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Rocco Perri. Il Gatsby italiano e la sua incredibile storia al tempo del «Proibizionismo»
Rocco Perri. Il Gatsby italiano e la sua incredibile storia al tempo del «Proibizionismo»
Rocco Perri. Il Gatsby italiano e la sua incredibile storia al tempo del «Proibizionismo»
E-book324 pagine3 ore

Rocco Perri. Il Gatsby italiano e la sua incredibile storia al tempo del «Proibizionismo»

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Info su questo ebook

Rocco Perri ha lasciato la Calabria sul finire dell’Ottocento. Dopo una breve parentesi negli Stati Uniti, si è trasferito in Canada, dove, assieme alla sua compagna Bessie Starkman è riuscito a creare un impero straordinario, grazie all’alcool venduto durante il periodo del Proibizionismo. Ha conosciuto Al Capone e ha avuto relazioni commerciali anche con Joseph Kennedy, il padre di JFK. La sua scomparsa nel 1944, per decenni, è stata avvolta nel mistero. Fino a quando Antonio Nicaso, con una ricostruzione accurata dei fatti, è riuscito a scoprire ciò che nessuno osava immaginare. “Gli amanti di questo tipo di saggistica apprezzeranno sicuramente questa publicazione almeno per due motivi. Il primo perché a scriverla è Antonio Nicaso, da tempo riconosciuto come il più noto esperto di organizzazioni criminali in Nord-America. Il secondo perché l’autore ha saputo ricostruire e raccontare la storia di Rocco Perri, il re del contrabbando di liquori, in un modo straordinariamente intelligente. Rocco Perri è un libro che tutti dovrebbero leggere”. Paul Challen, Quill & Quire.

LinguaItaliano
Data di uscita12 dic 2016
ISBN9788868224967
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    Rocco Perri. Il Gatsby italiano e la sua incredibile storia al tempo del «Proibizionismo» - Antonio Nicaso

    Essais

    Thorold, Ontario, 1922

    Tom Morley, il vecchio guardiano, non fece neanche in tempo a salutarlo. Controllò il grosso orologio appeso al panciotto: erano le 3,54 del mattino del 17 dicembre 1922. Thorold, una cittadina dell’Ontario a pochi chilometri dalle cascate del Niagara, era ancora deserta, quando tre colpi sordi destarono l’intero vicinato.

    Un po’ curvo per i suoi sessantacinque anni suonati, i lunghi scopettoni bianchi che gli ornavano le guance infreddolite, con passo affrettato uscì dalla stazione ferroviaria, spingendosi su Front Street fino all’incrocio con Clairmont. La neve cadeva fitta a larghe falde.

    Quando vide Joseph Trueman a terra con gli occhi sbarrati, Morley rimase impietrito. Abbassò lo sguardo e, avvolto nel suo paltò di lana, si strinse la testa tra le mani. «Non ci posso credere», esclamò, mentre il cuore gli martellava nel petto come un treno impazzito.

    Joseph Trueman, il giovane poliziotto ucciso a Thorold

    il 17 dicembre del 1922

    Trentacinque anni, capelli corvini arricciati sulla fronte, occhi grandi e vispi, Trueman era un poliziotto senza picchi, né cedimenti, che metteva nel proprio mestiere la faccia e l’anima della persona mite e per bene che era: normale, fredda o generosa a seconda delle circostanze e del momento, ma sempre con l’obiettivo di aiutare qualcuno o risolvere una situazione per il meglio. Aveva lasciato l’Irlanda del Nord nel 1908 per raggiungere alcuni familiari emigrati in Canada.

    Prima di arruolarsi nella polizia, aveva lavorato come fattorino in una banca di Toronto. A Thorold era arrivato da poco.

    Erano gli anni del proibizionismo, cioè di quella legge con cui il Canada, prima ancora che gli Stati Uniti, credette di poter bloccare il decadimento dei costumi, salvando la società dagli abusi dell’alcol. Voluta dai WASP, i bianchi anglosassoni e protestanti, quella legge, però, servì solo a dare alle gang, che fino ad allora avevano vivacchiato nei quartieri malfamati delle grandi città, la spinta decisiva per affermarsi. Alla gente, quella che cercava di dimenticare gli orrori della Grande Guerra, il Proibizionismo, invece, apparve subito come un’ingerenza, una intromissione inopportuna nella vita di tutti i giorni. «Che c’è di male?», si chiedevano operai e braccianti. «Del resto, sta scritto anche nella Bibbia: come posso rinunciare al mio vino che rallegra il cuore dell’uomo?»

    A Thorold, crocevia di traffici illeciti al confine con gli Stati Uniti, Trueman era stato uno dei pochi a prendere sul serio le indagini sui rumrunner, i corrieri che trasportavano bevande alcoliche, e sui bottlegger, i contrabbandieri che tenevano i contatti con le grandi distillerie e le fabbriche di birra. Molti altri, invece, avevano preferito chiudere gli occhi: c’era sempre da guadagnarci. In pochi mesi, si era già fatto molti nemici. «Questi bastardi non ci pensano due volte: scarrellano e premono il grilletto: bum, bum, bum. Come se nulla fosse», s’era sfogato con Morley, durante la sua breve visita alla stazione ferroviaria, raccontandogli le circostanze di un attentato al quale era miracolosamente scampato la sera precedente, quando gli avevano sparato da un’auto in corsa. Poi con rabbia aveva aggiunto: «Bel modo di fare la guerra ai contrabbandieri: noi a piedi di notte e loro con le automobili». Si andava avanti per tentativi, sperando di afferrare il filo giusto e non rimanere impigliato in quello sbagliato.

    Quando William Stringer, un ispettore della polizia provinciale dalla faccia dura e quadrata, andò a interrogare Morley, il vecchio guardiano a stento riuscì a trattenere la commozione. A quel giovane, che ogni sera, durante il giro di perlustrazione, si fermava a salutarlo, s’era ormai affezionato.

    «Eravamo nella stazione», dichiarò Morley[1], tormentando tra le mani un fazzolettino bianco di trina. «A un tratto, Trueman, che aveva sentito dei rumori, si precipitò per strada. Gli ho sentito urlare qualcosa, poi ho udito due colpi di arma da fuoco. Mi sono accostato alla finestra, l’ho visto correre con la pistola in pugno. Ha sparato, poi si è accasciato. Quando sono andato a soccorrerlo, era già morto».

    L’ispettore bussò alla porta di tutte le case che sorgevano nel raggio di un miglio. Ma fu una fatica inutile. Nonostante una taglia di mille dollari messa dal sindaco, Joseph Battle, nessuno seppe o volle aggiungere una parola alle dichiarazioni del vecchio guardiano.

    I funerali stornarono per un giorno l’attenzione degli inquirenti e dell’opinione pubblica dai difficili nodi dell’inchiesta. Poi il corpo di Trueman venne trasportato a Vancouver, nella British Colombia, dove da poco si erano trasferiti i suoi familiari; e le indagini ripresero di gran lena.

    Domenico Critelli, un giovane del luogo, fu il primo a finire nell’elenco dei sospetti[2]. La sua padrona di casa dichiarò di averlo sentito rincasare poco dopo l’omicidio. Non seppe fornire un alibi e, mentendo, raccontò di aver trascorso a letto tutta la notte.

    Altri due italiani, Jim Cicovichi e Frank Cachano (alias Frank Tomas) – due cognomi assurdi che però all’orecchio dei canadesi suonavano italiani – vennero arrestati a Niagara Falls. Un altro venne fermato per ubriachezza. I giornali ne riportarono la notizia[3], ma nulla pubblicarono quando, poco dopo, i quattro vennero rimessi in libertà.

    Il clima rischiava di diventare pesante. All’indignazione per l’omicidio del giovane poliziotto si aggiunse l’intolleranza nei confronti degli immigrati, soprattutto degli italiani, ritenuti responsabili del lucroso business legato alla vendita degli alcolici.

    Se ne rese subito conto anche il sindaco Battle.

    Magro, quasi sparuto, capelli brizzolati, gli occhi incavati e gli zigomi sporgenti, fece un salto sulla sedia, quando si trovò tra le mani una lettera del Ku Klux Klan.

    «Signor Sindaco», lo avvertiva il capo della sede di St. Catharines della nota setta razzista, «se lo straniero che ha ucciso l’agente Trueman non venisse assicurato alla giustizia entro il 2 gennaio prossimo, spazzeremo via dalla città l’intero quartiere ita-liano». La lettera, pubblicata anche nell’edizione del 20 dicembre dell’Hamilton Spectator, uno dei quotidiani più diffusi della zona, conteneva altre precise minacce: «Ci sono 1.800 uomini della nostra divisione scarlatta che aspettano un segnale per entrare in azione e sterminare quei sorci che imbrattano le nostre vie. Mi creda, non è uno scherzo». Lo statuto degli incappucciati bianchi allora prevedeva l’eliminazione dei neri, al primo punto. Degli ebrei al secondo e degli immigrati di origine cattolica (cioè degli italiani, soprattutto) al terzo.

    Il rischio, come comprese subito anche il sindaco Battle, era quello delle indagini sommarie, del giustizialismo forcaiolo per placare l’ira della popolazione, fomentata dai giornali, allora quasi tutti molto duri nei confronti degli immigrati. A chiedere giustizia erano soprattutto i maggiorenti del paese e gli esponenti della loggia orangista, di cui faceva parte anche il poliziotto ucciso.

    Nei giorni successivi al 17 dicembre, le perquisizioni della polizia si susseguirono senza soste. Decine di persone vennero fermate e interrogate. Nessuno però fornì alcun lume alle indagini. Molti subirono in silenzio, anche se con la morte di Trueman e il contrabbando degli alcolici non avessero nulla da spartire. Altri, quelli più danneggiati dal fervore investigativo, congetturano sull’utilità di quell’omicidio. Ma ormai era troppo tardi.

    All’ispettore Stringer, in quegli anni, venivano affidati i casi più difficili in Ontario. Era una sorta di Elliot Ness canadese, cocciuto e caparbio. E come tutti gli uomini intelligenti era tormentato dai dubbi. Non riusciva a capire perché quella platea di miserabili che viveva in stanze lerce si nascondeva alle autorità anche quando non aveva nulla da temere. Né riusciva a capire come mai anche gli italiani che erano riusciti ad affrancarsi dal bisogno continuavano a trovarsi avvolti in quella ragnatela ambigua di obblighi e protezioni, violenza e omertà. «Evidentemente», ripeteva tra sé e sé, «hanno più paura della mafia che dei proclami razzisti del Ku Klux Klan».

    C’era, comunque, chi decideva di uscire allo scoperto e denunciare le richieste estorsive, come Michael Bernard, 33 anni, piccolo imprenditore di Toronto, destinatario di un paio di lettere minatorie con impresso il disegno di una mano con contorno di teschi e pugnali incrociati. Piuttosto che chinare la testa, Bernard aveva deciso di rivolgersi alla polizia. Due giorni dopo l’omicidio Trueman, la sua abitazione, assieme a quella di un vicino, era stata danneggiata dallo scoppio di una bomba lanciata da un’auto in corsa[4]. A Bernard non era bastato anglicizzare il cognome per sfuggire ai ricatti della Mano Nera, incubo di molti italiani.

    [1]Slays constable during darkness and make escape, The Globe, 18 dicembre 1922, prima pagina; Night constable murdered on beat, The Hamilton Specator, 18 dicembre 1922, prima pagina.

    [2]Foreigner held as a suspect in Thorold murder, The Toronto Daily Star, 18 dicembre 1922, prima pagina; One arrest is made in Thorold tragedy, The Globe, 19 dicembre 1922, p. 3.

    [3]Ibidem, The Globe, 19 dicembre 1922, p. 3.

    [4]Try to blow up Italian’s home in bomb outrage, The Toronto Daily Star, 19 dicembre 1922, prima pagina.

    Toronto, Ontario, 1911

    L’attenzione degli inquirenti a Thorold e Welland si appuntò subito sui quartieri abitati dagli italiani, ma soprattutto sulle organizzazioni criminali che gestivano il contrabbando degli alcolici. «È lì che bisogna indagare», scriveva l’ispettore Stringer, nel suo primo rapporto al generale Victor Williams, capo della polizia provinciale.

    Di mafia, intesa come gang di italiani, Stringer aveva sentito parlare, per la prima volta, nel 1911 a Toronto. Era stato un altro omicidio a mettere gli investigatori sulle tracce di queste organizzazioni che, sull’esempio della cosiddetta Mano Nera, avevano cominciato a taglieggiare i commercianti del St. John’s Ward, la zona nei pressi del porto e della stazione ferroviaria, dove allora vivevano gli italiani.

    Era il 30 luglio, pomeriggio di una domenica assolata[1]. Frank Griro, 25 anni, detto Rossaro, fronte alta, capelli neri, carnagione olivastra, una cicatrice sul mento, un’altra sulla mascella sinistra, stava rincasando, quando incontrò Frank Sciarrone, detto Tarra, uno strozzino legato ad ambienti malavitosi che molti indicavano come luogotenente di Joe Musolino, un boss temuto e rispettato, boss della picciotteria di Toronto, originario di Santo Stefano d’Aspromonte, cugino dell’omonimo «bandito» che, in Calabria ai primi del Novecento per la sua rozza idea di giustizia era diventato una sorta di leggenda.

    Qualche mese prima, Salvatore Sciarrone, fratello del Tarra, era andato a trovarlo per chiedergli dieci dollari. «Devo fare un regalo a Frank che è appena uscito dal carcere». A questa richiesta ne erano seguite altre e Griro per le prime settimane non aveva battuto ciglio. Gestiva un ristorante in quella che allora era la Little Italy di Toronto ma era sospettato anche di avere interessi in un giro di prostitute provenienti dal Quebec.

    Quando le richieste cominciarono a farsi sempre più frequenti, decise di vendere il locale. A farsi avanti per comprarlo furono le stesse persone che lo avevano fino a quel momento taglieggiato. «Tant’è, almeno mi lasceranno in pace», pensò. Ma non andò così. Prima gli proposero di entrare a far parte della mafia e poi continuarono a chiedergli altri soldi.

    «Ti devo parlare, possiamo appartarci?», quella domenica pomeriggio disse Griro a Sciarrone senza neanche salutarlo. Sciarrone annuì, facendo cenno a un amico con cui passeggiava di allontanarsi. I due cominciarono a camminare. «Vi ho dato tutto ciò che avevo. Non vi basta? Perché volete ammazzarmi», attaccò Griro.

    Sciarrone era un uomo sulla trentina, di media statura, dallo sguardo torvo e dall’atteggiamento irriverente. Non amava discutere; era stato in carcere per aggressione. Alle parole di Griro, s’impuntò: «Ma che dici? Nessuno vuole ucciderti! Piuttosto», lo incalzò, «quanti soldi hai in tasca?»

    «Ho quelli che mi sono fatto prestare da una banca per aprire un’altra attività commerciale. Quella che avevo me l’avete sottratta», replicò ingenuamente.

    «Dammi tutti i soldi che hai in tasca e nessuno ti torcerà un capello. Te lo garantisco», sibilò Sciarrone. «Ti do venti dollari a patto che mi lasci in pace. Non mi costringere ad andare dalla polizia».«Mi hai preso per uno straccione? Venti dollari me li fumo in sigari in un solo giorno!», replicò il Tarra con il suo ghigno beffardo. «Te la faccio vedere io la polizia!», aggiunse, cercando di afferrare la pistola che teneva nascosta sotto la giacca.

    Griro fu più lesto. Impugnò l’arma, che si era procurato il giorno prima nello spaccio di un barbiere, e cominciò a sparare. Partirono tre colpi, uno dietro l’altro, come raccontarono alla polizia due ragazze ferme a pochi metri di distanza.

    Sciarrone, sorpreso da quella reazione, restò per un attimo sospeso, come tirato su per i capelli da una mano invisibile. Poi cercò di reagire, ma non trovò la forza per premere il grilletto. Lentamente si afflosciò, cadendo per terra con la faccia in avanti. Griro, invece, si mise a correre come un pazzo. Un poliziotto, che da lontano aveva assistito alla scena, provò a inseguirlo, ma senza successo. Il Rossaro, dopo aver fatto perdere le sue tracce, vagò per tutta la sera in preda all’angoscia. Scambiò i suoi vestiti con quelli di un barbone e diede un dollaro a un giovane mendicante, chiedendogli di andare in chiesa a pregare per lui. Poi lasciò Toronto, dirigendosi prima ad Hamilton, dove trascorse la notte, e poi a Brantford, da dove con il treno raggiunse Detroit, negli Stati Uniti. Stette per tre giorni in un hotel davanti al municipio, registrandosi con un nome falso. Da lì raggiunse prima Toledo, nell’Ohio, poi Chicago e infine St. Louis nel Missouri, dove maturò l’idea di costituirsi. Al momento della fuga in tasca aveva 210 dollari, tutti i suoi risparmi, oltre ai soldi che aveva ottenuto in prestito dalla banca.

    L’incrocio di Wellington con Front Street, in una foto del 1911, dove Frank Sciarrone venne ucciso da Frank Griro. (Archivio di Toronto)

    La sera del 10 agosto tornò a Toronto. «Sono Frank Griro e sono ricercato per omicidio», disse al piantone del commissariato di via Agnes, l’attuale Dundas Street. Da Detroit sei giorni prima aveva scritto una lettera al capo della polizia, preannunciandogli la decisione di porre fine alla sua fuga.

    Il poster con il quale la polizia di Toronto richiese l’assistenza del pubblico per la cattura di Frank Griro, accusato di omicidio

    Qualche giorno dopo, in carcere finiva anche Joe Musolino, per una pistola con matricola abrusa trovata durante una perquisizione nel ristorante che era stato di Griro. «Era un camorrista, confermò il Rossaro all’ispettore Walter Duncan parlando dell’uomo che aveva ucciso. «Lavorava per Musolino, l’uomo che oggi gestisce il ristorante che mi hanno costretto a vendere».

    Al processo, non si fa condizionare dalle occhiatacce dei connazionali che si erano subito stretti attorno a Musolino. «Le hanno detto quale fosse il nome dell’organizzazione a cui apparteneva e alla quale anche lei avrebbe dovuto affiliarsi?», gli chiese il suo avvocato, Thomas Cooper Robinette[2]. «Sì», rispose Griro, a testa alta. «Mi dissero che si trattava della mafia». Invitato a chiarire se la mafia e la Mano Nera fossero la stessa cosa, spiegava: «Sono tutte uguali, Mano Nera, Malavita, Mafia, Camorra».

    Durante il processo, seguito con grande attenzione dai quotidiani locali, un paio di italiani trovarono il coraggio di parlare. Un barbiere, anch’egli vittima del racket delle estorsioni, raccontò alla polizia di aver ricevuto decine di visite da parte di uomini legati alla mafia, mentre un altro, con una lettera anonima, informò gli inquirenti che alcune morti archiviate come incidenti erano invece omicidi maturati negli ambienti del pizzo.

    In quegli anni, la polizia si era rassegnata all’idea che Little Italy si trasformasse in un bubbone infetto. Le autorità si erano limitate soltanto a circondare simbolicamente il ghetto italiano con un cordone sanitario, lasciando in pratica liberi i pochi malviventi di taglieggiare la maggioranza dei loro connazionali. Che gli italiani, insomma, se la sbrigassero fra loro: l’importante era impedirne lo sconfinamento nelle zone più progredite della città. La stessa legge sembrava fatta apposta per non farsi rispettare. Gli immigrati italiani avevano trovato un ambiente ostile. E spesso erano stati costretti a subire le prepotenze dei gangster irlandesi sotto lo sguardo sornione dei poliziotti. Non c’era un agente in tutta Toronto in grado di comprendere e parlare l’italiano o i dialetti delle varie regioni e questa mancanza di dialogo aveva favorito il fiorire di organizzazioni criminali, come quella guidata da Musolino, protette dall’omertà e dalla paura.

    A rappresentare gli italiani di Toronto in quegli anni c’era una società di mutuo soccorso, intitolata a Umberto I, il re d’Italia ucciso da un anarchico italo-americano all’inizio del secondo. Il compito principale era quello di garantire assistenza in caso di malattia o infortunio sul lavoro.

    Un disegno raffigurante Joe Musolino

    Gli iscritti pagavano una quota mensile che andava depositata in una sorta di cassa mutua privata. Pochi mesi prima dell’omicidio Sciarrone, la Umberto I aveva espresso la propria indignazione per i crimini commessi da una sparuta minoranza che gettavano discredito su tutta la comunità italiana. E, con una lettera invitata al primo ministro canadese Wilfrid Laurier, in un’altra occasione, aveva sollecitato l’assunzione da parte degli uffici dell’immigrazione di una persona in grado di parlare l’italiano[3]. Come «gesto di avvicinamento del governo nei confronti degli italiani che respingono l’etichetta di assassini», era stato proposto Donato Glionna[4], un musicista molto noto a Toronto.

    Il processo per l’omicidio Sciarrone si concluse a dicembre di quello stesso anno con il proscioglimento di Griro dall’accusa di omicidio preterintenzionale. Musolino, invece, finì in carcere per detenzione illegale di arma. E, visto che nel 1909 era stato già arrestato per il ferimento di Michael Silvestro a Guelph, gli venne consegnato il foglio di via obbligatorio.

    [1]Suspect in murder case, warrant has been sworn out against Frank Griro, The Toronto Daily Star, 31 luglio 1911, prima pagina.

    [2] Cfr. Peter Edwards e Antonio Nicaso, Deadly Silence: Canadian Mafia Murders, MacMillan Canada, Toronto, 1993, pp. 13-26.

    [3] Cfr. John Zucchi, Italians in Toronto: Development of a national identity, 1875-1935, Kingston and Montreal McGill-Queen’s University Press, 1988, pp. 150-151.

    [4] Esponente di una delle famiglie più ricche e affermate della comunità italiana; il padre era proprietario di un hotel a Toronto.

    South Porcupine, Ontario, 1924

    Quella mafiosa era una pista plausibile. L’ispettore Stringer, che indagava sull’omicido Trueman, però, in mano aveva solo un proiettile calibro 32 e una serie di foto che ritraevano boss e picciotti schedati negli archivi della polizia di Thorold, Welland, Niagara Falls, St. Catharines, Hamilton e Toronto. In un altro rapporto al generale Williams, Stringer, dopo le prime indagini, così scriveva: «Di tanto in tanto, acquisisco una certezza in più sul contesto, ma indizi e fonti di prova, neanche a parlarne».

    In quegli anni, gli italiani erano considerati indiscriminatamente dei potenziali criminali o, quantomeno, gente da tenere alla larga. E molti di loro, più per calcolo, dettato dalla paura che per connivenza, preferivano tenere la bocca chiusa. «L’omu chi parra assai nenti guadagna», si dicevano per giustificare la loro diffidenza nei confronti dello Stato e, quindi, delle forze dell’ordine.

    Quando ormai l’inchiesta sull’omicidio del poliziotto sembrava

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