101 storie su Genova che non ti hanno mai raccontato
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101 storie su Genova che non ti hanno mai raccontato - Calzia Fabrizio
1.
LA GHIGLIOTTINA IN VIA DEL MOLO
Le superstizioni sembrano grandi sciocchezze, e in generale lo sono, ma almeno alcune di esse hanno una ragione storica sensata – per quanto ormai obsoleta e difficile da comprendere per i facebookisti, youtubeisti del XXI secolo.
Per esempio mettere in tavola un panino rovesciato porta sfortuna… Perché?
Quando le leggi delle nazioni europee prevedevano la pena di morte per i reati più gravi, la professione del boia aveva una certa importanza. Ma certo non era un mestiere amato e rispettato dai normali cittadini onesti o solo benpensanti
, i quali preferivano non avere nulla a che fare con quel tizio che per guadagnarsi da vivere tagliava teste e impiccava. Ebbene, quando il pane non si comperava nei negozi ma si cuoceva comunitariamente nel forno di quartiere, il fornaio metteva da parte le pagnotte destinate alla mensa del boia e spesso per evitare che si mescolasse al pane dei cittadini normali
le capovolgeva…
Nel 1806, quando Genova era parte dell’impero francese di Napoleone Bonaparte, venne nella nostra città Louis Victor Samson, di professione boia. Era figlio d’arte, il Samson, in quanto nipote di colui che ebbe l’onore – diciamo così – di ghigliottinare il re Luigi XVI e sua moglie Maria Antonietta.
Ma la sua abilità nel maneggiare la ghigliottina non gli aprì certo le porte dei salotti della città. Anzi, per dirla tutta, non riuscì a farsi nemmeno un amico e addirittura non riuscì per molti mesi a far battezzare sua figlia perché nessuno voleva farle da padrino: dovette intervenire personalmente il cardinale Giuseppe Spina.
Ormai da tempo a Genova le condanne capitali non si eseguivano più al Castellaccio, su al Righi, e si preferiva la più comoda sede dell’attuale via del Molo. Fu lì che il 13 maggio 1806 la prima ghigliottina zeneise diede spettacolo. Protagonista, suo malgrado, dello show fu tal Gio Batta Garbarino di Tribogna, giovane di 19 anni, condannato per tre furti a mano armata. Come tutte le novità, anche questo «apparecchio ha chiamato al luogo del supplizio una folla immensa di popolo», afferma il giorno dopo la «Gazzetta di Genova».
Quella del tribognino fu solo la prima di una lunga serie di esecuzioni capitali che si svolsero in via del Molo. Fra questi condannati risultano un uxoricida di Rivalta Scrivia, due tizi di Voghera «rei di aggressione sulla pubblica strada e molti ladronecci», e perfino a una donna, Angela Maria Pedemonte della val Polcevera, di anni 32, colpevole di tentato avvelenamento nei confronti del curato di Livellato. Era tantissimo tempo che non si condannava a morte una donna e ciò richiamò un pubblico foltissimo, soprattutto femminile. A tutti i condannati era comunque concesso di indossare la cappa rossa, uomini e donne che fossero.
Nel 1814, alla caduta di Napoleone, il Samson dovette lasciare Genova in gran fretta, e la sua attrezzatura professionale fu ritrovata nel 1937 in una torre di porta Soprana. Ma anziché finire in un museo, come ci si sarebbe aspettati, sparì, e nessuno sa che fine abbia fatto…
2.
UN FRATE PITTORE
Anche l’arte è un modo per lodare Dio, no? Non solo la preghiera…
Quella di Frate Bernardo Strozzi per il pennello fu una passione fortissima. Formatosi forse alla scuola del colto pittore Cesare Corte, ottenne quasi subito un notevole successo, e negli anni del monacato si vide affidare soggetti sacri per quasi tutte le chiese e i conventi della città.
Va detto che quando il mercante d’arte Giambattista Riviera gli propose di lasciare la tonaca e dedicarsi a tempo pieno alla pittura, il frate, nato nel 1581 a Genova, aveva già da tempo raffreddato gli ardori monacali che a sedici anni l’avevano portato a indossare il saio francescano nel convento di San Barnaba. Per ottenere la dispensa dai voti però non bastava accampare la scusa di dover provvedere alla mamma assai vecchia e alla sorella assai giovane (ma quanti anni aveva la mamma assai vecchia quando partorì la figlia assai giovane?): occorreva qualcosa di stupefacente. E Bernardo stupì il padre generale dipingendone il ritratto… a memoria! Insomma, ars omnia vincit, parafrasando… E così lo Strozzi fu autorizzato a lasciare il convento sino alle nozze della sorella e alla morte della madre, indossando la tonaca del sacerdote secolare: dismessi gli abiti del Cappuccino, divenne il Prete genovese
.
Sistemò il suo primo studio a Campi e sua sorella gli faceva da modella, alternandosi nei ruoli di Santa Cecilia e di Didone, o di Dalila… Ma furono tanti i committenti ricchi e famosi che lo chiamarono a lavorare nei loro palazzi cittadini; anche se qualche volta si lamentavano dei suoi tempi lunghissimi e delle spese di esecuzione troppo elevate.
Bella la vita artistica e sociale del Prete
, ma nulla è per sempre: a furia di essere vecchia la mamma morì, e la sorella trovò finalmente marito. Per Bernardo dunque era ora di tornare al convento, ma non ne aveva nessuna voglia: diceva che doveva prima finire delle opere, e intanto continuava ad accettare nuove commissioni… Tentò di convincere anche il papa, che si limitò a regalargli un crocifisso prezioso e a intimargli che entro sei mesi tornasse ai voti, se pur in un ordine meno rigido dei francescani.
Al papa non si può non obbedire, specie in tempi di Inquisizione, e Bernardo si decise per i canonici di san Teodoro, facendo però infuriare il generale dei cappuccini che lo convocò in Curia e lo fece arrestare e portare manu militari a San Barnaba. E così non fu più prete, ma di nuovo – suo malgrado – cappuccino. E prigioniero, con il divieto di vedere i parenti, che tentarono invano di liberarlo scalando le mura del convento.
Fu infine trasferito per qualche tempo a Monterosso, dove dipinse una segreta del carcere del monastero, e dove si convinse ad accettare il suo fato… Divenne infatti «zelante della regolare osservanza, assiduo nell’orazione, paziente, mortificato…».
La buona condotta del frate carcerato gli fece guadagnare la fiducia dei superiori, che gli permisero un giorno di ricevere la visita della sorella con la sola compagnia di un fratello laico… La fuga era già organizzata: Bernardo si tagliò rapidissimo la barba, indossò la tunica del Prete genovese
, e fuggì. Riuscì a imbarcarsi per Venezia, dove gli fecero ponti d’oro e dove fondò una scuola di successo. Morto nel 1644, è sepolto in Santa Fosca. Il suo epitaffio recita: "Bernardus Strotius pictor splendor / Liguriae decus / hic iacet (
Qui giace Bernardo Strozzi, splendore dei pittori, ornamento della Liguria").
3.
QUANDO GLI EDIFICI NAVIGAVANO
Questa storia inizia piuttosto lontano da Genova: era il 23 giugno 1258 e al largo delle coste della Terrasanta, durante una delle tante guerre contro Venezia, la flotta genovese (48 galee e 4 navi grosse) al comando dell’ammiraglio Rosso della Turca venne sconfitta da un’analoga flotta veneziana. I vincitori pretesero che i genovesi non mettessero piede per tre anni nella città di San Giovanni d’Acri (l’attuale città israeliana di Akko) e vi abbatterono tutti i loro edifici, anche la bella torre Mongioia. Gli Annali della nostra repubblica riportano tristemente che nelle sue fondamenta entrava ora il mare, e le barche vi attraccavano, e in segno di scherno i veneziani dicevano: «La torre dei genovesi naviga!».
Vendetta, tremenda vendetta… I genovesi la trovarono pochi anni dopo, il 25 luglio 1261, quando si allearono con l’imperatore di Bisanzio, Michele Paleologo, e grazie a ciò tutte le proprietà veneziane nella capitale dell’impero romano d’Oriente passarono di mano. Il superbo palazzo detto Pantocratore fu demolito fra squilli di tromba e i materiali preziosi impiegati nella sua costruzione navigarono alla volta di Genova e furono affidati a frate Oliverio, il monaco-architetto che stava dirigendo la costruzione del palazzo che verrà poi detto di San Giorgio. A memoria dell’originaria costruzione rimane una testa leonina – proveniente da Bisanzio – ancor’oggi presente sull’ogiva che orna la porta principale del palazzo dal lato di Banchi (e non è l’unico leone veneziano di stanza a Genova: un vero leone di san Marco è murato all’esterno della chiesa di San Marco al Molo e arriva da Pola, dove venne strappato ai nemici nel 1380. Un altro – dello stesso anno, 1380, ma proveniente da Trieste – si trova sulla facciata di palazzo Giustiniani nella piazza omonima).
Palazzo San Giorgio conserva la maggior quantità di cimeli storici della storia della nostra città. A modo suo anche questo è stato un edificio che naviga
, almeno nel senso che quando fu eretto, nella sua prima parte, quella medievale, era quasi una nave, una palafitta innalzata fra le onde. Rischiò anche di essere demolito, ma non durante le guerre contro Venezia, bensì nel XIX secolo, per i lavori di ampliamento del porto.
Per fortuna il ministro della Pubblica Istruzione, il savonese Paolo Boselli, chiese che per studiare il progetto venisse istituita una commissione, di cui facevano parte, fra gli altri, Camillo Boito e Giosuè Carducci. Saggiamente costoro decisero di non demolire nulla, considerando che il porto si sarebbe ampliato verso San Pier d’Arena. Come sarebbero oggi Caricamento e il Porto Antico se palazzo San Giorgio non ci fosse più?
4.
LE VECCHIETTE DALLA MEMORIA DI FERRO
Non so quanti genovesi conoscano davvero la chiesa di San Sisto. Forse molti nemmeno sanno dove sia. È in via Pre, sul lato mare, e ha una storia di più di nove secoli. Ma alla fine del Duecento, quando fu edificata, non era proprio com’è adesso…
Per ricostruirne la storia, bisogna tornare al 6 agosto del 1088, quando le flotte genovese e pisana alleate (allora andavano d’accordo…) sconfissero i saraceni di Mehdia, nel Marocco orientale, e ne saccheggiarono le terre. Col bottino i pisani eressero il duomo di Pisa, e i genovesi una chiesa romanica sulla marina di Pre, dedicata appunto a san Sisto, patrono di Pisa.
Non ebbe grande fama, la chiesetta marinara, sino allo scontro con i pisani e alla vittoria della Meloria nel 1284, dopo la quale ricevette annualmente un palio di broccato d’oro dal Comune, con una messa solenne in suffragio di Carlo Noceti, della corporazione dei Fabbri, che nel 1288 aveva reso possibile la definitiva devastazione del porto pisano (con relativo interramento) riuscendo a spezzare la grossa catena che ne sbarrava l’accesso. Alcuni anelli di quel catenone rimasero appesi alla facciata di San Sisto sino all’Unità d’Italia, dopodiché furono restituiti a Pisa in segno di pacificazione definitiva: ormai genovesi e pisani erano tutti sotto un’unica bandiera nazionale.
La chiesa di Pre era piccola, romanica, con pochi parrocchiani generalmente impegnati in attività marinare, come barcaioli e calafati… V’erano circa 1200 abitanti sparsi in 124 casupole nel 1660, quando la chiesetta venne rifatta in dimensioni maggiori, non più sulla spiaggia ma all’altezza di via Pre. Il vecchio edificio divenne in parte magazzino, in parte sepolcreto.
La nuova San Sisto ebbe i suoi momenti di gloria, ad esempio le nozze fra Carlo Goldoni e la genovese Nicoletta Conio, celebrate il 22 agosto 1736. Da un colpo di fulmine
venne fuori un matrimonio felice, nonostante il febbrone provocato dal vaiolo che colpì il veneziano proprio la prima notte.
Nel 1869 a San Sisto fu battezzato Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta (non lo showman erede di Casa Savoia, bensì un suo quasi omonimo antenato, generale della prima guerra mondiale), ma ciò avvenne nel terzo San Sisto, quello del rifacimento ottocentesco, aperto al culto il 15 novembre 1828 con una grandiosa cerimonia cui parteciparono anche, come parrocchiani, il re Carlo Felice e la regina Maria Cristina, che dimoravano nella regia dimora in via Balbi.
Fra le tante piccole e meno piccole opere d’arte, ci permettiamo di menzionarne solo una, più per la storia che le sta dietro che per il valore artistico: è il marmo che ricorda don Gerolamo Lercari, ucciso il 26 dicembre 1601 mentre celebrava la messa. Nonostante la taglia di 200 scudi d’oro, l’assassino rimase ignoto per molti anni, e il movente del delitto non si capì mai.
C’è una tradizione che sostiene che l’assassino si recò a Roma a chiedere la grazia al papa ma ne ottenne solo una profezia: «Ove facesti il male, farai la penitenza». Infatti, quasi cinquanta anni dopo il fattaccio, egli tornò a Genova. Stava camminando intorno a San Sisto quando fu visto da due vecchiette (erano giovani, al tempo del preticidio), dotate di una memoria veramente eccezionale, che lo riconobbero e lo denunciarono. Fu impiccato poco dopo, non lontano dalla chiesa.
5.
ANDREA PODESTÀ, PRIMO SINDACO D’ITALIA
Era il 1863 ed erano in corso le elezioni comunali: fra i candidati a consigliere del Comune di Genova c’era un giovane quasi sconosciuto. Non era proprio un signor Nessuno visto che era un avvocato, di buona famiglia – anzi, era barone per via del titolo ottenuto da suo padre, ex colonnello della Grande Armata napoleonica – ed era già stato sindaco del piccolo comune di San Francesco d’Albaro, ma tutto questo contava poco nella società della ex repubblica marinara.
Nonostante i pronostici a lui sfavorevoli, il sindacarello
Andrea Podestà fu eletto, e l’anno dopo divenne assessore ai lavori pubblici, per ottenere infine nel 1866 la carica di sindaco. Giovane – solo 34 anni – portava un paio di lunghe basette (scopettoni
, in gergo tecnico) che gli davano una certa aria autorevole. Era di idee moderate ma ebbe mentori di vario orientamento politico, come il repubblicanissimo Giuseppe Carcassi: Anton Giulio Barrili, altro suo amico, dice che apparteneva a una cerchia di persone «non tutti di un pensare in politica ma tutti di un sentire per l’utile di una grande città». E ciò, per essere un buon sindaco, è quello che serve.
Podestà ricoprì la carica di primo cittadino per tre volte, tra il 1866 e il 1873, tra il 1883 e il 1887 e tra il 1892 e il 1895, anno in cui morì. Divenne amico dei re Vittorio Emanuele II, che lo chiamava sindich, e di Umberto I, che lo considerava il primo sindaco d’Italia
.
Passò alla storia della città per essere stato il grande – e saggio – modernizzatore di Genova: nel 1873 iniziò l’opera di allargamento degli angusti confini comunali accorpando i piccoli comuni di San Francesco d’Albaro, Foce, San Fruttuoso, Marassi, Staglieno, San Martino d’Albaro e vagheggiando la Grande Genova da Voltri a Nervi, realizzata poi da Mussolini nel 1926.
Poi si dedicò alla complicatissima e tuttora irrisolta questione della viabilità cittadina, con la creazione di nuove strade di grande viabilità e l’apertura di nuove aree fabbricabili. Faccende mica facili, vista l’arzigogolata orografia della Superba e dei suoi dintorni… Alle fasce coltivate e agli oliveti delle colline a monte del centro – che stava per diventare storico
– si sostituirono i viali e i palazzi borghesi delle circonvallazioni a Monte e a Mare, e pazienza se qualche conservatore ottuso (ce ne sono sempre troppi, a Genova) lo chiamava l’Energico
pensando di denigrarlo: divenne il suo soprannome per i tanti che lo sostenevano.
Certo, le polemiche non mancavano, come quando si dovette aprire via Roma: c’erano i curvilineisti e i rettilineisti. I primi volevano salvare la chiesa cinquecentesca di San Sebastiano tracciando un’ampia curva; gli altri – furono i vincitori – propugnavano la brevità della linea retta (e pazienza per la chiesa antica: ce ne sono tante altre in città)…
Il motto del sindaco era distruggere per modernizzare ma salvare l’antico che lo merita; come il palazzo San Giorgio, che era a rischio di demolizione per l’ampliamento del porto, o i portici di Sottoripa, di cui iniziò il restauro.
Divenne anche – en passant – membro della Camera dei Deputati dal ’67 all’83 e poi senatore, e anche a Roma si batté per la sua città.
Sarebbe ancora assai lunga la storia
del grande sindaco, troppo lunga per le pagine di queste piccole storie… Per ora basti ricordare cosa disse di lui l’amico Paolo Boselli, savonese, ministro della Pubblica Istruzione: «Un Doge dei secoli gagliardi, risorto ad affermare Genova nei tempi moderni».
6.
IL SACRO MANDILLO PARLA GENOVESE
Edessa è una storica città dell’Assiria, oggi in Turchia, e durante alcuni periodi della sua storia fu capitale di un regno che fungeva da Stato cuscinetto fra gli imperi di Roma e di Persia. Si narra che il re Abgaro (siamo nella prima metà del I secolo d.C.) fosse malato di lebbra e, avendo sentito