E poi ho trovato te
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Un romanzo dolce e romantico che rimane nel cuore
Terry è figlia di tossicodipendenti, ha un torbido passato legato alla sua vita a Detroit, che continua a perseguitarla. L’unico modo per evitare di soffrire ancora è seguire alla lettera tre semplici regole: non innamorarsi; non permettere a un ragazzo di addormentarsi nel suo letto; non avere mai bisogno di nessuno. Eric invece è un musicista. Tatuato, capelli ribelli, occhi scuri come il cioccolato. Ogni volta che i suoi occhi incontrano quelli color “mare in tempesta” di Terry, lei sa bene che non ne verrà fuori niente di buono… Riuscirà Terry a resistere all’attrazione che li unisce, che li porterà a fare pazzie e ad avventurarsi negli intricati sentieri dell’amore?
«È un piacere leggere questo romanzo, perché è una storia d’amore ti fa sognare e ti fa ridere.»
Adelia Marino
è italo-canadese e vive in Germania. Ama leggere, aggiornare il suo blog e scrivere. Adora parlare con chi condivide la sua stessa passione ed è una divoratrice di serie TV. Deve alla nonna il suo amore per i libri. La Newton Compton ha pubblicato Ogni giorno per sempre, Il mio segreto più dolce e E poi ho trovato te.
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Anteprima del libro
E poi ho trovato te - Adelia Marino
1
Due settimane prima
Ero tornata nella mia città per qualche giorno. Se avessi trascorso anche solo un’altra ora con Joey che passava, in tempi record, dal mangiare cibi disgustosi a urlarti contro a piangere come una fontana, o con Haley che continuava a ripetere che sarebbe andato tutto a rotoli, che il matrimonio sarebbe stato un fiasco e che Landon sarebbe scappato a gambe levate, temevo che sarei impazzita. Detroit non era poi così male, be’ se cercavi di stare il più lontano possibile dai guai ed evitavi di dare fastidio. Ero nata e cresciuta lì, quindi non la temevo, almeno non quanto le amiche.
«Devi andarci per forza?», mi chiese per la centesima volta Joey mentre infilava in bocca una manciata di patatine.
«Sì, J, devo andare, ma solo per un paio di giorni».
«Veniamo con te?». Haley stava ricontrollando il menù per il matrimonio.
«Non c’è bisogno, ci sono cresciuta lì e non sono mica una persona pericolosa, vi pare?».
Si scambiarono un’occhiata.
«Più o meno», aggiunse Joey prima di ridere e scossi la testa.
«Voi, piuttosto, starete bene senza di me per i prossimi due giorni?»
«Se ti dico di no resti? Insomma, io e la tua futura nipotina staremo in pensiero per te». Joey si portò una mano sul pancione con fare protettivo. Se c’era una cosa che sapevo con certezza era che lei e Tom sarebbero stati dei genitori straordinari. Erano già passati sette mesi e l’arrivo di questa bambina era visto come una benedizione. Nessuno di noi era rimasto particolarmente scioccato quando con le lacrime agli occhi ce lo avevano detto durante una delle nostre cene. A dire il vero mi ero pietrificata, ma poi ho pensato che non ero io quella incinta e che loro si erano praticamente amati in silenzio per tutta la vita. Lui possedeva il Tattoo e in più avevano una libreria, perché mai mi sarei dovuta preoccupare? Era solo un carico in più d’amore e fra il loro e quello di Hales e Lan a volte temevo che mi avrebbero sopraffatta.
Quando entrai nell’ospedale psichiatrico andai verso la reception, dove una signora con gli occhiali calati sul naso stava facendo dei cruciverba.
«Salve», mormorai, lei alzò lo sguardo verso di me.
«Buongiorno, come posso aiutarla?»
«Vorrei vedere il signor Pete Davis».
Iniziò a scorrere la lista dei pazienti sul computer; sbuffai, non ero una persona paziente.
«Terry?», mi girai e una ragazza della mia età, con il camice da infermiera e un carrello carico di medicine, venne verso di me.
«Martha», dissi avvicinandomi. Non mi piacevano molto gli abbracci, così allungai una mano verso di lei e la strinse. Abitavamo nello stesso quartiere e ci conoscevamo sin da bambine, quindi sapeva che ero restia al contatto fra corpi, tranne se c’entravano ragazzi fighi con cui divertirmi per un paio d’ore.
«Ti trovo bene, un po’ più colorata dell’ultima volta», puntò al nuovo tatuaggio sulla coscia. Era una giarrettiera di pizzo con un piccolo fiocco. Lo trovavo sensuale e forse mi serviva per ricordarmi che nessuno me l’avrebbe tolta con i denti ficcando la testa sotto il mio abito da sposa, anche perché non ne avrei mai indossato uno.
«Anche tu stai bene, lui invece come se la passa?», mi sorrise e alzò le spalle.
«Sempre uguale. Vieni, ti accompagno». Sapevo la strada, ma accettai comunque l’invito. «Come va in California? È tutto piuttosto diverso rispetto a qui».
«Più soleggiato», dissi con un sorriso e lei ricambiò scuotendo la testa. Aprì la porta della stanza e mi fece cenno di entrare.
«Ehi signor Davis, guardi un po’ chi è venuta a trovarla». La stanza era piccola. C’erano un lettino bianco, un comodino, una finestra e una poltrona lì davanti. Lui era seduto sulla poltrona e guardava fuori, non si girò quando Martha gli disse che aveva visite; presi la sedia vicino alla scrivania e l’avvicinai alla sua poltrona.
«Ciao papà». Si voltò a guardarmi e i suoi occhi blu incrociarono i miei dello stesso colore, sorrise e mi sforzai di fare altrettanto. Non era lì perché era malato, o meglio in un certo senso lo era. Tutte le droghe per cui aveva buttato all’aria la sua vita gli avevano bruciato il cervello. Era passato quasi un anno dall’ultima volta che ero andata a trovarlo, ma non era cambiato molto. Aveva perso già da molto tempo i folti capelli ricci che ricordavo da bambina, il viso era scavato ed era quasi sempre in un’altra dimensione. Da quando era in clinica aveva ripreso peso, non era più pelle e ossa, anche se le braccia erano segnate da tutti gli aghi con cui si era bucato durante tutta la sua esistenza.
«Ti trovo bene», gli dissi e lui tornò a guardare fuori.
«Bessie?». Al suono della sua voce roca chiusi gli occhi e guardai anch’io fuori.
«Non la sento da un po’, non so dove sia». Probabilmente con il fallito di turno che si era trovata, ma non c’era bisogno che lui lo sapesse. Bessie era mia madre, almeno biologicamente parlando. Aveva sempre un nuovo fidanzato e appena lui andava via e la lasciava senza niente lei chiamava me in cerca di aiuto. Erano sei mesi che non avevo sue notizie e oltre due anni che non la vedevo, ogni volta che mi telefonava in cerca di soldi mi limitavo a spedirglieli.
«Non essere arrabbiata».
«Non lo sono, papà».
«Ti va di portarmi in giardino?». Lo aiutai ad alzarsi e mi feci dare una sedia a rotelle dall’infermiera perché mio padre non riusciva più a muoversi sulle sue gambe. Una volta nel giardino inspirò a fondo prima di prendere una delle sigarette nella tasca della camicetta a quadri che indossava, me ne passò una e la presi, accesi la sua e subito dopo la mia. Non ero una gran fumatrice, ma quando mi sentivo agitata o frustrata spesso infilavo una sigaretta fra le labbra e cercavo di calmarmi. Le mie amiche in California non lo sapevano, in realtà lì nessuno conosceva la mia vita, nemmeno Tom, che consideravo il mio migliore amico. Ero andata via da Detroit per lasciarmi tutto alle spalle, per dimenticare, per andare avanti; raccontare a tutti la mia storia non me l’avrebbe permesso. Fumammo in silenzio, poi mi fermai vicino a una panchina e mi sedetti.
«Stai lavorando?», mi chiese all’improvviso.
«Sì, faccio la piercer al Tattoo, te ne avevo parlato, è il negozio di due miei amici».
Annuì e guardò in giro. «Hai un ragazzo?».
Scossi la testa.
«Ti droghi?».
Sbuffai, quello non era proprio il tipo di discorso che avrei voluto fare con lui.
«No, non mi drogo, non mi serve quella merda», lo dissi con un tono un po’ pungente perché si voltò a guardarmi con un’espressione indignata. «Scusa», mormorai e lui sorrise.
«Mi sono sempre piaciuti i gigli».
Seguii il suo sguardo verso i fiori bianchi in un vaso e scossi la testa. Sarebbe stata una lunga giornata.
2
«Grazie per avermi ospitata, proprio non mi andava di prendere una stanza». Carly si passò una mano sulla minigonna per sistemarla, ma c’era ben poco da sistemare. Dopo aver trascorso tutto il giorno con mio padre, chiamai Carly, mia amica d’infanzia e l’unica con la quale avessi mantenuto un rapporto una volta partita.
«Non c’è problema Terry». Lavorava in un locale notturno come barista, così una volta che uscì schiacciai un sonnellino prima di fare una doccia. Infilai degli shorts di jeans a vita alta, un crop top viola elettrico che s’intonava ai miei capelli prugna, li pettinai e arricciai le punte. Finalmente avevano raggiunto la stessa lunghezza dopo la pazzia di rasarmi metà testa e ora mi solleticavano il collo. Infilai la giacca di pelle, scarpe alte e presi la borsa prima di uscire. Quando arrivai al locale andai dritta al bancone, mi sedetti sullo sgabello libero e ordinai un Cosmopolitan. Lo sorseggiai in silenzio, o almeno fino a quando mi si avvicinò qualcuno.
«Che fa una bella ragazza come te da sola al bancone?»
«Hai usato davvero una delle frasi più vecchie di questo mondo per rimorchiarmi?», chiesi girandomi a guardare lo sconosciuto vicino a me. Alto, occhi chiari, biondino, muscoloso. Da quello che s’intravedeva dalla camicia aperta aveva bei pettorali. Feci di sì con la testa a qualsiasi stronzata stesse dicendo in quel momento, non m’importava. Mandai giù il resto del drink e guardai verso Carly che stava riempiendo il bicchiere a un tizio vestito elegante.
«Mi stai ascoltando?». Mi voltai di nuovo verso il ragazzo di cui non ricordavo il nome e scesi dallo sgabello facendo strusciare leggermente il mio corpo contro il suo.
«Io non ho nessuna voglia di parlare e tu?».
Alzò un sopracciglio e sorrise. «Bene, non ne ho più voglia nemmeno io». Mi prese per mano e mi guidò fuori, nel parcheggio, verso la sua macchina.
«Teresinha Davis». Odiavo quel nome e in parte odiavo il tipo che l’aveva detto.
«Joshua», mormorai a denti stretti. Il ragazzo con cui sarei dovuta tornare a casa di Carly mi lasciò la mano e fece qualche passo indietro. Tipico, tutti temevano quell’idiota.
«Mi sei mancata, piccola», disse avvicinandosi a me. Joshua era indubbiamente un bel ragazzo. Non era particolarmente alto, ma era molto muscoloso. Era rasato e portava sempre dei cappelli. Sulle braccia aveva dei tatuaggi inquietanti e lo era altrettanto il suo sguardo. I suoi occhi, così neri da confondersi con la notte, erano stati l’ultima cosa che molte persone avevano visto.
«Scusa ma non posso dire lo stesso». Sorrisi cercando di non sembrare nervosa, era una parte del mio passato che cercavo di dimenticare. Non si muoveva mai solo, non a caso con lui c’erano altri tre tizi dall’aria minacciosa che ridacchiavano. Il ragazzo che era con me era sparito e io ero rimasta vicino alla sua macchina.
«Sai, ho rivisto tua madre».
«L’hai salutata da parte mia?». Che altro avrei dovuto rispondere?
«Pensa che lei mi ha mandato da te, sapeva che saresti tornata a trovare il tuo paparino». Strinsi le labbra, non volevo mostrarmi nervosa, ma non mi stava riuscendo bene; lui mi conosceva e se ne accorse. «Non agitarti, piccina», disse avvicinandosi a me, allungò una mano e mi sfiorò la guancia. Girai la faccia.
«Vai al dunque, che cosa vuoi?». Incrociai le braccia al petto e il suo sguardo cadde sul mio seno, avrei voluto essere più coperta.
«Tua madre ha voluto qualcosa da me, ma non mi ha pagato, così l’ho cercata, le ho fatto capire che non si può prendere in giro Joshua e lei mi ha detto di rivolgermi a te, che ci avresti pensato tu».
«Non pagherò per la sua merda, Josh, questi non sono affari miei», sbottai e cercai di passargli a fianco per andare via, ma avvertii una presa sul collo e poco dopo sbattei duramente con la schiena contro qualcosa di duro: l’auto. Il dolore mi percorse lungo tutta la schiena e la presa sul mio collo m’impediva di riprendere fiato. Sentii il suo respiro caldo contro il mio orecchio.
«Non me ne frega niente di chi paga, Teresinha», sibilò. «Voglio i miei ventimila dollari e li voglio entro fine mese, se non avrò i soldi qualcuno si farà male, molto male».
«Che succede qui?». I miei occhi guizzarono subito verso quella voce bassa e leggermente roca che mi faceva rabbrividire ogni volta. Gli occhi scuri di Eric incrociarono i miei. Joshua mollò la presa e sorrise.
«Ci vediamo presto, amica mia», si limitò a dire prima di sparire insieme ai suoi scagnozzi. Mi portai una mano sul collo indolenzito e lo massaggiai, un attimo dopo le mani di Eric furono sulle mie e non appena alzai lo sguardo incrociai il suo preoccupato.
«Sto bene», mi limitai a dire.
«A me non sembra. Chi era quello? Che voleva? Che ti ha fatto?». M’inchiodò alla macchina e avvicinò il suo viso al mio. Alcune ciocche bionde dei suoi capelli troppo lunghi ricaddero in avanti. Le punte nere e l’aria disordinata non facevano altro che rafforzare la sua immagine di musicista bello e dannato. Le sue braccia completamente ricoperte di tatuaggi avevano l’aria di essere forti e pronte a tenermi stretta a lui. Il modo in cui la maglietta nera aderiva perfettamente al suo corpo lasciava poco all’immaginazione, facendomi capire che lì sotto si nascondeva un torace duro come la pietra. Il suo collo tatuato era estremamente sexy. Le mani, che in quel momento mi stavano intrappolando contro la macchina, erano anch’esse tatuate e piene di anelli… mani che facevano magie con la chitarra, non osavo immaginare cosa avrebbero fatto su di me. Deglutii a fatica cercando di evitare che il mio sguardo cadesse sulla protuberanza stretta intorno ai jeans scuri e aderenti che indossava quella sera.
«Era solo una persona che conoscevo. Puoi portarmi a casa?». Mi studiò ancora un po’, ma non insistette. Mi fece strada verso la sua nuova macchina. L’aveva comprata dopo che aveva distrutto quella precedente a seguito dell’incidente con Joey. Si era infatti scontrato con l’auto della sorella, che ne aveva perso il controllo.
Salii sulla bmw x6 nera e lucida di Eric.
«Che ci fai a Detroit?», chiesi una volta allacciata la cintura.
«Abbiamo avuto una serata da queste parti. Non sapevo che ci fossi anche tu».
«Sono venuta a trovare mio padre», mormorai.
«Resterai ancora per molto?».
Alzai le spalle. «Solo domani, poi torno in California. Ero venuta per distrarmi un po’, ma inizio a pensare che sarebbe stato meglio rimanere con quei folli dei nostri amici».
Ridacchiò e gli indicai come arrivare a casa di Carly.
«Mia sorella sta facendo impazzire tutti, eh? Anch’io torno a casa domani, sarò in zona fino a fine mese, quindi ti aiuterò a non strangolarla». Si fermò davanti casa.
«Più siamo e meglio è», dissi sorridendo. Aprii lo sportello per scendere, ma la mano grande, calda e ruvida di Eric afferrò la mia, piccola, liscia e con lo smalto rovinato.
«Sei sicura di stare bene, angelo?».
Alzai un sopracciglio prima di liberare la mia mano dalla sua.
«Non sono un angelo, mio caro Bad boy, sono