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Stelle di mare suicide
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E-book160 pagine2 ore

Stelle di mare suicide

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Info su questo ebook

Dramma, problemi familiari, droghe, alcolismo, adolescenza...

Quando sta per compiere quindici anni, l’alcol non basta più a Luz per dimenticare chi è. In un momento in cui i sogni sono menzogne di altri mondi e il presente è un susseguirsi di delusioni, il fatto che degli invertebrati ne siano talmente consapevoli da arrivare a suicidarsi non migliora la situazione. Le stelle avranno fatto la scelta giusta?

LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita24 lug 2017
ISBN9781507183779
Stelle di mare suicide

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    Anteprima del libro

    Stelle di mare suicide - Marina Casas

    INDICE

    La notte delle calze rotte

    Come persi l’entusiasmo

    Smettere di fingere

    Il muro con la canzone

    La Gloria felice

    Quanto poco sappiamo degli eschimesi

    Nada

    La pizza, i vomiti

    Andiamo a ballare, a ballare

    Tanti auguri a te

    Lontano dal bagno

    Fluorescenti

    Puntini luminosi

    Sperare

    A Linda quattordicenne, e a Cielo sempre.

    Nello stato di sogno prendono molto sul serio l’atto

    di vivere, anche più dell’essere vivi.

    La notte delle calze rotte

    Ricordo a malapena la notte delle calze rotte. Decisi di chiamarla così il giorno dopo, quando raccolsi i vestiti da terra e vidi il danno. Mi sorprese, anche se era stupido che accadesse. I collant che uso sono fatti per rompersi, sono di quelli scadenti. Li prendo nel supermercato a fianco, si vendono nelle taglie pari e mi stanno un po’ grandi, così li ripiego un po’ in vita e li tengo su con le mutandine. La metà delle volte non arrivano al mese di vita. Su quelli che sopravvivono al mese, metto lo smalto nel buco e all’inizio e alla fine della smagliatura. Così resistono. Me l’ha insegnato mia madre. Ma se sono lontana da casa o non me ne accorgo, non c’è niente da fare. Solo camminare con vergogna.

    Alle mie gambe non dava fastidio. Preferivano stare così, però gli sconosciuti che incrociai mi guardarono più del solito. Niente a che vedere con quei classici due o tre secondi che qualcuno impiega per decidere se sei bello, brutto, pericoloso o se in qualche modo ti conosce. Mi dava fastidio che facessero questo, perché volevo solo scomparire per sempre. Non è facile farlo, quando qualcuno sa che esisti.

    Da quattordici anni passeggiavo per le stesse vie; non so perché mi sembravano sconosciute, potevano essere le vie di una città qualsiasi. E la gente poteva essere gente qualsiasi, imitazioni delle persone con un nome che mi salutavano ogni giorno. Era possibile che mi fossi spostata in un’imitazione del mio quartiere, dove tutto era uguale. Eccetto io. Io ero un’estranea per tutti.

    Non avevo mai avuto così tanta voglia di arrivare a casa. E di fare la pipì. La pressione nella mia vescica non diventava dolore, forse perché non potevo più sentire dolore. Non avevo neppure freddo, come un sogno in cui la maggior parte dei miei sensi si fosse addormentata.

    Le chiavi apparvero nella mia mano, non so come, e entrai a casa, non mi preoccupai del rumore che potevo fare. Ero solita togliermi le scarpe prima di salire le scale, ero solita chiudere la porta con attenzione, ma la sbattuta di quella notte avrà fatto credere alla signora del piano di sopra che avessero messo una bomba o qualcosa di simile.

    Mia madre era in piedi, la trovai nel corridoio. Indossava un paio di jeans e scarpe col tacco, giurerei che era truccata, ma in quel momento non ci feci caso. Ad ogni modo, si era preparata per uscire. Ancora oggi non so se avesse passato la notte sveglia, se pensasse di uscire a cercarmi o se fosse appena rientrata. Qualsiasi possibilità va bene, a questo punto.

    Si avvicinò a me. Non per abbracciarmi, neppure per darmi uno schiaffo. Non diceva nulla. Il che era strano, perché, diversamente da me, lei di solito aveva qualcosa da dire. Mi guardò, con meno attenzione degli sconosciuti che avevo incrociato. Non sembrava nemmeno alterata.

    Non mi domandò neppure da dove venivo, né dove credevo che andasse, né che avevo fatto, né lo domandò il giorno successivo, né nessun altro dei giorni che seguirono. Quella notte appartenne al ricordo di un’altra persona, qualcosa di accaduto nella copia della città, scegliemmo la versione che più ci piaceva. E a lei ne piaceva una e, a me, un’altra.

    L’unica cosa che feci fu gridarle, ingoiando le lacrime e tirando su col naso, «Tu hai la colpa di questo, tutto questo è colpa tua». Così, alternando una frase e l’altra, aspettando la sua reazione, mangiandomi le parole coi loro spazi, fino a che, inginocchiata a terra, restai senza voce. Continuai a ripeterlo, muovendo solo le labbra: «Tu hai la colpa di questo, tutto questo è colpa tua», come una preghiera imparata a memoria.

    Non mi interruppe, neanche una volta. Non mi mandò a letto. Non mi fece la predica. Non si difese dalle mie accuse. Ma col suo silenzio faceva tutto tranne che darmi ragione.

    «Tu hai la colpa di questo... ce l’hai» dissi poggiando il viso sul pavimento.

    Mia madre continuava a stare in silenzio e immobile. Avrà pensato che rispondermi non valeva la pena, perché ero solo una piccola presuntuosa che non sapeva quello che diceva. Niente era importante, niente poteva dar fastidio. Ma io sapevo che a nessuno piace essere colpevole. Questa era una delle poche cose che sapevo.

    Come persi l’entusiasmo

    Una volta, a scuola, ci parlarono degli effetti nocivi dell’alcol. Ci dissero che si può persino morire per una dose eccessiva. Io mi misi in testa di cercare informazioni su internet, perché tutto questo mi suonava veramente esagerato. Che ne so, tutti bevono. Durante i pasti, alle feste, in televisione, in casa, nei bar, di notte, di giorno, da qualsiasi parte.

    Durante la lezione ci dissero che, normalmente, la gente comincia a bere alcol perché qualcuno, un amico o qualcuno di simile, glielo offre, e perciò è importante saper dire NO. Una parola che suona semplice, almeno tanto quanto il SÌ.

    Io sapevo dire no. Anche no, grazie. O no, magari un altro giorno.

    Quello che non dicevano in quelle lezioni è che, a volte, la persona che ti incita a bere è tuo padre, forse pensando che farai parte della statistica dei sobri e mai di quella degli alcolizzati, dei malati comatosi o degli strambi astemi. E neppure dicevano che, altre volte, una persona decide di cominciare così, per curiosità. Da sola, a casa sua. Al mattino. E saper dire no a se stessi è più difficile. Fu così che cominciai, dicendo sì a me stessa, dicendomi: perché no?

    La prima volta provai solo un vino rosso da poco che mia madre teneva nel frigo. Bevvi pochissimo, la quantità giusta perché non notasse che mancava. Non mi piacque il sapore, sapeva un po’ di vecchio, mi ricordò uno sciroppo. Eppure, col passare dei giorni mi resi conto di voler bere ancora, chissà per quale motivo. Facevo più attenzione a tutto quello che mi era attorno, alla gente che rideva col suo drink ai tavoli del bar, ai ragazzi che andavano al parco coi bicchieri di plastica, alle pubblicità in cui la gente ballava e si innamorava mentre il cameriere preparava un cocktail di un bel colore... Tutto questo era meglio di quello che c’era nella mia vita. Le ragioni per dire SÌ erano molto più forti di quelle per dire NO.

    Ma non potevo prendere ancora il vino e rischiare che mia madre, prima o poi, se ne accorgesse. Allora decisi di comprarmi una bottiglia qualsiasi e tenerla nella mia camera. Comprai vodka, perché vidi che era trasparente e poteva tranquillamente esser scambiata per acqua, se la mettevo in una bottiglia di plastica. Non la comprai in un supermercato, non sono così idiota. Andai in un negozietto, uno di quelli che sono aperti ventiquattrore su ventiquattro, con solo una persona alla cassa e senza videosorveglianza. La presi senza guardarla troppo, affinché sembrasse che fosse parte della mia spesa abituale. Presi anche delle gomme, come se me ne fossi appena ricordata, vedendole, perché la gente che non è preoccupata si ricorda di questo tipo di stupidaggini mentre gli isterici le lasciano perdere, prendono le gomme solo quando qualcuno gliele offre.

    La commessa avrà avuto trent’anni circa, ma non sono sicura, non riesco a capire l’età della gente adulta. Mi guardò il tempo necessario a farmi venire il nervoso. Cercai di nasconderlo dando un’occhiata alla rivista Cosmopolitan, ma non pensavo di comprarla.

    – Non hai diciott’anni, vero?

    Feci cenno di no con la testa, senza vergogna. Conoscevo il numero dei minori che bevevano (almeno, secondo le statistiche) e immaginavo che qualcuno, gli alcolici, glieli dovesse pur vendere. O era così oppure, oltre ad essere alcolizzati, rubavano. Bel quadro!

    – Hai una borsa grande? – Le mostrai la mia borsa, nera, di finta pelle. L’avevo scelta pensando alla mia spesa. Era di moda la grandezza XL, quindi la bottiglia ci stava perfettamente senza formare rigonfiamenti sospetti. – Bene, nel caso, io non ti ho venduto nulla, mi hai sentito?

    Annuii con tranquillità, le diedi i soldi, misi la bottiglia nella borsa e uscii, un po’ più grande di quando ero entrata.

    Mi chiusi nella mia stanza, stappai la bottiglia e la odorai. Sembrava una colonia alla quale avessero tolto i fiori, era il profumo per me. L’avvicinai alla bocca. Il primo sorso fu soltanto una prova, mi bagnò solo la bocca e scorse tra i denti. Ci passai sopra la lingua e la spinsi contro il palato. Pensai che non era male.

    Bevvi un altro sorso più velocemente, decisa. Ne entrò più di quanta ne avessi voluta. Mi bruciò la gola. Non me l’aspettavo, perché col vino non mi era successo. Nonostante tutto, mi piacque. Era la stessa sensazione che immaginavo si sentisse quando si prendeva il veleno.

    Dopo un po’ mi girò la testa. Non mi spaventai, era un capogiro leggero, come se fossi sull’ovatta. Mi buttai sul letto, diventò tutto più piacevole. Dalla musica che stavo ascoltando alle macchie di umidità sul soffitto. Persino la mia vita sembrava migliorare rapidamente; i problemi si offuscavano insieme al resto dei momenti in cui non succedeva mai nulla e si coloravano con le risate dei momenti più divertenti, quelli dei quali continui a ridere quando te ne ricordi mesi dopo. Pensai che avrei potuto trascorrere la vita tra un sorso e l’altro. Per la prima volta capii quelli che lo facevano.

    Poco dopo mi addormentai. Ed era strano, perché pochissime volte nella mia vita mi ero addormentata a pancia in su, mi sentivo indifesa, in quella posizione. Di solito preferivo dormire raggomitolata, coperta completamente dalle lenzuola. Con la vodka non succedeva. La vodka mi rendeva forte.

    Credo che non parlai mai con Carmen di andare a bere o di comprare una bottiglia, cioè, non avemmo mai una conversazione del tipo senti, perché non...? E se...?. Semplicemente lo facemmo, dev’essere normale, non so, ovvio, qualcosa collegato ad una certa età, un’altra fase nel passaggio al mondo adulto, alla maturità. Così mi sembrò, anche se suppongo che Carmen lo facesse perché presto avremmo compiuto quindici anni ed era convinta di dover fare certe cose prima di compierli, come uscire con ragazzi di diciotto anni. E questo faceva, quando poteva.

    Bere con lei mi piaceva, però un po’ meno del bere a casa, perché con Carmen era tutto di fretta. Anche perché sentivamo freddo per strada e, a volte, bevendo così di colpo, mi faceva male lo stomaco e mi veniva da vomitare. Allora cercavo un angolo in cui mi vedesse il minor numero possibile di persone, perché vomitare è qualcosa di intimo. Una volta arrivai a farlo dentro una discoteca, ma siccome era tutto scuro e odorava di quel sudore acido che tira fuori la gente ubriaca, nessuno se ne accorse.

    Insieme scoprimmo nuovi sapori, come mischiare la vodka col succo di frutta – la mia specialità –, o bere la tequila e poi mordere un limone – la sua –. In generale era divertente, perché ridevamo ancora di più di quanto ridevamo da sobrie. E ci importava ancora meno cosa pensassero gli altri. Stavo bene perché, in qualche modo, ci bevevamo la libertà, quella che la paura ci toglieva, e rimaneva dentro di noi qualche ora.

    La cosa certa è che non ricordo più cosa facevamo prima di cominciare a bere. Forse andare in giro, parlare,

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