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Il Luna Park dall'Ordine Imposto
Il Luna Park dall'Ordine Imposto
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E-book400 pagine5 ore

Il Luna Park dall'Ordine Imposto

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Info su questo ebook

Sassari è sempre stata una città tranquilla. Il lento scorrere del tempo ha reiterato eventi sempre identici, uguali a sé stessi, placidi e ripetitivi, tranquilli e noiosi. A Sassari tutto appare per quello che è, senza lati oscuri e con pochissime penombre. Nelle sinuosità di quella magia (o di quel calvario), si aggira come uno spettro l’assassino di Elsa Angioi, uccisa nello studio medico in cui lavora con incredibile, disumana violenza. È il 6/6/1992, l’Italia è scossa dalla strage di Capaci e l’indagine dell’omicidio di Elsa Angioi viene affidata allo scafato ispettore Toschi, arguto, pignolo e zelante e nello stesso tempo disordinato e malvestito. Una pipa che fuma in continuazione, la convivenza forzata con la sorella, le canzoni di Francesco de Gregori, la sua finissima osservazione e l’incredibile abilità lo accompagnano in un’indagine più complessa del previsto, che si estende fino ai paesi di Ossi e Siligo e alla città di Olbia, e che lambisce persone al di sopra di ogni sospetto.
LinguaItaliano
Data di uscita9 ago 2022
ISBN9791221384413
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    Anteprima del libro

    Il Luna Park dall'Ordine Imposto - Paolo M. Sanna

    Il Luna Park dall’ordine imposto

    A Nada Cella e a tutte le ragazze che sono con lei

    Capitoli

    1: Sogni

    2: Sonno Eterno

    3: Lati Oscuri

    4: Via Risorgimento

    5: Nessun Rumore, Nessuna Vibrazione

    6: Bar Rally

    7: Ombre

    8: Corto Circuito

    9: Piccola storia ignobile

    10: Decettività

    11: 359509

    12: Eremitaggio

    13: Segreti

    14: Ossi

    15: L’uomo in blu

    16: Tristezza e Novalgina

    17: L’uomo che (forse) sapeva troppo

    18: Testimone a sorpresa

    19: Caccia all’uomo

    20: Il signor Hood

    21: Avvenimenti poco sinistri

    22: Montelepre

    23: Via Milano

    24: Vicolo Cieco

    25: La chiave di volta

    26: Il Luna Park dell’ordine imposto

    27: Il sacro graal del poliziotto

    28: La fine

    Prefazione

    Per esemplificare il caldo e il vento di una giornata di luglio sassarese potrei affidarmi a Bob Dylan e alla sua Romance in Durango e scrivere peperoncini rossi sul sole cocente, polvere sul viso e sul cappello; il sole era infatti un nemico invulnerabile, il vento un rivale molesto che soffiava incessantemente su Sassari da tre giorni: il famoso maestrale che in base alle teorie di mio nonno dura tre, sei o nove giorni. Seduto al tavolo di un bar impersonale (cit.), schivando caldo, vento e insetti ˗ indomabili nella loro audacia di infilarsi nel bicchiere di vino ˗ attendevo con impazienza l’uscita de Il Caso Tyler Cook. Il Covid-19 soverchiava ancora le nostre esistenze e le restrizioni permanevano, sicché ero molto combattuto se organizzare delle presentazioni pubbliche del romanzo oppure limitarmi a farlo sui social…bell’alternativa del cazzo, insomma.

    Sassari, in estate, è sempre stata una città elegiaca, brulla e distopica come l’Algeri descritta da Camus in Lo Straniero o la città illusoria in cui è ambientato Il Processo di Kafka. È in tale coacervo mistico, infuocato, noioso e ventoso che mi è venuta voglia di ambientarci un nuovo romanzo. Un giallo per la precisione, con un saluto momentaneo alle ambientazioni statunitensi dei precedenti romanzi e un tuffo in quelle a me care (si fa per dire) e conosciute.

    Dalla fine della stesura de Il Caso Tyler Cook era passato un anno, in cui è successo di tutto: conflitti bellicosi tra Usa e Iran, meteoriti impazziti che minacciavano collisioni terresti, eruzioni del Monte Taal e del Krakatoa, incendi infernali in Australia e nelle aree limitrofe di Chernobyl, invasioni apocalittiche delle locuste in Africa e delle cavallette in Sardegna. Insomma, un mondo alla deriva.

    Io, frattanto, avevo smesso i panni di infermiere di campagna per indossare fortunatamente (vivaddio!) quelli di vero infermiere, a Sassari. I film consumati sempre tantissimi, millanta i libri divorati, numerosi i documentari visti e rivisti: da Billy Wilder a David Lynch, da Dennis Lehane ai saggi illumina(n)ti di Giovanni Fasanella e Stefania Limiti, da Dark Side a Blu Notte. In una delle puntate della trasmissione di Carlo Lucarelli mi sono imbattuto in un misterioso caso di omicidio, il delitto di via Marsala a Chiavari, avvenuto la mattina del 6 maggio 1996, ove è stata uccisa una giovane ragazza, Nada Cella. Quel documentario, quel brutale omicidio, quella ragazza che troppo presto ha salutato la vita terrena, mi ha spinto a informarmi dettagliatamente su tutte le contingenze che hanno caratterizzato il mistero di via Marsala: ipotesi, sospetti, movente, sospettati e tutto ciò che si conglobava nella vita di Nada. Contestualmente, anche per ricordare il delitto di Chiavari, affinché non cadesse nel dimenticatoio come altri delitti irrisolti italiani, è nata l’idea di scrivere un romanzo in cui la vittima fosse una giovane donna come Nada e le dinamiche dell’omicidio le medesime. Quindi, un romanzo da inquadrare nei gialli classici e non nel thriller/noir come le mie precedenti opere.

    Il caldo, il vento e il bar impersonale di Sassari mi hanno fornito l’ispirazione per l’ambientazione, il delitto di Chiavari il palcoscenico sanguinoso. Mancava il protagonista, il filo guida si cui imperniare il romanzo e costruirci intorno una fitta tela di misteri difficili da dissacrare. Le idee per caratterizzare il protagonista erano tantissime: dal bello e impossibile allo scaltro e arguto, dal Vincent Hanna di Al Pacino al Frank Bullitt di Steve McQueen, ma alla fine la scelta è caduta su un antieroe, apparentemente disattento e sciatto, dotato di una propensione innata all’idiosincrasia sociale e al nichilismo, con un amore inesausto per Francesco de Gregori e il Milan (vi lascio immaginare da chi ho preso spunto per questa peculiarità). Lui è semplicemente l’ispettore Toschi, colui che in un bollente giugno del 1992 proverà a dare un volto all’assassino di una giovane segretaria. Perché il 1992? Perché ricordare gli anni che ho vissuto da piccolo mi aiuta a tenermi giovane e poi, non da meno, considero quell’anno come lo spartiacque della moderna storia italiana.

    È notizia dei giorni in cui scrivo questa prefazione che il caso Nada Cella è stato riaperto. La speranza è quella che il vero colpevole sia consegnato alle patrie galere e che la famiglia della povera ragazza di Chiavari trovi finalmente giustizia.

    Mi fermo qui, anche perché le prefazioni lunghe sono estenuanti quasi quanto una giornata di luglio sassarese.

    Paolo M. 18/01/2022

    1

    Sogni

    Roma, 2 Maggio 1963…

    Un sogno alla base di tutto.

    Fu un sogno a occasionare uno dei delitti più impenetrabili della Roma degli anni Sessanta, raccontata in maniera impeccabile da Fellini ne La Dolce Vita, una Babilonia del jet-set, culla circense di nevrosi, drammi, aspirazioni, caricature espressive, rotocalchi e fotoreporter, immersa nel grande mare scuro della mondanità, dell’egocentrismo radical chic, delle scorribande emotive e lussuriose di aspiranti stelle del cinema, ove il crollo di valori e religiosità fungeva da battigia, sommersa un momento sì e l’altro pure.

    Roma era l’epicentro dei sogni, e il sogno di Christa Becker era quello di diventare un’attrice. Biondo platino, occhi acqua caraibica, sguardo glaciale su un viso d’angelo, arrivò da Monaco di Baviera con una valigia di speranze e un bagaglio di illusioni.

    L’Ispettore Toschi approdò nella capitale nel dicembre del 1961 dopo aver vinto a Sassari un concorso per entrare nella Polizia di Stato italiana. A invogliarlo ad arruolarsi un sogno, quello di entrare a far parte della squadra mobile e magari della divisione criminale, l’illustre Criminalpol, creata in quei tempi dal prefetto Angelo Vicari, alla guida della Polizia italiana dai disordini di Genova del 30 giugno del 1960. Erano gli anni del boom economico, della costruzione di grattacieli e palazzi, dello sviluppo tecnologico, degli incrementi del reddito, della scoperta del metano e degli idrocarburi, dei televisori, della televisione, di Lascia e raddoppia, di Mike Bongiorno, di Let’s twist again, delle lavatrici, dei frigoriferi, ma anche degli scioperi della classe operaia, delle contestazioni studentesche che avevano poi trovato il loro apice nel Sessantotto e nell’autunno caldo del ’69, degli anni di piombo, della nascita dei servizi segreti deviati di matrice Nato, del golpe De Lorenzo, degli scandali del SIFAR e della comparsa dei primi atti di terrorismo. Un decennio in cui entrare nelle forze dell’ordine era una mission ardua, dettata dai sogni o da un marcato senso di nazionalismo, talvolta talmente marcato da sfociare in isterismi destrorsi e fascisti, propri del passato inglorioso italiano.

    Il sogno di Toschi si era ben presto materializzato nella realtà caotica di Roma, ben lontana dalla placidità di Sassari, ove il giorno successivo era sempre uguale a quello precedente e i tramonti non si macchiavano del sangue versato dalle vittime di omicidi misteriosi o atti di terrorismo sociale; Sassari aveva creato un sodalizio inconcusso con la requie della sicurezza e dell’ordine pubblico; Sassari era come un film francese, in cui raramente accadeva qualcosa di importante.

    Dopo due anni trascorsi a Ostia a respirare odore di mare e di spaghetti con telline e imparare le tante sfaccettature della professione, cangianti come perle di un brillante sotto la lente attenta di un gemmologo, Toschi venne trasferito alla questura di Roma, nell’ufficio della squadra mobile.

    Un sogno che si esaudiva.

    Il sogno di Christa Becker si interruppe il 2 Maggio 1963, a causa di un’aggressione e di una ventina di coltellate, inferte da una mano sconosciuta davanti all’ingresso di un appartamento al quarto piano di un edificio sito in via Emilia 81, alle spalle della più nota via Veneto, la via dei caffè e degli attori, dei cantanti e delle celebrità; la via della dolce vita e de La dolce vita.

    Purtroppo, non le bastarono le presunte frequentazioni con rappresentanti del giro grosso di Cinecittà e della finanza ad allontanarla dalla ferocia del suo assassino.

    Paradossalmente, la avvicinarono.

    A indagare sul caso, la squadra mobile della questura di Roma, guidata da Domenico Mancini.

    Il primo caso di omicidio di un giovane agente Toschi.

    L’indagine si caratterizzò per la totale mancanza di indizi certi, per la reticenza di personaggi illustri nel collaborare con gli inquirenti e per il coinvolgimento di politici, servizi segreti deviati ed esponenti della destra estrema.

    La vittima si trovava nello stabile di via Emilia per trovare un’amica austriaca, Anja Gruber. Fece appena in tempo a scendere dall’ascensore quando una slavina di coltellate la privarono della vita e dei sogni.

    Cercando aiuto, suonò il campanello dell’appartamento dell’amica.

    Nessuno aprì.

    L’aggressione avvenne tra le 14.30 e le 14.45 e le urla disumane della vittima attirarono l’attenzione di tutti gli inquilini dello stabile che in venti minuti diveniva una ridda di poliziotti, curiosi, giornalisti, cronisti e fotografi.

    Anja Gruber aprì la porta soltanto alle 15.30.

    «Dormivo profondamente e non ho udito niente» affermò in seguito.

    «Mi ha svegliato la sirena dell’ambulanza; pensavo quasi di sognare, poi ho sentito un frastuono provenire dalle scale e qualche minuto dopo mi sono resa conto che bussavano alla mia porta…»

    2

    Sonno Eterno

    Sassari, 6 Giugno 1992.

    Osservò l’orologio. Era uno Swatch con il cinturino verde, le lancette azzurre e la platina degli ingranaggi ben visibile sul quadrante. Erano le 8.26.

    Il giradischi che si trovava nello scrittoio ottocentesco emetteva ad alto volume Amoreena di Elton John e il disco con la copertina stinta e lisa dall’incedere del tempo era adagiato sopra la tastiera del computer, un Personal Olivetti di recente acquisizione da parte dello studio medico. Accanto al disco un calendario da tavolo in cui erano annotati gli appuntamenti della giornata. La prima paziente doveva essere visitata alle 9.15, ammesso che il dottor Ruggiu, il titolare dello studio medico, fosse arrivato puntuale; mai, da quando aprì lo studio, cinque anni addietro, era arrivato una sola volta in orario. Era bravo quanto ritardatario. La paziente annotata alle 9.15 era la signora Scanu, un’habitué dello studio per via di una gonartrosi bilaterale cronica.

    Si osservò nello specchio a parete rettangolare, posto nella parete dinnanzi lo scrittoio: lo sguardo era una trasposizione umana di ansia e apprensione, i capelli cadevano scarmigliati sulla fronte, nella guancia il segno di uno schiaffo inferto da chissà chi, dalle spalle si innescava un tremolio che arrivava fino alle mani, ondeggianti come palmizi scossi dal maestrale, la camicia a quadri rossi e verdi simile a una delle tante utilizzate da Kurt Cobain durante i concerti era imbrattata di sangue, così come i Roy Roger’s scuri. Stette attento a non mettere i piedi nella pozza di sangue, così che le sue scarpe non disseminassero impronte ovunque, viceversa la Polizia lo avrebbe smascherato immediatamente: non tutti calzavano il 46 di piede e le tracce lasciate dalle Air Jordan erano facilmente riconoscibili.

    Simulare una rapina poteva depistare le indagini degli inquirenti e condurle dove sperava. A un punto morto.

    Cosa poteva rubare un ladro in uno studio medico?

    Non pensare troppo. Datti una mossa pensò in lingua lombarda.

    Scaraventò nelle piastrelle esagonali del pavimento la tastiera del computer e il contenuto dei cassetti dello scrittoio ˗ fatture, ricettari, penne e opuscoli medici, nonché il calendario da tavolo degli appuntamenti, un mastodontico prontuario farmaceutico, la borsetta della donna e un barattolo in vetro ove albergavano graffette metalliche che si disseminarono in ogni pertugio della stanza.

    Si mosse a ritroso nel corridoio, osservò come per istinto il poster di un corpo umano sezionato anatomicamente che sembrava appeso lì per scrutare ogni suo movimento, e ribaltò una pachira acquatica e due vasi che riposavano in un tavolo vetrina. I vasi si frantumarono in millanta pezzi che si confusero con le graffette metalliche, disperse anch’esse nel corridoio.

    Lo studio del dottor Ruggiu venne sconquassato completamente, la libreria spogliata da volumi, atlanti e riviste mediche, la foto che lo immortalava insieme a una donna molto più giovane di lui, probabilmente la nuova fidanzata, scaraventata in corridoio, i presidi medici utilizzati durante le visite scagliati sopra la libreria.

    Poteva bastare.

    No, invece.

    Un’ultima mossa.

    Si recò nell’andito, capovolse alcune sedie, aprì il frigo ed estrasse una bottiglia d’acqua riempiendo successivamente due bicchieri posati in un tavolo accanto e li sistemò sopra lo scrittoio della stanza della segretaria…la stanza di Elsa.

    Le persiane delle finestre erano aperte, probabilmente fu Elsa ad aprirle quando arrivò nello studio. Il caldo sole di giugno, che spuntava dietro il grattacielo di piazza Castello, si abbatteva docilmente sull’ultimo piano del palazzo di via Risorgimento, penetrando nell’appartamento mediante le tendine in nylon rosa. Tutto si colorava di rosa, pareva quasi una casa incantata di una fiaba per bambini e non un appartamento in cui era stato appena commesso un efferato omicidio.

    Diede una fugace occhiata oltre le tende.

    Lo stabile di fronte sembrava abbandonato e le finestre chiuse gli indussero un senso di distensione: nessuno lo aveva visto, né all’interno del palazzo dello studio medico, né in quello oltre le tende in nylon rosa.

    Voleva dare un ultimo saluto a Elsa prima di sparire nelle sinuosità del palazzo, di Sassari e del mondo.

    Un ultimo saluto alla donna che pensava, anzi ne era certo, sarebbe diventata la sua compagna di vita, la madre dei suoi figli, la sua sposa.

    Nessuno era in grado di predire il destino, sempre pronto a rimestare le carte in tavola ed estrarre dei jolly imprevedibili capaci di capovolgere il corso degli eventi, marchiandoli in due grandi gruppi, quello del gaudio e quello del dolore. Elsa pescò il jolly nero, più nero degli abissi oceanici, la carta del dolore, che la condusse a una morte straziante, agonizzante. 

    Si mosse in direzione del bagno.

    Il viso di Elsa iniziava a colorarsi di morte, aveva i capelli neri come la mente di un assassino, intinti del sangue fuoriuscito dalla ferita nella regione frontale. Chissà se anche dopo la morte quei capelli avrebbero mantenuto la stessa lucentezza. E la morbidezza, tratto sublime di quella chioma che Elsa sfoggiava con grazia innata, avrebbe resistito alla morsa del sonno eterno?

    La ragazza stava bocconi innanzi al water, con le gambe ormai intirizzite che sbattevano sul bidet; nella camicia di seta erano visibili tre squarci all’altezza della zona toracica, corrispondenti ai punti di accesso della lama del coltello, la pozza di sangue ora si era estesa fino al lavabo e fino a metà della vasca, che correva parallela alla parete lunga del bagno. Purtroppo non riuscì a vederle i grossi occhi neri, ma il ricordo delle tante serate passate a osservarli lo avrebbe accompagnato di lì in poi.

    Si inerpicò sui bordi della vasca, a tratti esenti dagli schizzi di sangue, si chinò sulla vittima, le afferrò il dito della mano destra e sulla base del water scrisse la lettera O.

    «Addio, mia amata» sussurrò poco prima di uscire definitivamente dal bagno, la babele dello studio, il luogo del massacro.

    Aprì il portone e fiutò che al sesto piano non passasse nessuno.

    Chiuse la porta dietro sé, spalancò l’udito alla tromba delle scale così da capire se il palazzo si stesse animando.

    Poi un dubbio amletico: prendere o non prendere l’ascensore?

    Nel dubbio premette il tasto di chiamata.

    3

    Lati Oscuri

    La radio del Bar Santa Maria eruttava Hanno ucciso l’uomo ragno degli 883.

    Erano diversi mesi che la canzone del gruppo pavese spopolava ogni emittente radiofonica e gli adolescenti la ascoltavano in continuazione. Adolescenti e non solo, dato che Guido Benni, il capataz del bar che si affacciava sulla piazza della chiesa di Santa Maria di Betlem, all’inizio di corso Vico, era ormai vicino alla pensione. Una vita intera, quasi cinquant’anni, a servire caffè e San Martino e a versare cannonau e abbardente, osservando la facciata a capanna in arenaria della chiesa e dibattendo di Torres, Milan e di DC o PC con i clienti fissi del locale, un abituro con la volta a botte, le pareti divorate dall’umidità e tappezzate di poster di Pietro Paolo Virdis e del Milan di Rocco e Sacchi, il pavimento in parquet succedaneo e i tavoli e le sedie in ferro battuto.

    In uno dei tavoli, sotto il poster del Milan che nel 1989 vinse la Coppa Campioni contro lo Steaua, sedeva l’ispettore Toschi. Capelli fitti come la scighera lombarda, spettinati all’inverosimile, abito ragnato color carta da zucchero con due pezze mastodontiche sui gomiti e scarpe Lumberjack marroni, era ingobbito sul Corriere dello Sport e ne leggeva attentamente la parte riservata ai trasferimenti della Serie A.

    «Se è vero che acquistiamo Papin e Lentini, il prossimo anno punteremo a confermarci in campionato e, soprattutto, alla quinta Coppa Campioni» esclamò.

    Guido non rispose, canticchiava ‘tutto ad un tratto la porta fa slam, il guercio entra di corsa con una novità’, e sistemava su un vassoio tre bicchieri di Cinzano Bianco.

    «Io starei attento alla Juventus. Con Vialli e il centrocampista tedesco ci daranno del filo da torcere» disse Guido dopo aver servito il vermouth a tre anziani clienti.

    «M’hai fattu dui cuglioni cummenti li mirinzani di Logulentu, fabbidendi di PDS¹. Mettiti in testa che in Italia vincerà sempre la DC» urlò uno dei tre anziani.

    «E tu vedrai che questo Di Pietro farà casino» rispose il più giovane dei tre, già ottuagenario.

    «Ma gosa gazzu sei dizzendi². Chi tocca la pupa diventa padrino: quello appena vede due soldi chiude il caso.»

    Toschi, ascoltando l’alterco politico dei vecchi bevitori di Cinzano, profuse una risata, abrogandola con un morso al labbro inferiore.

    Erano anni che prima di prendere servizio faceva colazione al Bar Santa Maria e ogni giorno quei tre vecchietti tracannavano vermouth dalle otto del mattino, discutendo dei temi più disparati.

    Certo, l’indagine condotta dalla Procura di Milano dopo l’arresto del mariuolo isolato Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio ed esponente di punta dei socialisti milanesi, colto in flagrante mentre intascava una tangente, non era da annoverare nel comparto temi disparati, dato che poteva assestare un duro colpo alle istituzioni e rovesciare un equilibrio politico che durava ormai da cinquant’anni. I politici, però, parevano tranquilli, come se l’indagine fosse solo un grattacapo lillipuziano, di poco conto. Una mera minuzia. Ma a Toschi non interessava la politica, la trovava noiosa, un coacervo di interessi, false promesse, propaganda e tornaconti personali, un turbinio di disonestà, viltà e canagliume che ben aveva imparato a conoscere nei vent’anni di servizio a Roma.

    DC, PC, PSI, MSI…tutte sigle per mascherare malcostume e corruzione pensò mentre ritornava al Corriere dello Sport.

    «A me spaventa più l’Inter» esclamò poco dopo, «Sosa, Shalimov e Sammer sono grandi acquisti e la Lazio…oh la Lazio, che grande squadra che sta tirando su.»

    Guido Benni annuì, tornò dietro il banco, si approssimò al grosso radione che teneva accanto alla cassa e premette il tasto rewind. Pochi secondi dopo Hanno ucciso l’uomo ragno edulcorava i timpani del barista e sfiancava quelli di Toschi.

    «Che c’è, ispettore? Non mi dica che non le piace questa canzone? È orecchiabile…suona al punto giusto. Non come quei melodrammi di canzoni del suo De Gregori» fece Benni.

    Muoveva il capo su e giù, sulle note della canzone degli 883.

    «Signor Benni, se paragona nuovamente le canzoni di De Gregori a queste canzonette qua mi vedrò costretto a cambiare bar e frequentare il Cafè Garibaldi dell’emiciclo» rispose Toschi sghignazzando.

    «Non le conviene. Quello è un covo di interisti.»

    Toschi, bevuto l’ultimo sorso di San Martino, sgusciò via dal tavolino e lasciò cadere sul banco le ottocento lire del caffè.

    Si congedò dal Bar Santa Maria alzando un braccio in segno di saluto.

    Erano quasi le nove del mattino di un sabato torrido e stava per iniziare un’altra giornata di lavoro. La squadra mobile di Sassari non conosceva riposo e indagava su alcuni individui che frequentavano il Flipper, uno dei bar più ambigui della città, sospettati di essere coinvolti nel rapimento di un minore.

    Attraversata piazza Santa Maria, Toschi montò sulla sua Lambretta rossa e si diresse in via Giovanni Maria Angioy, doveva aveva sede la questura di Sassari.

    Sassari non era una città particolarmente caotica, difficilmente si generavano ingorghi stradali come a Roma, e la si attraversava in soli dieci minuti. Toschi, però, preferiva muoversi con la sua motocicletta, anche perché la sorella, con cui viveva dal giorno in cui fece ritorno nell’isola, gli vietava l’acquisto di un’automobile: v’erano ancora da pagare il mutuo e la mobilia della casa. Se proprio dovevano preventivare un ulteriore investimento era per una casa in campagna nei pressi di Sant’Orsola, un quartiere della periferia nord della città. Toschi obbediva alla sorella come una recluta obbediva a lui, sicché accantonò definitivamente l’idea dell’acquisto di una vettura, seppur la Renault 19 cabriolet gli stuzzicasse parecchio la fantasia automobilistica.

    Raggiunse la questura in pochi minuti, lasciando la Lambretta nei parcheggi di piazza Università, ove aveva sede l’Università degli studi della città, nata nel 1592. La piazza era dominata dal Palazzo dell’Università, storica costruzione progettata nel 1611e costruita vicino alle mura della zona sud della città, in un territorio fino a quel momento utilizzato come discarica. Quella mattina, il palazzo dell’Università era deserto ˗ il sabato gli studenti riposavano, ad eccezione di alcuni giardinieri che curavano il cortile interno e del custode, il signor Giorgio, che tinteggiava il cancello di ingresso. Toschi, come faceva ormai da anni, lo salutava con un inchino da domatore e il custode rispondeva con il saluto militare. Dei gesti consolidati dal tempo che i due ripetevano ogni mattina quasi fossero degli automi.

    I giardini pubblici, dei veri polmoni di una città che di verde ne conosceva ben poco, pullulavano di uomini anziani intenti a leggere La Nuova Sardegna e discutere di politica, di Oscar Luigi Scalfano neo Presidente della Repubblica e della guerra in Bosnia; qualche passeggino transitava nelle mulattiere in ghiaia e i pianti dei neonati interrompevano le nenie politiche degli anziani e il ciondolare noioso e stanco delle papere nelle fontane che velocemente scappavano in direzione ostinata e contraria.

    «Mamma chissà se valeva la pena, fare tanta strada ed arrivare qua, la gente è la solita e non cambia scena, la stessa che ho lasciato tanto tempo fa» canticchiò a bassa voce Toschi.

    Erano i versi de La Ragazza e la miniera di Francesco de Gregori, e Toschi la canticchiava ogni qualvolta gli si presentava davanti una reiterazione di vita, di tempo o di luogo, ovvero il dipanarsi di eventi sempre identici. Quella, invero, era la magia o il calvario di Sassari: era sempre uguale a sé stessa, placida e ripetitiva, tranquilla e noiosa, ove tutto appariva per quello che era, senza lati oscuri e con pochissime penombre.

    Sulle scale della questura si imbatté in Fausto Lai, un ex agente della stradale, ora in pensione, che quotidianamente faceva visita agli ex colleghi. La pensione si era abbattuta su di lui come una sciagura, e pur di non stare in casa insieme alla moglie e alla suocera preferiva continuare a puzzare di sbirro e bazzicare i muri che aveva annusato per anni.

    Scambiarono due parole circa l’attentato mafioso di Capaci, che tredici giorni prima causava la morte del magistrato Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Mentre Lai malediceva Totò Riina e chiunque avesse organizzato la strage, dalla questura uscirono rapidamente tre agenti della terza sezione della mobile, quella dei reati contro le persone. Contemporaneamente, le sirene delle volanti intonavano la loro sinfonia squillante.

    «Ispettore Toschi, giusto in tempo. Ci hanno appena chiamati da uno studio medico in via Risorgimento. La segretaria è stata trovata nel bagno dello studio, immersa in una pozza di sangue. Il commissario arriverà a breve. Ci ha ordinato di cercarla e recarci sul posto insieme a lei» disse uno degli agenti. 

    «Chi ha scoperto il cadavere?» domandò Toschi.

    Volse lo sguardo in direzione di via Risorgimento, il punto in cui si materializzava uno dei pochi lati oscuri di Sassari.

    «Il titolare dello studio medico, un ortopedico, il dottor Orazio Ruggiu.»

    Mamma chissà se vale la pena, fare tanta strada ed arrivare qua... canticchiò tra sé e sé Toschi.

    A passo spedito attraversò viale Mancini per raggiungere il luogo dell’ipotetico misfatto.

    1: Parlando di PDS mi hai fatto due coglioni grandi come le melanzane – In dialetto sassarese

    2: Ma cosa stai dicendo ˗ In dialetto sassarese

    4

    Via Risorgimento

    La chiamata in questura venne fatta alle 9.01 e alle 9.05 l’ispettore Toschi e i tre agenti calcavano a passo svelto via Rolando.

    Passarono dinnanzi al liceo classico e udirono lo sciame di voci provenire dalle varie imposte: la scuola volgeva al termine, il destino scolastico di molti studenti era segnato da mesi di duro studio. Coloro che avevano edulcorato il proprio libretto con voti buoni o discreti potevano distendersi, i meno bravi espletavano le ultime fatiche, alla ricerca di un sei in greco o in latino o della risposta fatidica al teorema ‘Dante era un uomo libero, un fallito o un servo di partito’.

    Compagno di scuola, compagno per niente, ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu? pensò Toschi.

    Osservava il liceo classico.

    Nessuna canzone se non quella di Venditti poteva conciliare il bellissimo ricordo della scuola con l’efferatezza del tempo che veloce e inesorabile correva via come un treno dentro una galleria: erano passati trentaquattro anni dall’ultima volta che Toschi mise piede in quell’istituto ed erano trascorsi così velocemente che riusciva a rimembrare i sorrisi dei compagni di classe, i loro profumi, le indecisioni, le paure per il primo tempo della vita, quello dell’adolescenza, che si concludeva e lasciava le porte al secondo tempo, quello della maturità, contraddistinto da un'unica missione: provare a essere veri uomini.

    Il baccagliare del liceo classico si attutì all’incrocio con via Muroni, battuta solo da una signora anziana, ingobbita da alcune buste della spesa e da un cane che la seguiva. La facoltà di farmacia era chiusa o così sembrava: le gradinate dell’ingresso, normalmente rigurgitanti di studenti immersi in fumi di sigarette, in fiumi di parole e in nimbi di agitazione pre˗esame, riposavano tranquille nell’ombra mattutina non ancora soverchiata dal caldo sole di un’estate iniziata troppo in fretta. I ventisette gradi ne erano la testimonianza.

    Attraversata via Rolando, Toschi vide correre in direzione contraria alla sua un ragazzo quindicenne che utilizzava un piede per stare in equilibrio sopra una tavola rettangolare provvista di due ruote anteriori e due posteriori, mentre con l’altro si slanciava e si spingeva. L’ispettore e alcuni senzatetto in fila alla mensa della Caritas, ansiosi di ricevere cibarie mattutine, guardarono il ragazzo con aria sorpresa ed esterrefatta.

    «Si chiama skateboard, ispettore. È uno sport praticato negli Stati Uniti che ora si sta diffondendo anche in Italia. Quello appena passato è uno dei primi skater che vedo qui a Sassari» fece l’agente Melis, accortosi dello stupore palesatosi nell’espressione di Toschi.

    «Minca mia in unu bottu e punciasa¹. Ma tutta questa gente qua ammassata che cazzo ci fa?» esclamò poco dopo.

    Fuori dal portone del palazzo dello studio medico vi era una ridda di persone scalmanate, ammassate tra di loro.

    Gli agenti erano arrivati nel palazzo del misfatto, una struttura di sei piani costruita in stile bolognese, ingraziosita da portici progettati in stile rinascimentale, indorati da una pavimentazione in marmo lucido, che si estendevano ad angolo in via Rolando e in via Risorgimento.

    Nei pressi del portone del palazzo, sostavano un’ambulanza con le sirene accese e il sonoro silenziato e le due Lancia della volante, circondate da ragazzi indiscreti che ne osservavano gli interni; le donne presenziavano al limine della soglia del portone e confezionavano ogni genere di ipotesi, ‘è caduta da sola, è stato un malore’, ‘ti dico che è stata aggredita’, ‘si drogava, è morta sicuramente di overdose’, ‘era troppo magra, senza energie, come si fa a vivere in questo modo’, ‘l’ho vista proprio ieri mattina e tremava, vedrai che è a causa delle crisi epilettiche’, mentre gli uomini, pochi in realtà, giusto due smilzi sulla quarantina vestiti in maniera distinta e un calzolaio tarchiato che lavorava nell’esercizio commerciale sotto i portici, scuotevano la testa e profanavano la figura del dottor Ruggiu, descritto come un ‘pidocci azzaddu’² e un ‘bucalotto’³.

    Melis e gli altri due agenti si fecero strada tra la folla di curiose ed entrarono nello stabile. Toschi rallentò il passo e osservò tutto intorno: uno sguardo alla fine di via Rolando, verso piazza Caduti del Lavoro, ove i portici di destra ospitavano un bar e una libreria e quelli di sinistra il Banco di Sassari e la calzoleria del calzolaio tarchiato; uno sguardo lo rivolse nella parte alta di via Risorgimento, straripante di persone all’incrocio con viale Italia e angustiata dal rombo tonante e ovattato delle automobili che entravano e uscivano dal parcheggio posteriore del Policlinico. In quel frangente, dall’incrocio tra via Risorgimento e via Porcellana, vide spuntare

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