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La scimmia bianca: La saga dei Forsyte vol. 4
La scimmia bianca: La saga dei Forsyte vol. 4
La scimmia bianca: La saga dei Forsyte vol. 4
E-book407 pagine5 ore

La scimmia bianca: La saga dei Forsyte vol. 4

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Info su questo ebook

Londra, 1922. Fleur Forsyte è sposata con Michael Mont e si lancia nella bella vita dei ruggenti anni '20 per dimenticare le passate delusioni amorose e la noia della vita coniugale, nonostante il marito straveda per lei.
Nel frattempo suo padre Soames è alle prese con delle macchinazioni di una società di cui è consigliere, e le loro vite si intrecciano con la tragica storia di una coppia che lotta per la sopravvivenza in un'epoca di estrema povertà.
Il primo capitolo della seconda trilogia dedicata alla famiglia Forsyte, scritta dal premio Nobel John Galsworthy.
LinguaItaliano
Data di uscita25 ott 2017
ISBN9788899403416
La scimmia bianca: La saga dei Forsyte vol. 4
Autore

John Galsworthy

John Galsworthy was a Nobel-Prize (1932) winning English dramatist, novelist, and poet born to an upper-middle class family in Surrey, England. He attended Harrow and trained as a barrister at New College, Oxford. Although called to the bar in 1890, rather than practise law, Galsworthy travelled extensively and began to write. It was as a playwright Galsworthy had his first success. His plays—like his most famous work, the series of novels comprising The Forsyte Saga—dealt primarily with class and the social issues of the day, and he was especially harsh on the class from which he himself came.

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    Anteprima del libro

    La scimmia bianca - John Galsworthy

    23

    Dello stesso autore nella collana Aurora:

    Il possidente. La saga dei Forsyte vol. I

    In tribunale. La saga dei Forsyte vol. II

    In affitto. La saga dei Forsyte vol. III

    John Galsworthy, La scimmia bianca (La saga dei Forsyte vol. IV)

    1a edizione Landscape Books, ottobre 2017

    Collana Aurora n° 23

    © Landscape Books 2017

    www.landscape-books.com

    Titolo originale: A Modern Comedy Book 1: The White Monkey

    Traduzione di Ada Prospero dall’edizione Corbaccio del 1930, riveduta e corretta. L'editore ha cercato con ogni mezzo i titolari dei diritti della traduzione senza riuscire a reperirli; rimane a disposizione per l'assolvimento di quanto eventualmente occorra nei loro confronti.

    ISBN 978-88-99403-41-6

    In copertina: Old Chelsea – Moonlight di John Atkinson Grimshaw.

    Progetto grafico service editoriale il Quadrotto

    Realizzazione editoriale a cura di WAY TO ePUB

    www.waytoepub.com

    John Galsworthy

    La saga dei Forsyte iv

    La scimmia bianca

    Presentazione dell’opera

    La collana Aurora si propone di recuperare classici ormai dimenticati e introvabili della letteratura italiana e internazionale, con un breve apparato critico di approfondimento.

    Tre anni dopo aver chiuso con To Let la saga originaria dei Forsyte, John Galsworthy mise mano a una seconda trilogia – intitolata originariamente A Modern Comedy – dedicata alla nuova generazione di Forsyte.

    Si ricorderà infatti che l’ultimo volume della prima trilogia vedeva tra i protagonisti Jon e Fleur, ovvero i figli rispettivamente del giovane Jolyon e di Soames. Uniti da una passione travolgente, ma separati irrimediabilmente dalla scoperta dei segreti di famiglia: che Soames, cioè, era stato il primo marito di Irene, la madre di Jon, e che aveva da lei divorziato perdipiù dopo averle usato violenza. Il volume si concludeva con la partenza di Jon, la morte di Jolyon e in generale con la fine di un’epoca.

    All’inizio de La Scimmia Bianca sono passati solo pochi mesi da quegli eventi, ma sembra essere trascorso molto più tempo. Fleur, che dopo la partenza di Jon ha subito accettato la corte di Michael Mont, ora è sposata con il giovane figlio di Sir Lawrence e ha aperto la sua casa ai più disparati artisti. Il suo cuore però non appartiene al marito, né ad altri, e questo la spinge alla continua ricerca di qualcosa che neanche lei sa individuare.

    A fare da trait d’union tra le generazioni è sempre l’inossidabile Soames. Mai come in questo romanzo Galsworthy esprime tutta la sua simpatia per un personaggio che, a vederlo sotto altre luci, sarebbe respingente se non odioso. Ma è l’ultimo rappresentante di un’epoca, una specie di alieno nella Londra gaudente del 1922, e questo lo rende forse il più umano di tutti, specialmente quando è la sua onorabilità a essere messa in gioco. E la scena, sul finire del romanzo, dell’assemblea di azionisti con tanto di processo sommario agli amministratori è una lucidissima quanto attualissima satira sociale.

    Alle vicende dei Forsyte, Galsworthy affianca una commovente storia proletaria che vede spiccare un altro personaggio femminile, Victorine. Una sorta di contraltare operaio di Fleur, è l’ennesimo ritratto di donna memorabile della saga.

    Pubblichiamo il primo volume della nuova trilogia nella storica traduzione di Ada Prospero Gobetti, opportunamente rivisitata, e, trattandosi del proseguimento della prima trilogia, numerandolo come quarto volume della saga.

    PARTE PRIMA

    I.

    Passeggiata

    Scendendo i gradini dello Snook’s Club – consunti dai passi innumerevoli di lodatori del passato in quello storico pomeriggio di metà ottobre del 1922, Sir Lawrence Mont, nono baronetto di questo nome, dilatò il bel naso aristocratico ad aspirare il vento dell’est e s’avviò, movendo rapidamente le gambe sottili. Uomo politico più per tradizione che per istinto, considerava la rivoluzione che aveva rimesso il suo partito al potere con un distacco non privo di umorismo. Passando dinanzi al Remove Club, pensò: Che puzza di piedi! Non più pietanze prelibate ormai. Merli, e senza contorno, tanto per cambiare!.

    Aveva aspettato, per entrare al Club, che ne fossero usciti i capitani e i re, perché non voleva esser confuso con quella ciurma di mangiasoldi, ormai liquidata, no, davvero; gente che voltava le spalle al paese non appena la guerra era terminata. Peuh!.

    Ma per un’ora ne aveva ascoltato gli echi, e la sua intelligenza penetrante e viva, inceppata dai sedimenti del passato, scettica del presente e di tutte le proteste e dichiarazioni politiche, aveva notato, divertita, la confusione tra patriottismo e personalità singole che quell’importante adunata aveva lasciato dietro di sé.

    Come quasi tutti i proprietari fondiari, non aveva nessuna fiducia nella teoria. Sua unica fede politica era la necessità di una tassa sul grano e in questa fede aveva coscienza di essere solo: è vero però che non aveva bisogno di approvazioni e di voti; o meglio il suo principio non correva alcun pericolo di venir soffocato dai voti contrari dei consumatori su cui la tassa sarebbe pesata. I principi – meditava – si riducevano au fond alla propria tasca; e lo urtava orribilmente che tanti volessero negarlo! La propria tasca, intesa naturalmente nel senso più profondo della parola, e cioè l’interesse di ogni individuo come membro di una comunità definita. E come poteva sussistere questa comunità definita che era la nazione inglese, quando non si coltivavano più i terreni, e tutto il commercio dello sue navi e dei suoi porti stava per esser annientato dalla concorrenza degli aeroplani? In tutta quel l’ora passata al Club, aveva inutilmente atteso che qualcuno accennasse al problema della terra! Nessuno ne aveva parlato! Al diavolo i politicanti! Preoccupati soltanto di conservare o conquistare una posizione politica. Ma nessun pensiero per l’avvenire, per la posterità! Neanche per sogno!

    E, a questo punto, a proposito della posterità, gli venne di pensare improvvisamente che la moglie di suo figlio non dava nessun segno ancora. Due anni! Era tempo ormai di pensare ai bambini. Abituarsi a non averne, poteva essere pericoloso, specie quando ne dipendevano un titolo e un patrimonio. Un sorriso gli fece rialzar le labbra e le sopracciglia in forma di ganci cespugliosi e scuri. Certo era una giovane creatura graziosa e affascinante; e ben sapeva di esserlo! E, del resto, chi poteva non saperlo? Leoni e tigri, gatti e scimmiotti – la sua casa stava diventando una specie di serraglio di celebrità più o meno importanti.

    C’era in tutto questo il senso di qualche cosa d’irreale! E, giunto dinanzi ai leoni di Trafalgar Square, Sir Lawrence pensò: Un giorno o l’altro, inviterà anche questi a casa sua! Ha la mania collezionista. Michael deve stare all’erta – nella casa dei collezionisti c’è sempre uno sgabuzzino per la roba vecchia, in cui facilmente possono finire i mariti. A proposito: le avevo promesso di portarle un ministro cinese. Ma ormai dovrà aspettare che sian finite le Elezioni Generali.

    Lungo Whitehall, sotto il cielo, grigio a oriente, apparvero per un momento le torri di Westminster. E il baronetto pensò: Anche nelle manie di Michael c’è il senso di qualcosa d’irreale! La moda di adesso – i principi del socialismo e una moglie ricca. Sacrificio e sicurezza! Pace e abbondanza! Schemi politici, panacee universali – dieci al soldo!.

    Passò Charing Cross tra il vociare frenetico dei giornalai che annunciavano la crisi politica, e voltò a sinistra, verso la casa editrice Danby e Winter, di cui suo figlio era socio. Il baronetto, che già aveva scritto una Vita di Montrose, Il lontano Cathay, racconto di viaggi in Oriente, e una conversazione fantastica tra le ombre di Gladstone e di Disraeli, intitolata Duetto, pensava da qualche tempo all’argomento di un nuovo libro. Man mano che s’allontanava dallo Snook’s Club verso est, la sua figura alta e magra nel mantello dal colletto di Astrakan, il suo volto sottile coi baffoni grigi, il monocolo dalla montatura di tartaruga incastrato sotto il bruno sopracciglio vivace, si facevan sempre più rari – finché egli parve un vero fenomeno nella via sudicia e scartata, in cui i carri erano appiccicati l’uno all’altro come mosche d’inverno, e tutti quelli che passavano avevano dei libri sotto il braccio, come se venissero da scuola.

    Quasi presso la porta della casa editrice incontrò due giovanotti. Uno di essi era evidentemente suo figlio, che vestiva meglio da quando s’era sposato, e fumava il sigaro – grazie a Dio! – invece di quelle eterne sigarette; l’altro... ah! Sì... il migliore amico di Michael, il poeta di belle speranze con la testa – quella testa un po’ calva sotto il cappello di velluto – perennemente per aria! Disse:

    «Oh, Michael!».

    «Ohè, Bart¹! Conosci mio padre, Wilfrid? Wilfrid Desert. Autore di Moneta di rame, un vero poeta, Bart. Devi leggere i suoi versi. Ora andiamo a casa. Vieni con noi?»

    Sir Lawrence li accompagnò.

    «Che è accaduto allo Snook’s Club?»

    «Le roi est mort. I laburisti possono cominciare i loro maneggi, Michael; le elezioni son fissate per il prossimo mese».

    «Devi sapere, Wilfrid, che mio padre è stato educato in un’epoca in cui Demos era ignorato».

    «Forse, Mr. Desert; ma vi pare che nella politica di oggi vi sia qualche cosa di reale?»

    «Ma, signore, dove lo trovate oggigiorno qualcosa di reale?»

    «Nella tassa sul reddito, forse».

    Michael sogghignò.

    «Al di sopra della cavalleria», disse «non c’è nulla di più alto della fede dei semplici».

    «Supponiamo che i tuoi amici salgano al potere, Michael – e in fondo non sarebbe una cattiva cosa, ti consiglio di aiutarli – ma che cosa potrebbero fare? Potrebbero migliorare i gusti nazionali? Abolire il cinematografo? Insegnare agli inglesi la buona cucina? Impedire alle altre nazioni di minacciar guerra? Darci la possibilità di produrre il cibo indispensabile? Arrestare il fenomeno dell’urbanesimo? Sarebbero capaci di impiccare quanti commerciano in gas asfissianti? Potrebbero proibire l’aviazione in tempo di guerra? Riuscirebbero ad attenuare l’istinto di proprietà – in qualunque forma si manifesti? O non si ridurrebbero, invece, semplicemente ad alterare un poco la contingenza della proprietà? Tutti i partiti politici si limitano a concimare alla superficie. Noi siamo di fatto dominati dagli inventori, e dalle leggi della natura umana; e viviamo sull’orlo del fallimento, Mr. Desert».

    «Provo anch’io la stessa sensazione, signore».

    Michael fece col sigaro un gesto ampio.

    «Malvagi retrogradi che siete!»

    Alzarono il cappello, passando dinanzi al Cenotafio.

    «Ecco una cosa bizzarramente sintomatica», disse Sir Lawrence, «il monumento al terrore della boria... enormemente caratteristico. E il terrore della boria…».

    «Avanti, dunque, Bart».

    «Tutto ciò che era bello, grande, florido – tutto scomparso! Non più visioni lungimiranti, non più progetti grandiosi, non più grandi principi, né grande religione, né grande arte – soltanto più estetismo – in piccole cricche, o in correnti scartate; piccoli uomini con piccoli cappelli».

    «Come sospira il cuore per nostalgia di Byron, Wilberforce e il monumento a Nelson! Povero mio Bart! Che ne pensi, Wilfrid?»

    «Sì, Mr. Desert, che ne pensate?»

    Il volto bruno di Desert si contrasse.

    «È un’epoca di paradossi» disse. «Noi tutti lottiamo violentemente per la libertà, e intanto le uniche istituzioni che si rafforzano sono il socialismo e la Chiesa cattolica romana. Abbiamo in arte un terribile senso critico, e l’unica arte che si sviluppa da noi è il cinematografo. Siamo maniaci per la pace, e intanto si van perfezionando i gas asfissianti».

    Sir Lawrence diede un’occhiata di sbieco a quel giovanotto che parlava così amaro.

    «E come vanno gli affari della casa editrice, Michael?»

    «Bene, Moneta di rame è andato a ruba; e c’è una certa ripresa nella vendita del Duetto. Che ne diresti di questo sottotitolo. Duetto, di Sir Laivrence Mont, Baronetto. La più notevole conversazione che mai si sia tenuta nel regno dei morti. Colpirebbe la fantasia. Wilfrid suggeriva: G. O. M. e Dizzy in diretta dall’inferno². Quale preferisci?»

    Erano giunti intanto vicino a un poliziotto, che teneva la mano contro il muso d’un cavallo da tiro, costringendo tutti a segnare il tempo. I motori delle automobili ronzavano pigramente, i loro conducenti avevano il volto fisso allo spazio proibito; una fanciulla in bicicletta guardava nel vuoto dinanzi a sé, tenendosi con una mano alla parte posteriore del carro, su cui un giovanotto sedeva di sbieco con le gambe tese verso di lei. Sir Lawrence diede un’altra occhiata al giovane Desert. Il suo viso magro, dal bruno pallore, era simpatico, ma dava l’impressione che qualcosa vi fosse di non perfettamente equilibrato; nulla di outré nel vestire o nei modi, eppure si sentiva una certa spregiudicatezza; era certo meno nobile di quello sveglio briccone di suo figlio, ma altrettanto privo di punto d’appoggio, più scettico ancora forse, benché possedesse indubbiamente una notevole profondità di sentimento! Il poliziotto abbassò il braccio.

    «Avete fatto la guerra, Mr. Desert?»

    «Oh, sì».

    «Servizio aereo?»

    «Sì. Ma sono stato anche in linea».

    «Dura vita per un poeta».

    «Oh, no: affatto. Si può essere poeti soltanto quando si corra ogni momento il pericolo di saltare per aria, o quando si viva nel quartiere di Putney».

    Sir Lawrence rialzò le sopracciglia.

    «Davvero?»

    «Per Tennyson, Browning, Wordsworth, Swinburne... la cosa era più facile. Ils vivaient, mais si peu».

    «Non c’è una terza circostanza favorevole alla poesia?»

    «E quale?»

    «Non so come spiegarmi… una certa agitazione cerebrale in stretta connessione con le donne?»

    Il volto di Desert ebbe un fremito e parve farsi più scuro.

    Michael introdusse la chiave nella serratura della porta di casa.


    ¹ Abbreviazione familiare di Baronet, baronetto (NdT).

    ² G. O. M.: grand old man, ironicamente applicato a Gladstone. Dizzy: diminutivo famigliare con cui la regina Vittoria soleva chiamare il ministro Disraeli (NdT).

    II.

    CASA

    La casa di South Square, Westminster, in cui s’erano stabiliti due anni prima i giovani Mont, dopo la luna di miele passata in Spagna, bene avrebbe potuto dirsi emancipata. Era opera di un architetto che aveva sognato di costruire una casa perfettamente nuova che avesse insieme l’apparenza di una casa perfettamente vecchia. Perciò non vi si notava nessuno stile o nessuna tradizione riconosciuta, ed era stata concepita senza neanche l’ombra di un pregiudizio costruttivo; ma con tanta rapidità s’imbeveva della fuliggine della metropoli che già il colore della pietra era discretamente simile a quello delle costruzioni di Wren. Le porte e le finestre erano lievemente arrotondate alla sommità. Il tetto dall’alta pendenza, dei tegoli rossi già affumicati, faceva pensare alle case danesi, e vi si aprivano due amori di finestrine; così che, guardandole, si aveva l’impressione che lassù vivessero dei servitori di statura eccezionale. C’erano stanze da ambo le parti della porta d’ingresso, ch’era ampia e messa in risalto da piante di lauro decorate in nero e oro. La casa era assai grande all’interno e la scala, dalla linea larga e pura, cominciava all’estremità di un atrio enorme, in cui c’era posto per innumerevoli cappelli e soprabiti e biglietti da visita. Quattro stanze da bagno; e neanche una cantina. L’istinto della casa innato nei Forsyte aveva avuto parte nell’acquisto. Soames l’aveva presa per sua figlia, nuda e vuota, in quel momento psicologico in cui la bolla dell’inflazione s’era forata, lasciando sfuggire l’aria dal pallone del commercio mondiale. Tuttavia Fleur era entrata immediatamente in contatto con lo spirito dell’architetto, un elemento questo che Soames non era invece riuscito a digerire completamente, e aveva deciso di non avere nella sua casa che tre stili: il cinese, lo spagnolo, e il proprio. A sinistra della porta d’ingresso, il grande salone, che si stendeva per tutta l’ampiezza della casa, era in stile cinese, con pannelli d’avorio, pavimento di rame, riscaldamento centrale, e lampadari di cristallo molato. Conteneva quattro quadri – tutti cinesi, l’unico genere di pittura in cui suo padre non avesse ancor commerciato. Sul focolare, ampio e aperto, cani cinesi di porcellana posavano su tegoli pure cinesi. Nelle stoffe dominava il color verde giada. C’eran due meravigliosi cofanetti da tè antichi, di colore scuro, comprati da Jobson col denaro di Soames, non conquistati con qualche abile contratto. Ma non c’era pianoforte, un po’ perché i pianoforti erano decisamente troppo occidentali, un po’ perché avrebbe occupato troppo posto. Fleur voleva aver dello spazio, preferiva far collezione di uomini, piuttosto che di mobili e di bibelots. Peccato che la luce che entrava dalle finestre, alle due estremità della stanza, non fosse cinese! Ella soleva talvolta starsene in piedi in mezzo alla sala, pensando... come raggruppare i suoi ospiti, come rendere l’ambiente più cinese, senza rinunciare alle comodità indispensabili; come aver l’aria di intendersi a fondo di letteratura e di politica; come accettare i regali di suo padre, senza fargli capire che i suoi gusti erano ormai un po’ superati; come conservare nel suo circolo Sibley Swan, la nuova stella letteraria, e introdurvi Gurdon Minho, la celebrità di ieri; e pensava anche talvolta a Wilfrid Desert che cominciava a volerle un po’ troppo bene; alla linea da adottare nei suoi vestiti per dar loro l’impronta di uno stile originale; alla forma così buffa delle orecchie di Michael; e qualche volta ancora se ne stava là senza pensare a nulla, con una lieve pena nel cuore.

    Quando i tre uomini entrarono, ella era seduta dinanzi a un tavolino di lacca rossa, e finiva di prendere il tè. Sempre se lo faceva portare di buon’ora, per un primo assaggio, tranquillamente, da sola; non aveva ancora ventun’anni, ed era quella l’ora dedicata ai ricordi di gioventù. Accanto a lei Ting-a-ling, ritto sulle zampette posteriori, con quelle anteriori appoggiate a uno sgabello cinese, volgeva in su il musetto camuso nero e fulvo, in attesa dei frutti della propria filosofia.

    «Ora basta. Ting. Non più, tesoro! Non più

    Ting-a-ling la guardò con l’aria di rispondere:

    Allora smetti anche tu! Non sottopormi a una simile tortura!.

    Un anno e tre mesi: l’aveva comprato Michael in un negozio di Bond Street al ventesimo compleanno di Fleur, undici mesi prima.

    Due anni di vita coniugale non avevano allungato i suoi capelli corti castano scuri; le labbra vivaci avevano un’espressione più decisa e le palpebre bianchissime si abbassavano sugli occhi color nocciola dalle ciglia scure con fascino più sapiente; il suo passo era divenuto più equilibrato e ondeggiante, il petto e i fianchi avevano acquistato una certa ampiezza; mentre invece la vita e le caviglie s’eran fatte più sottili, le guance leggermente meno rotonde, avevan perso un po’ del loro incarnato e la voce, dall’intonazione più carezzevole, era tuttavia meno dolce.

    Si alzò e rimase dietro al vassoio, tendendo silenziosamente il bianco braccio rotondo. Ometteva, per abitudine, le consuete parole di benvenuto e d’addio. Troppe volte avrebbe dovuto ripeterle e assai più eloquenti le parevan lo sguardo, la stretta della mano, la leggera inclinazione del capo.

    Con un movimento circolare della mano, disse:

    «Avvicinatevi. Panna, Bart? Zucchero, Wilfrid? Ting ha già mangiato troppo, non dategli più nulla, vi prego! Porgi le tazze, Michael. Ho saputo dell’adunata agli Snook. Spero che non ti metterai a far propaganda per i laburisti, Michael; la propaganda è una cosa molto stupida. Se qualcuno la facesse con me, io subito voterei per il partito opposto».

    «Lo so, cara; ma tu non hai la mentalità dell’elettore comune».

    Fleur lo guardò. Ben detto, davvero! Con una sola occhiata notò Wilfrid che si mordeva le labbra, il baronetto che lo osservava scrutandolo, il pezzo scoperto delle proprie gambe nelle calze di seta, le tazze dà tè color nero e crema; e subito provvide. Un lieve sbattere delle bianchissime palpebre, Desert smise di mordersi le labbra; un movimento delle gambe inguainate di seta, il Baronetto smise di osservarle. Poi porgendo le tazze, disse:

    «Forse non sono abbastanza moderna?».

    Desert, rimescolando col cucchiaino lucente nella tazza screziata, disse senza alzare gli occhi:

    «Di tanto siete più moderna delle donne moderne, di quanto ne siete più antica».

    «Udite che poesia!» disse Michael.

    Ma quando egli ebbe condotto suo padre a vedere i nuovi cartoni di Aubrey Greene, ella disse: «Abbiate la bontà di spiegarmi che cosa intendevate dire, Wilfrid».

    La voce di Desert suonò diversa, come se sino ad allora fosse stata costretta.

    «Che importa? Non voglio perderci del tempo inutile».

    «Ma io voglio saperlo. Mi è parso di sentirvi un tono di beffa».

    «Di beffa? Da me? Oh! Fleur!»

    «Allora spiegatevi».

    «Intendevo dire che c’è in voi tutta l’irrequietezza e il senso pratico della vita proprio della donna moderna; ma c’è anche quel che non si trova più ormai, il potere di fare impazzire. E io sono impazzito. Lo sapete».

    «Che penserebbe Michael se vi sentisse parlar così, voi, il suo migliore amico?»

    Desert mosse rapido verso la finestra.

    Fleur prese Ting-a-ling in grembo. Non era la prima volta che si sentiva dire queste cose; ma ora Wilfrid parlava sul serio. Era una bella cosa, certo, avere il dominio di quel cuore! Ma dove, dove mai avrebbe potuto celarlo, perché nessuno lo scorgesse, all’infuori di lei? Quel poeta era un uomo bizzarro – capace delle cose più impensate! Ed ella ne aveva un poco paura – non di lui certo, ma di questa sua bizzarria. Wilfrid ritornò presso il camino, e disse:

    «Brutta cosa, vero? Mettete via quell’orribile cane, Fleur; non posso vedere il vostro viso. Se sapessi che amate veramente Michael, non parlerei, ve lo giuro; ma non lo amate».

    Fleur disse freddamente:

    «Voi non sapete nulla di nulla; voglio molto bene a Michael».

    Desert ebbe il suo breve riso scattante.

    «Sì, sì; ma è quel bene che conta».

    Fleur lo guardò.

    «Conta abbastanza perché mi senta al sicuro da voi».

    «Un fiore che non potrò mai raccogliere, dunque?»

    Fleur accennò di sì col capo.

    «Ne siete sicura, Fleur? Proprio, proprio sicura?»

    Fleur lo fissò; l’espressione dei suoi occhi si fece più dolce, le sue palpebre, così eccessivamente bianche, si abbassarono a velarli; ancora accennò di sì con la testa. Ma Desert disse lentamente:

    «Il giorno in cui ne sarò davvero convinto, andrò in Oriente».

    «In Oriente?»

    «Non è un rimedio triste, come il solito viaggio in Occidente, ma ha praticamente il medesimo risultato: non se ne ritorna più».

    Fleur pensava:

    L’Oriente! Mi piacerebbe andare in Oriente! Peccato non poter fare anche questo! Peccato!.

    «Non pensate di potermi trattenere nel vostro giardino zoologico, mia cara. Non ho nessuna intenzione di continuare a girarvi attorno per coglier le briciole del vostro affetto. Sapete quello che ho in cuore, ci vuole uno strappo violento».

    «Ma è stata colpa mia forse?»

    «Sì; avete cercato di incantarmi, come incantate tutti quelli vi capitano vicino, per il vostro gusto di collezionista».

    «Non capisco che cosa volete dire».

    Desert le si piegò accanto e si portò la sua mano alle labbra.

    «Non siate in collera con me; sono troppo infelice».

    Fleur abbandonò la mano contro le sue labbra ardenti.

    «Me ne duole, Wilfrid».

    «Bene, cara, allora me ne vado».

    «Ma verrete a pranzo, domani?»

    Rispose Desert con violenza:

    «Domani? Buon Dio, no! Di cosa credete dunque che sia fatto?».

    E respinse la sua mano con forza.

    «Non amo la violenza, Wilfrid».

    «Bene, addio dunque; è meglio che me ne vada».

    Fleur si sentì tremare sulle labbra queste altre parole: Ed è meglio che non torniate mai più, ma non le disse. Senza più Wilfrid le pareva che la vita avrebbe perso un po’ del suo calore! Mosse la mano in un cenno di saluto. Era scomparso. Sentì chiudere la porta. Povero Wilfrid! Dolce il pensiero di quella fiamma a cui riscaldarsi le mani! Dolce, ma terribile insieme! E improvvisamente, messo Ting-a-ling a terra, si alzò e si mise a camminare su e giù per la stanza. Domani! Secondo anniversario di matrimonio! E ancora provava una pena sottile al pensiero di ciò che non era stato. Ma aveva poco tempo per i ricordi, e questo tempo ancora lo riduceva al minimo. A che ricordare, pensare? Una vita soltanto, piena di gente, di cose da fare e da conquistare, di cose da volere – una vita in cui mancava... una cosa sola; e quella cosa del resto, quelli che l’avevano, l’avevano per così poco tempo! Due lacrime si raccolsero sulle sue palpebre, ma evaporarono senza cadere. Sentimentalismo! No! L’ultima cosa al mondo ch’ella pensava di potersi concedere, la debolezza che meno sapeva compatire o comprendere! Come avrebbe disposto i suoi ospiti a tavola il giorno dopo? E se quello sciocco ragazzo di Wilfrid non veniva davvero, chi avrebbe potuto invitare al posto suo? Un giorno – una sera – chissà? Chi poteva mettere alla propria destra, chi alla propria sinistra? Era più distinto Aubrey Greene o Sibley Swan? Ed erano l’uno e l’altro distinti quanto Walter Nazing o Charles Upshire? Un pranzo di dodici invitati, tutti esclusivamente letterati e artisti, all’infuori di Michael e di Alison Charwell. Ah! E se avesse pregato Alison di condurre il suo Gurdon Minho – uno scrittore della vecchia scuola –, come un buon bicchiere di vino vecchio a smorzare l’effervescenza dei giovani? È vero che non stampava i suoi libri da Danby e Winter; ma era assai devoto ad Alison. Mosse rapida verso uno dei due cofani antichi e l’aprì: apparve un telefono.

    «Potrei parlare con Lady Alison?... Mrs. Michael Mont... Sì... Siete voi, Alison?... Parlate con Fleur. Wilfrid non può venire domani sera... Chissà se non potreste invitare invece Gurdon Minho? Non lo conosco, naturalmente; ma forse potrebbe interessarlo trovarsi coi miei amici. Proverete?... Oh, sarà delizioso! Interessante, vero, l’adunata allo Snook’s Club? Bart dice che ora, dopo la scissione, si mangerano tutti l’uno con l’altro... A proposito di Mr. Minho. Potreste farmi sapere se accetta, questa sera stessa? Grazie, grazie infinite!… Addio!»

    Se Minho non veniva, chi si poteva invitare? Sfogliò meditabonda il libretto degli indirizzi. Era tardi ormai per invitare chi non fosse addirittura di casa; ma, all’infuori di Alison, nessuno tra i parenti di Michael avrebbe potuto salvarsi da Sibley Swan o da Nesta Gorse e dai loro strani intinti di sovversivismo; quanto ai Forsyte, erano fuori questione; avevano (alcuni di essi, almeno) un certo umorismo saturato d’acredine, ma non erano profondamente, veramente moderni. E poi, cercava di vederli il meno possibile: appartenevano al periodo in cui era di moda la mentalità drammatica, e non sapevano concepire la vita senza un principio e senza una fine. No! Se Gurdon Minho non si decideva a venire bisognava invitare un musicista, che scrivesse delle opere geroglifiche con una vena di chirurgia; o, meglio ancora forse, uno psicoanalista. Passò rapidamente le pagine, sicché giunse a queste due categorie. Hugo Solstis? Era un’idea; ma se poi gli fosse venuto il ghiribizzo di far sentire agli ospiti qualche musica recente? C’era soltanto il pianoforte verticale di Michael e si sarebbe dovuto trascorrere la serata nel suo studio invece che nel salone. Meglio Gerald Hanks; se si trovava vicino a Nesta Gorse, sarebbero partiti entrambi per il paese dei sogni è vero; ma, anche se quei due tacevano, non sarebbe mancata l’animazione. Sì, se non veniva Gurdon Minho, avrebbe invitato Gerald Hanks, che certo era libero – e l’avrebbe messo a tavola tra Alison e Nesta. Chiuse il libretto e, tornando a sedersi sul divanino verde giada, guardò Ting-a-ling. Il cagnolino le rese lo sguardo con quei suoi occhi prominenti e rotondi: uno sguardo lucente, nero, dall’espressione vecchissima. Fleur pensò: Non voglio rinunciare a Wilfrid. Tra la folla di quanti le giravano attorno, un po’ dappertutto, nessuno l’interessava veramente. Eppure sentiva il bisogno di trattenerli tutti vicino a sé, per quel suo istinto di non rinunciare mai a nulla! Era terribilmente divertente, terribilmente necessario! Soltanto... soltanto... che cosa?

    Un suono di voci! Michael e Bart che tornavano. Bart aveva notato i modi di Wilfrid. Era difatti uno spirito osservatore e penetrante. E in sua presenza ella provava sempre un certo disagio; benché arguto e vivace, c’era in lui qualche cosa di fermo, di avito; un po’ come in Ting-a-ling, e quella sua aria di giudice le dava la sensazione di essere più che mai instabile e nuova. Era egli come un vascello che non potesse ancora muoversi oltre l’ambito concesso dalla sua gomena antica, e tuttavia appariva talvolta inaspettato, sconcertante. E ciò malgrado Fleur sentiva la sua ammirazione, e ne era perfettamente sicura.

    Ebbene? Gli piacevano quei cartelli? Pensava che Michael dovesse farli stampare, e con didascalie o senza? E quel disegno cubista intitolato Natura morta che voleva rappresentare il governo non era troppo ironicamente buffo, soprattutto quel vecchio fagiolo che doveva essere il Primo Ministro? Si sentì rispondere con una parlata rapida, sinuosa: Sir Lawrence le raccontava della raccolta di cartelli elettorali del baronetto, suo padre. Ella non desiderava affatto sentir parlare di lui; era stato molto distinto, è vero, ma doveva esser stato terribilmente noioso, con quel suo costume di andare a far visita a cavallo, chiusi i pantaloni nella tromba degli stivali. Era stato uno degli ultimi, insieme con Lord Charles Cariboo e il marchese di Forfar, a seguire questa antica usanza. Ed era questa del resto l’unica originalità che li

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