

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    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

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    Indice dei contenuti

    IL LIBRO

    L’AUTORE

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    9

    10

    11

    12

    13

    14

    15

    16

    17

    18

    19

    IL LIBRO

    Con questo libro, il quarto nella carriera di scrittore di Marco Franchini, egli stravolge completamente i suoi abituali riferimenti ai monti e alla vita lassù vissuta per cimentarsi con un giallo.

    Ed è cambiata anche l’ambientazione, avendo collocato i suoi personaggi nella Pianura Padana dell’immediato dopoguerra, dando vita ad una storia semplice nella sua concezione ma al contempo ricca di colpi di scena e con un finale a sorpresa.

    L’abilità dimostrata nel sapersi destreggiare nel mondo dell’investigazione di un tempo, senza tecnologia e metodi scientifici di ultima generazione, denota nell’autore una profonda passione per il giallo di una volta e per il mondo in bianconero come lo definisce egli stesso.

    Il protagonista principale, il commissario Locatelli, è un personaggio solitario ed inquieto, un puro che crede fermamente in ciò che fa e che non si piega ad alcun tipo di compromesso pur di conseguire il risultato di far trionfare la giustizia.

    Distaccato da Bergamo in un paesino della pianura sotto il Po, si trova coinvolto in un caso davvero importante che lo impegna quasi allo sfinimento, malvoluto dalla comunità poiché forestiero e perché diretto, senza peli sulla lingua. Quello che inizialmente sembra un banale caso di furto, si rivela poi un vero rompicapo che sfocia in tre diversi filoni di indagine. Con abilità e tanto lavoro di pura investigazione, il commissario Dario Locatelli saprà portare alla risoluzione di tutti i casi e la comunità ed i suoi superiori dovranno ricredersi nei suoi confronti.

    L’autore anche stavolta non si limita a raccontare la storia, i fatti, ma descrive con dovizia di particolari e con il consueto amore per la terra che lo contraddistingue, il paese dove è stato ambientato il giallo. Nonostante l'ambientazione non riveli mai il vero nome del luogo in cui le vicende si svolgono, risulterà evidente, soprattutto a chi vive in quel paese reale per la descrizione di particolari che esistono tutt'oggi, quale questi possa essere. I nomi dei personaggi sono di pura invenzione ma, avendo l'autore attinto ai tipici cognomi della zona, potrebbe essere che vi siano coincidenze ai fini narrativi da ritenersi puramente casuali. Ogni riferimento a luoghi, cose o persone reali o realmente esistiti è da ritenersi pertanto puramente una coincidenza. L'immagine di copertina è dell'autore.

    L’AUTORE

    Marco Franchini, classe 1966, nella vita si è occupato di molteplici attività.

    Ha avuto anche un trascorso come fotografo, ma è con la scrittura che riesce a trasmettere la sua passione per i racconti, specialmente quelli in bianconero, come li definisce lui.

    Questo giallo è la riprova del fatto che l'autore ha piena padronanza delle tecniche investigative tipiche dei giallisti, soprattutto quelli che ambientano i loro romanzi noir in epoche passate, in cui prevale il ragionamento sulla tecnologia scientifica.

    1

    Esisteva un paese appena sotto il Po, tra le province di Mantova, Modena e Reggio nell’Emilia, al quale si giungeva attraversando un ponte di barche che fu costruito durante la prima guerra mondiale.

    Il ponte sorreggeva una carrozzabile cementata per le poche auto che circolavano e uno stradello di servizio.

    Oppure vi si giungeva in treno, attraversando un ponte ferrato sospeso sul fiume Secchia, anzi, sulla Secchia.

    La località contava quattromilacinquecento residenti, ma prima della guerra ne aveva poco meno di seimila.

    I suoi abitanti erano perlopiù contadini e faticavano come bestie da soma per garantire il pane in casa: erano i primi anni del dopoguerra e la Repubblica Italiana voluta con referendum istituzionale, era nata da nemmeno quattro anni.

    La gente la sera si ritrovava nei tre bar del paese, soprattutto al Caffè Centrale, il più popolare.

    Vi erano anche due trattorie e un ristorante più lussuoso, ma i denari da spendere in cene fuori casa erano assai scarsi.

    Il titolare del Caffè Centrale era tale Mauro Magri, convinto sostenitore del regime del ventennio e tutt’ora fedele alla fiamma tricolore del neonato Movimento Sociale Italiano, sorto dalle ceneri della Repubblica Sociale, al quale si era iscritto subito, nel 1947.

    Poiché Mauro fu piuttosto moderato nelle gesta, anche se a parole si descriveva come picchiatore durante il Ventennio, gli fu risparmiata la reclusione.

    Così, immancabilmente ogni sera, intratteneva i suoi avventori con racconti di azioni militari svolte con spirito di abnegazione e disciplina come si confaceva agli arditi.

    Ma la gente non vi faceva neanche più caso e continuava le proprie partite a spasìn.

    Oltre che alla sera ci si ritrovava al Caffè Centrale anche la domenica mattina, mentre gli abitanti del paese aspettavano le proprie consorti che erano andate alla messa, nella chiesa di San Bartolomeo poco distante da lì.

    La domenica mattina era avventore consueto anche il neoeletto Sindaco Aristide Rossi, discendente da una famiglia agiata di persone illustri che avevano studiato nelle più prestigiose università del Regno, dopo aver assistito alla messa delle undici con la famiglia.

    Alla fine della funzione, la moglie Camelia e la figlia Rosalina andavano dall’anziana madre di lei a portare i tortellini dolci con marmellata di prugne preparati appositamente e lui andava a prendere l’aperitivo al Caffè Centrale.

    Era un modo anche quello per essere presente nel quotidiano del paese e il posto pullulava di persone e di conseguenza di opinioni, di racconti e di maldicenze varie più o meno velate.

    Insomma, era un buon modo per sapere chi aveva combinato qualcosa o chi lo stava semplicemente tramando.

    Il padre del Sindaco e prima ancora il nonno, erano stati ingegneri civili al servizio del Re poi della Repubblica Sociale Italiana nel genio pontieri.

    Aristide era anch’egli laureato ma non aveva fatto il servizio e di conseguenza la guerra, in quanto cagionevole di salute e sostegno di famiglia perché figlio unico di madre vedova.

    Inoltre lui aveva frequentato il liceo classico dapprima e l’università poi ad indirizzo umanistico, laureandosi in giurisprudenza ed intraprendendo il mestiere del politico.

    Tale era la sua abilità nell’adattarsi agli eventi e a non contrastare apparentemente mai nessuno, che non avrebbe potuto fare altro di diverso dal mestierante della politica.

    Quella domenica l’argomento era quello di cui si parlava da tempo in paese: l’insediamento del nuovo commissario di polizia, che dopo la guerra non si chiamava più Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza.

    Si vociferava che dovesse arrivare un cittadino da lontano e i più informati dicevano che era uno che apparteneva alla celere, i reparti mobili dotati di manganello di legno e Beretta MAB 38 e che giravano a bordo di Jeep americane ereditate dal conflitto.

    In quel paese della Bassa Padana esisteva un commissariato distaccato che captava anche i paesi vicini, ma era rimasto sguarnito di un reggente, un commissario appunto, a causa della deportazione di gran parte degli ufficiali e sottufficiali ad opera dei nazisti.

    Nel grande disegno della ricostruzione, la curia vescovile aveva inviato un nuovo parroco da un paese sulle montagne della vicina provincia modenese, don Giovanni, in aiuto al curato che aveva retto per tutta la guerra la curazia del paese, don Primo; si era eletto il nuovo Sindaco in sostituzione del Podestà cacciato dopo la liberazione, Aristide Rossi per l’appunto e si cercava di ricostituire il commissariato distaccato integrando i dirigenti.

    Per motivi di magro bilancio si decise di rinunciare ai due ispettori che c’erano prima, riducendo le guardie fino a due unità già insediate e cercando un commissario che svolgesse funzioni di dirigente ed Ispettore al contempo.

    Questo era quello di cui si discuteva al Caffè Centrale in quella domenica d’autunno.

    «E allora, Sindaco, che novità ci sono per il nuovo commissario?» chiese Mauro mentre con lo straccio asciugava i bicchieri appena lavati.

    Il Sindaco parlò senza distogliere gli occhi dal quel che stava leggendo, La Vaca ad Main, un periodico satirico che il gestore teneva sempre sui tavoli del suo locale.

    «Cosa mai vuoi sapere, Mauro? Le novità me le dovete raccontare voi, che a quanto risulta siete ben più informati di me!» e dicendo così, bevve un altro sorso del suo aperitivo rigorosamente analcolico a base di acqua brillante, scorza di limone e sciroppo al tamarindo.

    «Via, Sindaco. Non dite che non sapete nulla. Non posso crederlo. Se non sapete nulla voi, chi altri deve saperlo? don Primo forse?»

    Sicuramente don Primo sarebbe stato informato meglio di tutti su chi sarebbe venuto a fare da reggente in commissariato, pensò Aristide mentre sorseggiava il suo aperitivo.

    «Mio caro Mauro, anche sapendo chi arriverà, cosa cambierebbe? Lo sapremo quando sarà il momento.»

    «Ma se dovesse arrivare un sovversivo o peggio, un bolscevico? Dove andrebbe a finire il paese?»

    «Dubito fortemente che possa essere un bolscevico, come dici tu. Né tantomeno credo sia un sovversivo. Non si arriva a ricoprire cariche di alta dirigenza con un brutto carattere o con azioni sconvenienti.», chiosò il Sindaco.

    Riprese a leggere il periodico ignorando il gestore che dopo poco venne richiamato da un avventore che aveva finito il lambrusco.

    In cuor suo però sapeva, per aver raccolto informazioni grazie a favori dei quali era creditore presso le amministrazioni amiche, che sarebbe venuto un commissario abbastanza problematico da Bergamo. Ricordò le parole usate dal suo amico Questore che definiva il dirigente di polizia un tipo originale.

    Che tradotto dal politichese puro che parlavano tra loro, significava che arrivava un vero piantagrane.

    Ma nulla si poteva contro le decisioni dei poteri forti. Non ancora, quantomeno, finché la sua carriera politica non lo avesse portato ad un livello più alto nelle gerarchie societarie che governavano il Paese appena risorto da un periodo non facile.

    Perché di una cosa era certo Aristide: lui avrebbe avuto una carriera importante. O comunque sarebbe stato molto ben introdotto negli ambienti che contavano, in un modo o nell'altro.

    Salutò Mauro ed alcuni avventori del Caffè Centrale e si avviò verso casa per il pranzo. A quell’ora la moglie aveva fatto ritorno dalla visita alla madre e la signora a ore che lavorava da lui aveva certamente preparato il pranzo della festa.

    Quella stessa domenica di tardo autunno, alla stazione ferroviaria di Bergamo città, attendeva sulla banchina del binario della tratta per Brescia un tizio taciturno con un paltò scuro ed uno zaino valigia telato di tipo militare tenuto tra i piedi, poggiato a terra.

    Sotto il braccio sinistro aveva un fascicolo da archivio contenente vari fogli ciclostilati; nella mano destra un fagotto di tela contenente alcune noci ed un pezzo di formaggio che veniva da una malga sulle colline che adornavano la città lombarda; nella tasca del paltò, arrotolato, il quotidiano locale, l’Eco di Bergamo.

    Il tizio riservato e con gli occhi persi nell’ampia piazzola dei binari, si chiamava Dario Locatelli e di mestiere faceva il poliziotto. Anzi, faceva il dirigente di polizia: era commissario nella questura cittadina.

    Con la mente Locatelli tornò al colloquio avuto tre giorni prima col Questore Badoglio, che si chiamava come il Generale ma senza esservi parente nemmeno alla lontana, durante il quale veniva invitato calorosamente a preparare un bagaglio per soggiorni di lunga durata ed andare in un paese più piccolo a fare il commissario, poiché vi era necessità del suo operato.

    «In buona sostanza, Questore, mi state liquidando frettolosamente!»

    «Suvvia commissario Locatelli, che parolone grandi sta usando. Stiamo collaborando con le varie questure a livello regionale e di comprensorio geografico di fascia, nel nord del Paese intendo, per apportare esperienza e competenza ove necessario. Lo sa meglio di me, caro commissario, che c’è necessità di ricostruire un paese ammaccato da un conflitto pesante e deleterio. Per tutto ciò che riguarda la nostra nazione: in primis la sicurezza dei suoi abitanti.»

    Il Questore parlava chiamandolo per grado e cognome, mentre lui, per ripicca, lo chiamava semplicemente per titolo di carica e senza il signor davanti ad esso.

    Era sempre stato così lui. Indisciplinato e bastian contrario.

    Si era sempre avvalso, a propria giustificazione, di essere un ottimo poliziotto e un buon cittadino. Però di tanto in tanto eccedeva nei modi e le conseguenze erano tutte a suo discapito.

    Durante una di queste manifestazioni di eccessiva applicazione della legge, se l’era presa con la cosiddetta persona sbagliata: aveva reagito impulsivamente ed aveva malmenato un giovane benvestito che aveva compiuto un furto in una bottega della città, portando via alcuni oggetti di antiquariato pregiati.

    Nel momento in cui il malcapitato compiva il gesto inconsulto, fuori dalla vetrina della bottega si trovava a passare a piedi proprio lui, il commissario.

    Intimato l’alt al giovane ladro, questi gli si era rivolto sbeffeggiandolo e ne era conseguito un inseguimento per le viuzze di Città Alta, il borgo storico di Bergamo.

    Purtroppo per il ragazzotto, l’inseguimento era terminato con un placcaggio in perfetto stile e questi era rovinato a terra battendo il mento e graffiandosi il bel volto.

    Il fatto increscioso fu che il malcapitato era il primogenito di un noto esponente della politica cittadina, nonché presidente del neo comitato per la ricostruzione post bellica.

    Ciò che ne conseguì fu una denuncia nei confronti del commissario per eccesso di zelo e violenza gratuita.

    Davanti al Questore si giustificò dicendo che aveva rispettato la procedura e che aveva inseguito e catturato un ladro.

    Ma la risposta fu che la procedura non prevedeva di mandare all’ospedale una persona che pesava la metà di lui e, soprattutto, che era il figlio di un personaggio importante.

    Inoltre il ragazzo aveva dichiarato che stava facendo un gioco coi suoi amici e che in seguito avrebbe restituito la refurtiva.

    Però i pezzi di antiquariato si erano rotti durante l’arresto e di questo danno venne accusato proprio lui che, se non avesse agito così violentemente, ora si sarebbero potuti restituire al legittimo proprietario. In fondo era quello lo scopo, era solo una bravata.

    Per concludere, a riconferma che quel giorno era nato sotto l’auspicio peggiore, l’antiquario che aveva subito il furto non sporse nemmeno denuncia nei confronti del ladruncolo.

    Il Questore aveva deciso che, non essendo quello il primo episodio di eccessivo zelo da parte di Locatelli, avrebbe reso conto ai suoi superiori dando un buon esempio. Così fu deciso di trasferire il commissario, nonostante la sua buona carriera e i numerosi casi risolti.

    Un periodo in un posto più piccolo lo avrebbe aiutato a ridimensionare le sue esplosioni di aggressività. Con queste parole il Questore aveva liquidato Locatelli.

    «Si prenda un periodo di congedo per riposo di un paio di settimane, commissario e poi si trasferisca alla nuova destinazione!» aveva detto categorico il Questore.

    Così lui aveva deciso di recarsi in anticipo nella sua nuova vita per familiarizzare con l’ambiente prima di prendere servizio. Non si sarebbe qualificato ed avrebbe finto di essere un turista, benché in quel periodo dell’anno e con le difficoltà economiche del Paese in generale, chi si potesse permettere di fare turismo era solo un possidente.

    Ora, mentre aspettava il treno, ripensava a tutta la vicenda e al caso strano. Uno può essere bravo, brillante e ligio al dovere, ma quello che conta di più è ciò che deve apparire, non essere.

    Era un vero schifo, pensò prendendo due noci nella mano sinistra e schiacciandole sonoramente.

    Arrivò il treno fischiando e stridendo sui binari e il commissario si avvicinò alla banchina per salirvi.

    Si sedette in fondo alla carrozza di terza classe, poiché era solo in quella che avrebbe potuto viaggiare col suo stipendio: il Questore gli aveva tolto tutti i privilegi, compreso quello del rimborso per missione. E comunque ufficialmente lui risultava in congedo per riposo.

    Di fatto questa non era una vera missione, bensì un’esemplare punizione.

    Riuscì ad addormentarsi quasi subito e così evitò di guardare la sua bella città allontanarsi col procedere della littorina.

    Giunto a Brescia dovette cambiare treno per prendere la coincidenza fino a Parma. Giunto nella città di Giuseppe Verdi, cambiò nuovamente e prese un trenino che portava al paese cui era destinato. Era una vecchia tradotta militare riadattata al trasporto dei civili.

    Sul sedile di legno in parte a lui viaggiava una giovane ragazza castana, bianca e rossa in viso e con un fazzoletto in testa a ricoprire parte dei capelli, che portava con sé una gallina in un cesto di vimini.

    «Salve signore. Dove siete diretto? E perché avete quel volto scuro?» domandò la ragazza.

    Lui la osservò a lungo prima di risponderle e dirle dove era diretto. Aggiunse che era scuro in viso per motivi privati e che non gli andava di parlarne.

    La ragazza gli disse che avrebbe dovuto essere più contento di com’era: dopotutto se era sopravvissuto alla guerra e ora stava viaggiando verso un nuovo paese e con un mestiere, era sicuramente più fortunato di molti.

    Ma che ne sapeva lei, pensò tra sé.

    Dopodiché non si rivolsero più la parola e lui finse di dormire.

    Giunti quasi a destinazione il treno si fermò bruscamente.

    Il controllore passò per ogni carrozza ad avvisare che il treno si doveva fermare giocoforza, poiché mancavano alcune traversine e i binari erano scalzati dalla loro sede.

    A nulla valsero le domande che gli vennero rivolte, perché questi non aveva idea di come fosse potuto capitare.

    Anche il commissario Locatelli gli chiese come poter fare per raggiungere la sua destinazione, ma questi gli rispose che non sapeva come aiutarlo.

    Scesero tutti dal treno e si incamminarono lungo il binario nella nebbia che avvolgeva tutto e che ti entrava sotto i vestiti, anche quelli più pesanti, facendoti tremare incontrollatamente.

    La ragazza con la gallina gli si affiancò e gli chiese se avesse bisogno di un passaggio.

    «Un passaggio? E con cosa?» le domandò scettico il commissario.

    «Tra qualche chilometro saremo nei pressi della stazione, dietro la quale, in una casetta piccolina abita un mio zio che possiede anche un carretto e una copia di buoi da lavoro. Potrei chiedergli un passaggio, visto che andiamo nello stesso posto.», gli disse con un sorriso.

    Dapprima scosse vigorosamente il capo in segno di diniego, ma poi pensò che in fondo non sarebbe stata una così cattiva idea.

    «D’accordo, ma le spese le dividiamo», disse alla ragazza.

    «Ma quali spese: è mio zio!» rise sguaiatamente lei.

    Giunsero alla casetta e, dopo qualche chiacchiera e un bicchiere di lambrusco, lo zio della giovane tirò fuori il carretto dal fienile e vi legò uno dei due buoi.

    Il vecchio guardò di sottecchi il giovane che era con la nipote, ma stabilì che non aveva l’aspetto poco raccomandabile. Era un tipo taciturno ma dal portamento marziale e lui giudicò che dovesse essere un reduce in cerca di ricostruirsi una vita.

    Durante il tragitto col carro che procedeva a passo d’uomo, il vecchio zio gli disse anche che se avesse avuto bisogno di una fatica, lui avrebbe potuto mettere una buona parola con un suo amico mezzadro per farlo lavorare come bracciante a ore.

    Il commissario ringraziò e gli disse che gli avrebbe fatto sapere.

    Sul retro del carro la ragazza si presentò, dicendo di chiamarsi Aurora.

    «I miei mi hanno chiamata così perché sono nata all’alba di un giorno di inizio primavera, nel fienile di casa perché era più caldo. E tu come ti chiami?»

    Il burbero commissario si stupì di sentirsi dare del tu da una poco più che conoscente occasionale, ma non lo diede a vedere.

    «Mi chiamo Dario.», rispose telegrafico.

    «Bé, allora piacere, Dario.» gli disse lei con un sorriso.

    «Stai cercando fortuna, Dario? Perché forse posso darti una dritta.»

    «Mi sto guardando in giro. Ma mi ha già detto tuo zio che può farmi lavorare lui.» rispose un poco divertito ma mantenendo il suo cipiglio burbero.

    «Ma tu non ridi mai?» gli chiese Aurora senza minimamente smettere di sorridere.

    «Lo fai già tu a sufficienza per tutti e due!», rispose lui volendo essere provocatorio come sua indole.

    Ma la ragazza non si scompose affatto.

    «Sei buffo, Dario! Sei estremamente serio ma non mi dai l’impressione di essere afflitto. Cosa ti oscura il volto?»

    «Non credo che il livello di confidenza tra noi sia tale da poter intraprendere questa conversazione!», sibilò lui tra i denti.

    Poi si mise a guardare dal lato opposto verso la campagna, senza in realtà vedere assolutamente nulla, talmente fitta era la nebbia.

    Aurora dapprima ci restò male, ma poi si raggomitolò su sé stessa e si chiuse in un vecchio tabarro che le aveva prestato lo zio.

    Anche il commissario alzò ulteriormente il bavero del suo paltò, ma senza attenuare affatto la sensazione di freddo che aveva nelle ossa.

    L’unica cosa che si riusciva a vedere era una vecchia lampada a petrolio montata sul castello del carretto che serviva non tanto a vedere la strada, quanto a farsi vedere in caso si fosse incontrato qualche altro mezzo.

    Cosa che peraltro non capitava se non molto di rado, in quel periodo dell’anno e su quelle strade di campagna.

    Aurora provò di nuovo ad intavolare un discorso col suo taciturno compagno di viaggio.

    «Dove sei alloggiato?»

    In quel momento il commissario si ricordò di non avere un posto dove andare.

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