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Analfabetismo sentimentale
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Analfabetismo sentimentale
E-book150 pagine2 ore

Analfabetismo sentimentale

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Info su questo ebook


Viola. Trent'anni, una vita senza rilevanti scossoni, agitata esclusivamente dalla colonna sonora che l'accompagna ogni giorno. Un amore ormai distante, mai premuroso. Una coppia come tante, come noi. Un lavoro, delle amiche, tutto in regola con ciò che la società esige da una della sua età, ma qualcosa sta per sconvolgere il suo monotono quotidiano. Una rivoluzione alle porte che minerà la sua fittizia stabilità gettandola in un caos emozionale. Attratta dall'altro e da altri luoghi, coverà un intenso senso di insoddisfazione che prenderà il sopravvento alterando all'improvviso tutta la sua vita. Lavoro e amore cambieranno direzione lasciandola sola. Si ritroverà abbandonata, delusa e priva di aspettative, ma le donne della sua vita si prenderanno cura di lei in un modo inaspettato. Si intrecceranno musica e amori intorno a una protagonista a volte ironica, a volte disfattista e rassegnata. Passerà da un lavoro precario a un altro, conoscerà uomini e donne che segneranno la sua esistenza portandola inevitabilmente a crescere. Crederà di essersi innamorata più di una volta e gli scompensi del cuore la porteranno a essere un'altra Viola, sicura e dinamica. Il desiderio di perdersi, una grande casa, notti consumate tra lacrime e lenzuola, una chitarra, un palco, un amore graffiante e delicato, la nostalgia per un'età andata e la voglia di rivalsa.
LinguaItaliano
Data di uscita15 lug 2018
ISBN9788833281254
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    Anteprima del libro

    Analfabetismo sentimentale - Giorgia Bianchin

    sonora.

    1

    Il viaggio di ritorno dal lavoro è sempre una sorta d’introspezione personale. Parlo da sola, faccio smorfie e canto le mie canzoni preferite nei brevi momenti di lucidità, in cui distacco la mente dai pensieri che mi portano a inventare storie su me stessa. Guardo i fazzoletti sporchi appallottolati sul sedile passeggero, l’arbre magique che ha ormai cambiato colore, un mozzicone di sigaretta sul tappetino - e non so proprio come ci sia finito, visto che ho smesso di fumare -, una borsetta di plastica piena d’incarti di merendine al cioccolato nascosta sotto il sedile e agganciata al freno a mano. Mi faccio schifo. Se la macchina fosse lo specchio dell’umore di una persona, dalla mia si capirebbero molte cose.

    Dagli altoparlanti si diffonde Blue Moon, nella versione di Billie Holiday. Luna blu, luna malinconica, la stessa di questa sera. Mi riempie lo stomaco di un’atmosfera irreale, mi scuote quella parte assopita di cervello che ogni tanto smette di sognare.

    Vorrei che questo viaggio non finisse mai, rallento per paura di arrivare a casa prima che la canzone sia finita. L’auto va da sola, mi sento leggera e guardo avanti senza interesse. Sono impegnata a immaginare la vita come la vorrei. Questa canzone è impressa in ogni mio sogno a occhi aperti, è quella che vorrei ascoltare il sabato mattina appena sveglia.

    Un sole caldo, la mia casa immersa nella luce e nel calore dei primi giorni di primavera. Indosso solo una t-shirt, scendo le scale, cammino scalza su un ruvido parquet grigio, le nervature del legno mi solleticano le dita dei piedi. Arrivo in un bel salotto, con un tappeto a pelo lungo viola e un divano morbido sommerso da cuscini di tutte le dimensioni. Le finestre sono aperte e le tende leggere, trasparenti, color carta da zucchero, gonfiate dal vento. Lui dorme ancora e io sono seduta sullo sgabello della mia bellissima cucina bianca. Accendo la moka e intravedo il giardino che ho sempre voluto attraverso le tende setose. Tutto è perfetto quando ascolto questa canzone così rilassante. È stata la mia porta sul jazz, la prima che a sedici anni mi ha fatto innamorare di un genere trascurato dalla mia generazione. La stessa che dopo anni mi permette di sedere e non pensare a niente. Imburro una fetta di pane, lui dorme ancora e io mi godo il silenzio. È sabato mattina, il sole c’è…

    Finisce la canzone e con lei il mio sogno.

    Parcheggio l’auto sotto casa, do di nuovo un’occhiata al sedile, ma decido di non spostare nulla. Salgo al terzo piano, calpestando i gradini di freddo marmo giallo. Penetro attraverso strati di odori di ogni tipo, mi reggo al corrimano di ottone sbiadito. Mi soffermo un istante davanti a ogni porta. Ogni profumo e rumore mi trasportano a immaginare cosa nascondano quelle soglie chiuse. Pezzi di vita quotidiana.

    Entro in quella che è casa mia, ma che non sento più tale da troppo tempo.

    Mi sfilo il cappotto rosso con il bordo scucito e la fodera brillante che dondola di lato, appoggio le chiavi della macchina sopra il mobile all’ingresso, lancio le scarpe verdi, che rimarranno in disordine fino a domani, quando le rimetterò ai piedi. Mi siedo sul divano ricoperto da una coperta a quadri marroni, odiosa. I gatti dormono; allungo i piedi su un tavolino troppo basso e troppo sporco e socchiudo gli occhi per i minuti che mi separano dal tornare a essere una brava donna di casa.

    Nel silenzio del mattino prendo una tazza di caffè e salgo le scale, dove la penombra mi rende incerta; schiudo la porta della camera e la lascio aperta per far entrare un po’ di luce. Tutto tace, nessun movimento sotto il lenzuolo stropicciato.

    Gli accarezzo l’orecchio; strige gli occhi e porta le braccia sopra la testa; sulla sua bocca si apre un sorriso, sa che sono io. Non fiato, non dico nulla. Il caffè si fredda. Le sue mani sono proprio dove ho sempre voluto che fossero. Mi sento una di quelle modelle che stanno bene anche con una maglietta consumata dai lavaggi. È lui e l’ho sempre voluto.

    Ma poi, lui chi?

    Ho quasi trent’anni e per un lungo periodo ho creduto di essere una donna in carriera. Mi sbagliavo. Da otto anni lavoro nella stessa compagnia assicurativa come segretaria e nulla è cambiato dal primo giorno, solo un via vai di persone che si stancano di questo compromesso con la vita. Siamo stati divorati, ci hanno mangiato l’esistenza a grandi bocconi. Nella vita comunque bisogna accontentarsi, e io ho deciso di farlo, arrendendomi.

    Sempre otto sono gli anni di tranquillità con Enrico. Il mio unico uomo, quello che mi porto avanti dal liceo, quello che ormai non lascerò più perché mi sento già vecchia. Quattro anni di pacifica convivenza, ma a me sembrano troppi. Pochi litigi, quasi esclusivamente per motivi di ordine domestico. Poche parole, poche promesse, pochi progetti. In sostanza, poca esistenza.

    Ricordo ancora quando al liceo tentavo di farmi notare da lui, inseguito da decine di ragazzine. Era al centro del mondo di molte quindicenni impazzite.

    All’epoca me ne stavo spesso seduta a gambe incrociate, come la migliore delle disadattate, alcune volte con la chitarra, indossando pantaloni strappati e felpe consumate. Lo sguardo era perso e la sigaretta correva sempre troppo veloce verso il filtro. Io mi definivo diversa dalla norma, vivevo in un mondo parallelo in modalità sopravvivenza. Ascoltavo il mio walkman a tutto volume con la cassetta rovinata dei Silverchair, Miss you love, la mia preferita. Durante la ricreazione lo osservavo da lontano per interi minuti. Seguivo con lo sguardo ogni suo movimento per capire se per sbaglio capitassi nella sua traiettoria visiva. Erano gli ultimi giorni della quarta liceo; mi ripetevo che potevo rischiare, del resto ci sarebbe stata l’estate di mezzo e lui si sarebbe dimenticato di me. All’improvviso decisi di salutarlo e di presentarmi. Rispose porgendomi una mano liscia e morbida. Gli sorrisi, lo guardai fisso negli occhi e me ne andai. I saluti proseguirono, ma nulla di più, tanto che arrivai a consolare la mia disperazione con quintali di dolci.

    Una mattina noiosa e malinconica, durante la quale era impossibile rimanere in classe, senza pensarci troppo mi diressi verso il mio distributore di momentanea gioia per riempirmi la bocca di schifezze. Alle spalle un sospiro pesante, le labbra quasi appoggiate al mio orecchio, un brivido che solcò ogni vertebra della mia schiena fino a farmi cedere le gambe.

    Mi chiese di uscire a modo suo, senza imbarazzo o troppe parole: «Dovremmo fare qualcosa insieme prima o poi.»

    Lo rincorsi e gli dissi: «Non ci pensare proprio.»

    Volevo sfidarlo, condurre il gioco; quanto si è stupidi a quell’età. Non lo incrociai più per molti giorni. Ascoltavo ripetutamente Always di Bon Jovi a un volume spaventoso, e mi dava il giusto grado di sofferenza.

    Credo fossimo destinati l’uno all’altra, perché nemmeno lui si arrese al mio rifiuto, o forse è sempre stata tutta una sfida.

    Era uno di quei giorni infernali, quelli dove il caldo ti scioglie il cervello, e io non sapevo nulla di storia, ma dovevo recuperare una delle tante insufficienze che mi portavo dietro. Dentro ai miei anfibi avevo decine di foglietti pieni di appunti. Mi ero allontanata dall’aula per sbirciare e, mentre ero piegata per estrarre l’unica fonte del mio sapere, mi sentii strattonare. Persi l’equilibrio e finii a terra, rimbalzando sul sedere. Era lui, mi porse una mano e mi tirò a sé. La sua bocca sulla mia, il viso tra le sue mani.

    Così cominciò la mia storia, l’unica, il mio vero o grande amore.

    Abitiamo in un piccolo appartamento in provincia, senza giardino, lontani dal centro e dalla vita. In pratica in campagna. Non quella aperta tra campi e fiori, bellissima e silenziosa, ma un piccolo paese che si trova a malapena sulle cartine geografiche.

    Quando abbiamo deciso di andare a vivere insieme io ed Enrico eravamo molto giovani, con la testa chissà dove, tra un cd dei Nirvana e uno dei Doors. Non ci siamo mai pentiti; essere indipendenti a poco più di vent’anni è stata una conquista, o semplicemente la rovina della vita.

    Noi eravamo all’apice della felicità. L’unica perplessa era sua madre, convinta che suo figlio sarebbe morto di stenti. Di fame, di freddo, o forse annegato nella vasca da bagno perché nessuno gli avrebbe passato l’asciugamano.

    In questi anni ha perso qualche chilo, ha spesso il raffreddore e si fa la doccia. Tra me ed Enrico fila tutto liscio, se non ci mettiamo a guardare proprio le piccolezze.

    Per esempio quando esce dalla doccia camminando scalzo fino alla camera, dove lascia l’accappatoio bagnato sul letto, sempre dalla mia parte, e tra camera e bagno manca solo Mosè che divide le acque. Oppure quando si cambia e lascia decine di magliette e pantaloni usati sopra la cassettiera dove una volta c’era il televisore; adesso non lo trovo più.

    Tutto sommato sono felice: del resto queste sono stupidaggini, i veri problemi sono altri. Bisogna sorridere e accontentarsi.

    2

    Sono le sette e sto correndo come una pazza verso il supermercato per comprare qualcosa da mangiare. Qui chiudono alle sette e un quarto. Where did you sleep last night dei Nirvana mi fa premere sull’acceleratore.

    Sono alla cassa con un pacco di minestrone surgelato, due cotolette e un vaso di maionese. La maionese è un vizio di tanti.

    C’è un ragazzo mai visto che fa passare la spesa sul lettore. È bellissimo. Sorriso perfetto, occhi chiari, capelli castani.

    «Buonasera. Ha la tessera convenienza?»

    Anche la voce è perfetta. Ho caldo e il viso mi si è infuocato.

    «Sì, un attimo», rispondo con voce da svampita.

    Cerco il portafoglio nella borsa, ma sono troppo impegnata a fare i conti con la mia insoddisfazione sessuale.

    «Nove e ottanta», dice, ma io sono ancora incantata, quasi imbarazzata.

    «Signorina? Sono nove e ottanta», ripete a voce più alta.

    «Scusami.»

    Mi sorride, prende i soldi e mette sul ripiano della cassa il resto insieme allo scontrino. Sto uscendo e mi accorgo che continua a fissarmi e a sorridere.

    Salgo in macchina, respiro e mi rivedo tutta la scena. Sbatto la testa contro il volante e accendo l’autoradio, ritrovandomi sulle note di Touch me dei Doors.

    «Scusa, hai lasciato la tessera», recita una voce al di là del finestrino.

    «Grazie, grazie mille», rispondo con una punta di agitazione.

    Torno a casa, ascolto Etta James che canta "The blues is

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