Come Vetro contro Vento
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Ginevra vive l’esperienza del cancro dalla prospettiva di chi verrà lasciato, per di più con un figlio, che forse lui non conoscerà mai. David rifiuta di parlarne, la esclude dalle sue terapie, la preserva dalla malattia mentre Ginevra ha la rabbia egoistica di una donna che non si preoccupa della malattia ma del fatto che verrà lasciata. Ora che non è più abituata a fare le cose da single, ma solo in coppia. Ginevra si rifugia quindi nell’unico rapporto familiare che non le ha mai dato conforto, quello con la madre. Con lei scoprirà cose del passato, affinità con questo presente così bizzarro e la forza di non abbandonare prima di essere abbandonata.
A David rimangono pochi mesi ma i due si concedono una vacanza, una breve vacanza dal cancro nel sud della Francia, l’ultima, per prepararsi e dirsi addio. Al rientro gli eventi metteranno a dura prova Ginevra e le persone che le sono vicine. Mentre il rapporto con la madre si risana, un altro necessita di essere chiuso. Ginevra non lascia David, ma trova il modo per creare un nuovo Dave&Gin.
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Come Vetro contro Vento - Barbara Brugnatti
Barbara Brugnatti
come Vetro
contro Vento
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ISBN 978-88-6155-700-0
Proprietà letteraria riservata
© Giraldi Editore, 2017
Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo
Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.
Introduzione
Mia madre non mi raccontava storie. Sono stato un bambino senza favole e racconti fantasiosi. Lei se ne stava in silenzio per giorni a volte, poi improvvisamente qualcosa la svegliava e tornavo a essere il suo convivente.
Non sono mai stato suo figlio, ero qualcuno con cui viveva la vita, e a modo suo la condivideva.
Mia madre aveva lunghi capelli neri e non li tagliò più dal giorno della mia nascita. Era bella. Mia madre è bella. Forse la madre più bella che abbia mai avuto.
Non mi raccontava storie e io imparai a inventarmele, nei giorni di silenzio le raccontavo io a lei.
Al compleanno numero venticinque ho ricevuto in regalo un quaderno, con la copertina di pelle usurata dal tempo. Ero certo che volesse ci scrivessi le storie che inventavo, forse era un messaggio come quelli che danno tutte le madri ai propri figli. Non dicono loro cosa fare, ma consegnano gli unici mezzi che serviranno per farlo.
Mi sbagliavo. La mia non era una madre come le altre.
Questa è la sua storia.
1
Finale
La prima volta è successo in ascensore, dopo una giornata di lavoro e la spesa fatta per una settimana. Avevo qualche giorno di vacanza, la stanchezza cominciava a farsi sentire e dovevo trovare il modo di dirtelo senza l’incubo del telefono, della sveglia, degli orari, del ne parliamo dopo no adesso non posso, non preoccuparti ho tutto sotto controllo, cosa vuoi che sia. Sono fatta così, qualche volta scoppio e ho bisogno di riposare, fermare il ritmo di questa vita moderna che non mi assomiglia per niente.
Terzo piano, l’ascensore si ferma, arrivati. Tengo in mano le chiavi e tu i sacchetti della spesa, come sempre. Ancora non sai che d’ora in poi dovrai farlo obbligatoriamente, ancora non so che invece mi toccheranno chiavi e buste, spesa e immondizia, gommista e meccanico. Odio la tua lavagnetta dove appunti tutte le scadenze, eppure imparerò ad amarla o quanto meno a conviverci in tua assenza.
Assenza. Dio che brutta parola da pensare o solo da dire, mi ricorda il niente e al niente non ci sono abituata.
Qualche giorno fa mi chiedevano da quanto siamo io e te, ma siamo cosa, ho chiesto. Da quanto siamo Dave&Gin, io e te. Non so, certamente da un sacco di tempo anche se ora appare maledettamente poco. Lo eravamo anche prima di dirlo, ancora prima di saperlo e anni luce prima di condividere l’ascensore.
Quando le porte si sono aperte non ti sei nemmeno girato a guardarmi appesa allo specchio stanca morta, non ci avevo fatto troppo caso. Hai raccolto tre buste colme pronte a sfamare un esercito, esercito che si sarebbe presentato a cena con le facce gioiose dei nostri amici, genitori in crisi d’identità, divorziati, aggiunti in corso d’opera. Insomma, un insieme di gente che nemmeno un fumettista fantasy avrebbe collocato nello stesso spazio, figuriamoci se io mi lascio sfuggire l’occasione di metterli tutti alla stessa tavola. Sei tu il ristoratore, ma io la cuoca di casa anche se mia madre è persuasa che non sappia bollire nemmeno le uova. Donna di poca fede, convinta che non esista ciò che non vede, può essere non si desideri mostrarlo.
Ti sei girato solo una volta, hai messo un piede sul pianerottolo e ho alzato lo sguardo per notare anche in quel momento quanto sei bello. Quella è stata la prima volta in cui hai detto di avere un cancro, così, come se dicessi di aver dimenticato la cannella per la torta di mele. E sei entrato in casa. Mi hai lasciato lì, sbattuta contro lo specchio dell’ascensore, col tuo cancro infilzato nella pancia. Sono rimasta indietro, le porte si sono chiuse, qualcuno ha chiamato l’ascensore e io ho viaggiato su e giù completamente in trance, tre o quattro volte.
È entrata gente ma non salutavo nemmeno, come facevano a non rendersi conto che avevo una spada nell’addome e sanguinavo in ogni dove? Mi vedevo solo io. Uscivano appena arrivati al piano, un saluto frettoloso e io che non rispondevo. Ho premuto il pulsante di stop e sono scivolata verso terra lungo la parete a specchio. Mi sono rannicchiata lì con la testa buttata indietro e da quella posizione ho ripreso a respirare, prima di morire inesorabilmente sola e soffocata in un ascensore troppo stretto.
Un cancro.
Tu sei preciso, se hai detto un
è perché lo hai contato, uno solo
. In fondo è una buona notizia. Quella è stata la prima volta che ho dovuto fare i conti con la tua assenza e con la tua eterna presenza nel mio utero. Ora il mio segreto rimaneva ancora più segreto.
Dopo il respiro riacquisito sono arrivate le lacrime, due, sottili, senza singhiozzo, mi hanno grattato le guance. Le lacrime piante in solitudine nell’ascensore di casa nostra mi hanno scavato il viso e non me le sono mai tolte di dosso, sono rimaste sempre, come se da quel giorno si fossero formati due solchi lasciati per tutte quelle che avrei pianto dopo.
Ho sospirato e bestemmiato, ma dentro la gola – dove Dio ci sente meglio e meglio – ci si può accorgere della rabbia. No è di più, la rabbia scema e passa, il mio è furore, è dolore. Come lo curi il dolore quando l’uomo che ami ti dice di avere una bella pettorina con la data di scadenza? Con l’amore? No, l’amore non basta, l’amore non c’entra, l’amore complica tutto, è colpa dell’amore se la prima volta mi hai lasciata in ascensore e io sono andata in apnea nella mia testa.
Al quarto giro d’ascensore ho deciso di alzarmi e rientrare in casa, convinta a non dirti nulla. Almeno per ora. Almeno fin quando non sarei stata costretta dall’evidenza. Un attimo prima di infilare la chiave nella toppa ho guardato il campanello e ho riletto col sorriso David e Ginevra. Nonostante due esseri pragmatici come noi, esistono dettagli che hanno un vago sapore di romanticismo, non parlo di serenate, cioccolatini ed enormi mazzi di fiori inviati al lavoro. Sai quanto io sia riservata e quanto non mi piacciano queste cose caotiche ed esagerate mostrate in pubblico. Non è freddezza, è piuttosto percezione della negatività altrui, si chiama invidia. Lo sai quanto potere possono avere i pensieri negativi e gelosi delle persone? Devastante. Ecco, se certe cose non le dici in piazza magari durano un po’ di più, magari no, ma non si sa mai. Almeno