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Il podestà Liu e altri racconti
Il podestà Liu e altri racconti
Il podestà Liu e altri racconti
E-book203 pagine3 ore

Il podestà Liu e altri racconti

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Info su questo ebook

Un assassino impenitente che il giudice vuole a tutti i costi salvare dall’esecuzione, e che dopo la morte i suoi compaesani
celebreranno come eroe. Un giovane uomo che pur di sposarsi partecipa a una grottesca lotteria, la cui posta in
gioco è farsi mettere in galera al posto di un altro. Un’orfanella così innocente che riesce ad ammansire il suo virtuale
stupratore, ma che nulla può di fronte all’avidità e all’indifferenza della gente. E poi un vulcanico funzionario comunista
che fa arricchire il suo popolo inducendolo a emulare le gesta di una prostituta, un giovanissimo soldato che chiede
al superiore il permesso di andare al funerale della madre, ma quando questo glielo accorda di partire non ne vuole più
sapere, e infine un gruppetto di amici giurati che, non sapendo cosa fare, decidono di picchiare le loro mogli, venendo
infine travolti loro stessi da un parossismo di violenza…
Questi sono i personaggi delle sei novelle presentate in questa raccolta, fra le più importanti e significative dell’autore.
Esse, offrendo uno spaccato del mondo poetico di Yan Lianke, caratterizzato da uno stile ora carnevalesco ora tragico,
ora surreale ora lirico, ci aprono uno squarcio sul destino di alcuni degli emarginati della Cina di oggi, rivelandoci
nello stesso tempo le dinamiche di potere – e la violenza che si cela alle sue spalle – in cui tale destino è avvolto.
LinguaItaliano
Data di uscita4 giu 2018
ISBN9788865642801
Il podestà Liu e altri racconti

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    Il podestà Liu e altri racconti - Yan Lianke

    2

    Titolo delle opere originali

    三棒槌 Tre bastonate

    黑猪毛,白猪毛  Setola bianca, setola nera

    去赶集的妮子 La pischella va al mercato

    柳乡长 Il podestà Liu

    思想政治工作 Lavoro politico-ideologico

    桃园春醒 Risveglio fra i peschi

    Traduzione dal cinese di Marco Fumian

    © Atmosphere libri 2018

    www.atmospherelibri.it

    info@atmospherelibri.it

    blog.atmospherelibri.it

    I edizione cartacea nella collana  Asiasphere aprile 2017

    ISBN 978-88-6564-280-1 (edizione digitale)

    Indice

    Il podestà Liu e altre novelle

    Tre bastonate

    Setola bianca, setola nera

    La pischella va al mercato

    Il podestà Liu

    Lavoro politico-ideologico

    Risveglio fra i peschi

    Postfazione

    Le sofferenze dei contadini nella Cina della modernizzazione:

    un breve excursus sulla narrativa di Yan Lianke                      

    Note

    Un assassino impenitente che il giudice vuole a tutti i costi salvare dall’esecuzione, e che dopo la morte i suoi compaesani celebreranno come eroe. Un giovane uomo che pur di sposarsi partecipa a una grottesca lotteria, la cui posta in gioco è farsi mettere in galera al posto di un altro. Un’orfanella così innocente che riesce ad ammansire il suo virtuale stupratore, ma che nulla può di fronte all’avidità e all’indifferenza della gente. E poi un vulcanico funzionario comunista che fa arricchire il suo popolo inducendolo a emulare le gesta di una prostituta, un giovanissimo soldato che chiede al superiore il permesso di andare al funerale della madre, ma quando questo glielo accorda di partire non ne vuole più sapere, e infine un gruppetto di amici giurati che, non sapendo cosa fare, decidono di picchiare le loro mogli, venendo infine travolti loro stessi da un parossismo di violenza… Questi sono i personaggi delle sei novelle presentate in questa raccolta, fra le più importanti e significative dell’autore. Esse, offrendo uno spaccato del mondo poetico di Yan Lianke, caratterizzato da uno stile ora carnevalesco ora tragico, ora surreale ora lirico, ci aprono uno squarcio sul destino di alcuni degli emarginati della Cina di oggi, rivelandoci nello stesso tempo le dinamiche di potere – e la violenza che si cela alle sue spalle – in cui tale destino è avvolto.

    Yan Lianke (1958) è uno dei massimi romanzieri cinesi contemporanei, nonché uno dei più graffianti e controversi. È autore di un gran numero di romanzi e raccolte di racconti, tutti notevoli per il loro oggetto e il loro stile. Ha ricevuto numerosi premi letterari, tra cui il Lu Xun nel 2000, la Lao She nel 2004, il Franz Kafka nel 2014, il Dream of the Red Chamber Award nel 2016; selezionato al Man Booker International Prize nel 2016. Il successo arriva con un romanzo Wei Renmin Fuwu (2005; trad. it. Servire il popolo, 2006) che critica il governo comunista, in cui il motto rivoluzionario di Mao fa da sfondo a una storia di erotismo estremo tra un soldato, che conosce a memoria tutti i 286 articoli del Libretto rosso, e la moglie del generale presso cui lavora. La censura ne vieta la pubblicazione, ma non impedisce che il romanzo venga tradotto all’estero permettendo allo scrittore di affermarsi in ambito internazionale anche grazie al successivo Ding Zhuang Meng (2006, trad. it. Il sogno del villaggio dei Ding, 2011).

    Tre bastonate

    Era un inverno gelido, che crepava gli orci, e spaccava la terra, e faceva stridere di freddo gli olmi, le paulonie, le sofore e gli ailanti. Nelle mangiatoie la broda si faceva ghiaccio in un istante, sicché i maiali rimanevano a digiuno. Le ciotole del riso, se le posavi sopra il tavolo, restavano attaccate; se le strappavi via da terra, si portavano dietro una zolla gelata. Fu in quei giorni che la guardia disse a Shi Genzi che doveva di nuovo andare a farsi interrogare. La strada, per arrivare alla camera delle interrogazioni, era lunga: lunga quanto attraversare un lungo fiume gelato. Shi Genzi stava in una cella per condannati gravi; sei metri quadri, un lettuccio di legno e un po’ di strame, che dava un bel tepore. Al calduccio sotto la coperta, quando la guardia – un omino di piccola statura – si affacciò, lui lo guardò di sguincio.

    «Un altro interrogatorio» sbuffò.

    «È per il tuo bene».

    «Non è sempre la stessa solfa?»

    «Forza, in piedi» disse la guardia.

    Shi Genzi si tirò su e la paglia gli s’incollò al sedere. «Ti credi forse che non torno!» imprecò tirando un calcio al letto. Nel cortile c’era un freddo allucinante. Per terra crepe larghe come pollici, profonde e scure sotto un cielo inzaccherato. Come uscì, il vento gli appioppò uno sganascione. «Fanculo» commentò. S’incamminò verso l’interrogatorio, tallonato dalla guardia. Le manette, ai polsi, parevano bracciali di ghiaccio; le catene attorno ai piedi, che sotto le coperte davano un bel fresco, sferragliavano gelide come tamburelli. Shi Genzi lo vedeva quel rumore scuro e secco: fermarsi prima, davanti ai propri piedi, poi ricadere indietro, in mezzo a lui e alla guardia, per poi sgusciare via, strisciante come serpe. Ah, Li Mang, Li Mang La Serpe1 gli venne da pensare, sarai stato pure un pezzo da novanta, ma tre bastonate delle mie t’hanno schiantato! A quel pensiero le catene si diedero in balzelli come se stessero danzando, e i piedi si fecero leggeri come foglie portate via dal vento.

    «Genzi» gli aveva detto la moglie, «Li Mang vuole che vada da lui anche stanotte».

    Lui la guardò, vide la sua faccia appesa, fece per dire qualcosa ma infine tacque. Uscito nella corticina di casa con la ciotola vuota, se la riempì e si affacciò in strada.2

    Poi, accosciatosi sul gradone della soglia, attaccò a mangiare. La moglie lo seguì, anch’essa con la sua brava ciotola di riso e, dopo aver spiato tutto attorno, si rannicchiò al suo fianco.

    «Che dici, vado?»

    Lui buttò l’occhio all’entrata del villaggio, vide il tramonto che vi si spandeva, gli abitanti del villaggio ognuno con la sua ciotola inondata di sole in mano e, dietro a quelli, l’ombra di un edificio. Era la casa di Li Mang, il primo palazzo mai costruito nel villaggio. Mai si era vista, lì sui monti Palou, una simile dimora. Il tetto era di quelli delle antiche residenze mandarine, con tegole ramate e gronde ricurve ad ogni lato, da cui pendevano campanelli. Il muro era coperto all’esterno da ceramiche del Sud, mentre all’interno, al posto della calce, aveva una vernice così bianca che ti ci potevi specchiare. Era col commercio delle piante officinali che Li Mang si era arricchito: ricco sfondato, come un fuscello che in un attimo s’era fatto fusto d’albero, e ora si ergeva maestoso sul villaggio su cui faceva il bello e il cattivo tempo. La moglie di Shi Genzi lo aveva conosciuto da ragazza, era una cosa che sapevano tutti. Poi era venuta dal suo villaggio per sposarsi, e qui aveva continuato la sua tresca. «Ci devi proprio andare per forza?» buttò lì Shi Genzi. Lei rimbeccò: «Tu come te la sei fatta questa casa di tre stanze?» Lui, non sapendo che obiettare, si mollò un ceffone sulla faccia. «Shi Genzi» imprecò, «quei cani dei tuoi morti, ma che cazzo vivi a fare!» Poi si accucciò abbrancandosi la testa e si dibatté in un lungo, mortale silenzio.

    C’era solo da obbedire alla sorte.

    Aveva passato in quel modo otto anni, otto anni da cornuto, fino a che Li Mang non si era trovato una nuova fiamma, era diventato una sorta di commissario politico, e quella storia finalmente si era chiusa. I figli dell’uno e dell’altro andavano ormai a scuola e Shi Genzi per qualche anno era tornato a essere uomo.

    Ma una sera di quell’inverno, all’imbrunire, era tornato dalla terra dei fantasmi e aveva trovato la moglie seduta in casa che si asciugava le lacrime e vicino a lei, sul tavolo, una carta da cento yuan. «Da dove vengono?» aveva chiesto atterrito, prendendo i soldi in mano. Lei, invece di rispondere, aveva continuato ad asciugarsi le lacrime. Così, col cuore che gli balzava in petto e il sangue che gli schizzava in testa, Shi Genzi aveva agguantato la banconota, l’aveva accartocciata, e pam!, l’aveva scagliata addosso alla moglie. Non le poteva più portare, le corna, non ce la faceva più a farsi rigirare come una palla di fango e piscio perfino dai bambini, che facevano di lui un porco, un asino, un becco!

    «Shi Genzi, Shi Genzi» c’era chi lo canzonava, «si dice che tua moglie sa scaldare le coperte: io la notte ho tanto freddo, me la mandi pure a me?»

    «Io ti uccido» replicava lui.

    E il vicino commentava: «Genzi, ma chi è che vuoi uccidere tu? Lo sai di chi è figlio quello?»

    C’era, da quelle parti, una distesa ampia e digradante, dove si trovavano accroccate, tutte sparse alla rinfusa, le tombe di coloro che eran morti, nei vari villaggi della zona, senza avere familiari. Nessuno che ci venisse mai in visita; sicché negli anni, un po’ per volta, era diventata una landa selvaggia e desolata, nelle cui sterpaie si perdevano le bestie, e talvolta anche le persone, nel passar da quelle parti a sera, riuscivano a sortirne solo all’alba. Per questo gli avevano dato il nome di terra dei fantasmi. Due anni prima vi era stato perso un bue, un anno prima s’era smarrito un pastorello. Così, quell’inverno, gli abitanti dei villaggi avevano deciso di scavare un fossato, e di alzare per giunta una barriera, lungo la costa che dava a sopravvento, per impedire che da una parte ne uscissero i fantasmi, e che dall’altra, soprattutto, le persone ci mettessero dentro il naso. Inoltre avevano pensato di innalzare, al confine della terra dei fantasmi, una stele scacciaspiriti, per indurre gli spiriti a starsene al loro posto ma anche per avvisare i passanti che dovevano girare al largo. I lavori erano iniziati al principio dell’inverno. Ma, siccome ad ogni affondo del badile saltavano sempre fuori ossa di defunti, gli uomini intenti a quegli scavi si arrestavano e chiamavano Shi Genzi: «Ehi tu, vieni a raccogliere, trova un posto dove possiamo seppellirle!» Al che lui si avvicinava, e farfugliando protestava: «Ma… sempre io?» E quelli rispondevano: «E chi, sennò? Eh? Ce lo dici tu?» Allora lui dava un’occhiata agli altri uomini del gruppo e capiva che non c’era, in tutti quei villaggi, un calabraghe pari a lui e non gli restava, perciò, che chinarsi a raccattare quelle ossa.

    Però non si aspettava che, mentre era via a fare quel lavoro lurido, da tutti detestato, mentre quelli gli mettevano i piedi in testa, a mettergli i piedi in testa ci aveva pensato anche la moglie. Per questo scagliò i soldi a terra e li schiacciò con una tale violenza che le vene del collo gli si tesero come tiranti; quindi prese la moglie per i capelli e fece il gesto di alzare l’altra mano.

    Quella però smise di piangere e, squadrandolo, ruggì:

    «A me vuoi menare, a me?! Che uomo sei? Mena Li Mang se hai le palle! Dovresti avere almeno il coraggio di guardarlo negli occhi, per considerarti un uomo!»

    Shi Genzi irrigidì la mano.

    «Mollami» disse la moglie strattonandolo.

    La mollò.

    «Che ti mangi?»

    Ma lui, invece di rispondere, di nuovo si abbracciò la testa e si accosciò per terra.

    Lei tirò su da terra i soldi, li allisciò, e disse: «Tieni, va’ al mercato, pigliati un paio di pantaloni per te e compra una cartella per tuo figlio». Poi gli ficcò i soldi in tasca e ripeté: «Che ti mangi?»

    Lui, lentamente, alzò la testa: «Merda!» vomitò, «neanche la merda sono degno di mangiare!»

    La guardia camminava due metri dietro a lui, ma Shi Genzi lo vedeva che quello ai piedi aveva scarpe nuove. Erano nere, fiammanti, e confortevoli; sulla strada ticchettavano come martelli sulla selce, rintoccando nell’aria insieme allo sbatacchio delle sue catene. Alzando gli occhi dalle caviglie al polpaccio, vide che la voce delle sue catene tendeva piuttosto al bianco che al nero, ed era solida come biglie d’acciaio, mentre i passi della guardia davano più sul nero che sul bianco, e avevano pure qualche vena rossa, come di legna su un braciere. Quando le due voci si urtavano, quella di legna si sbriciolava, franando a terra come un mucchietto di sabbia. Lontano, intanto, tremolava incessante al vento il reticolato sopra l’alto muro di cinta. Due guardie, che a loro volta stavano traducendo dei carcerati, gli si fecero incontro. Lo guardarono, scambiarono un cenno di saluto con la sua guardia, e passarono oltre. La guardia di Shi Genzi affrettò il passo, gli si appressò un poco, e gli disse mormorando:

    «Quello di oggi è l’ultimo interrogatorio, non è più il caso di far la testa dura».

    «Non avete detto che devo dire tutta la verità?» chiese lui.

    «Certo» disse la guardia, «devi dire tutto esattamente come sta».

    «Io di bugie non ne ho detta neanche mezza».

    «Sì» fece la guardia, «sappiamo che la tua condotta è buona».

    «Shi Genzi le balle non le dice».

    «D’accordo, ma mettiamo il caso che te ne sia scappata qualcuna, oggi fai ancora a tempo a ritrattarla».

    «Giuro sul mio nome che io, Shi Genzi, sono un uomo dabbene; fossi cornuto se dico balle!»

    Altri si facevano incontro. La guardia rallentò il passo e si staccò rimanendo indietro. Di nuovo quei passi come legna, di nuovo la voce delle biglie d’acciaio. Nel vedere che i propri passi avevano azzittito, mandandoli in frantumi, i passi della guardia, Shi Genzi provò un certo orgoglio, per cui si tirò su il davanti della sua giubba da carcerato, se lo premette forte sull’addome, e deliberatamente fece tintinnare di bianco le manette.  

    «Che fai?» disse la guardia.

    «Le manette son gelate, mi fanno male ai polsi».

    «Allora, invece di dire cazzate, me lo vuoi dire» aveva chiesto la moglie, «ci vado o non ci vado da Li Mang?»

    Lui aveva imprecato: «Ah, Li Mang! Quei cani dei tuoi morti!»

    «Vieni stasera, mia moglie è tornata dalla sua famiglia» Li Mang le aveva detto, e lei aveva risposto: «Li Mang, ti prego no, adesso ho le mie cose». «Davvero?» l’aveva fulminata lui, «non ce l’hai avute a inizio mese? Allora ‘sti soldi li vuoi o mi vuoi pigliare per il culo?»

    «Non ci andare» si pronunciò Shi Genzi. «Non credo proprio che se non vai quello ci ammazzi».

    Lei rimase sbalordita. Guardandolo lì, piantato sul gradone della soglia come un ceppo che avesse messo le radici, notò che la ciotola gli tremava leggermente in mano, le vene del collo sembravano solcate da processioni di insetti. Era la prima volta che lo vedeva così. Era sempre stato una mollica, una palletta di fango; invece oggi sembrava un ceppo, un tronco finalmente abbarbicato, un uomo vivo e dotato di cuore.

    «Che hai detto?» gli chiese.

    «Come che ho detto?»

    «Hai detto di non andare?»

    «Tu ci vuoi andare?»

    «No. Neanche fossi un maiale, o una puttana».

    «E allora non ci andare».

    «E se Li Mang poi attacca brighe?»

    «Si pensa al ponte quando si arriva al fiume. In fondo cosa può fare, mangiarci?»

    E difatti quella notte lei davvero non ci andò, eppure non accadde niente di irreparabile. Prima di coricarsi sprangarono il portone esterno e le porte interne, puntellandoli con seggiole e bastoni, e infine si sedettero in punta al letto in attesa degli eventi. A un certo punto si udirono dei passi, qualcuno che tirava calci sul portone, quindi un botto fragoroso. Pensarono che Li Mang sarebbe entrato buttando giù la porta. Ma poi fino all’alba non ci fu più nulla, ragion per cui la moglie di Shi Genzi rimase l’intera notte seduta, in preda al panico, dicendo che ci doveva andare, ci doveva andare, e adesso sicuro capiterà qualcosa. Ma lui ripeté: «Potrà mica mangiar la gente?» E lei rispose: «Tu mica lo conosci». «È forse alto una spanna più degli altri?» E lei disse che «no, non è alto una spanna più degli altri, ma tu in tanti anni hai mai osato dargli contro?» «È vero» ammise lui, «non l’ho fatto, ma se domani si azzarda a entrare in casa mia giuro che prendo il bastone e gli sfondo la testa». Lei sbuffò col naso, rimase un po’ in silenzio, infine nel buio della notte mormorò:

    «Shi Genzi, se solo tu riuscissi a sputare anche solo una volta in faccia a Li Mang, allora sì che ti potresti dire uomo».

    Lui le lanciò un’occhiata, ma scorse solo una macchia grigia che, sotto la luce incerta della luna, pareva un fagotto di lenzuola ammonticchiato sul letto. Infine si tirò addosso le coperte per dormire, tacque del tutto e riuscì perfino a cadere in un sonno affannoso in cui sognava di raccogliere ossa nella terra dei fantasmi. La mattina dopo, al risveglio, vide la moglie ancora lì, seduta sulla punta del letto, con il viso bianco come un foglio di carta.

    «Non hai dormito per niente?» domandò.

    «Puoi scommetterci che oggi succede qualcosa».

    «Tranquilla, oggi alla terra dei fantasmi non ci vado».

    «Ieri dovevo obbedire a Li Mang».

    «Su, va’ a farmi una bella focaccia, oggi devo essere in forze».

    «Shi Genzi, ti chiedo perdono, chiedo scusa a te e a tuo figlio, sono stata io a ridurti la vita in questo stato».

    «Vai, fammi una bella focaccia, oggi ho

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