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Le quattro piume
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Le quattro piume
E-book323 pagine4 ore

Le quattro piume

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Info su questo ebook


Alla vigilia dello scoppio della guerra in Sudan, Harry Feversham abbandona l'esercito. Poco dopo riceve una scatola con quattro piume, segno di vigliaccheria: a spedirgliele sono tre amici e colleghi e la sua promessa sposa Ethne.
Deciso a riscattare il suo onore, Harry parte per l'Africa dove, camuffato da musicista ambulante, veglierà sui suoi amici per salvarli nel momento del bisogno. Il suo obiettivo è tornare un giorno in Inghilterra e restituire l'ultima piuma a Ethne...
Un romanzo di amore e guerra potente ed epico, che Hollywood ha più volte trasposto in film.
LinguaItaliano
Data di uscita15 lug 2019
ISBN9788899403775
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    Anteprima del libro

    Le quattro piume - Alfred E. W. Mason

    42

    Dello stesso autore nella collana GialloAurora:

    La casa della freccia

    Alfred E. W. Mason, Le quattro piume

    1a edizione Landscape Books, luglio 2019

    Collana Aurora n° 42

    © Landscape Books 2019

    Titolo originale: The Four Feathers

    Traduzione di Maria Martone dall'edizione Sonzogno 1933, riveduta e aggiornata

    www.landscape-books.com

    ISBN 978-88-99403-77-5

    In copertina: rielaborazione da Richard Caton Woodville

    Realizzazione a cura di WAY TO ePUB

    Alfred E. W. Mason

    Le quattro piume

    I.

    La Notte Crimeana

    Il primo degli invitati del generale Feversham che arrivò a Broad Place fu il tenente Sutch. Erano le cinque di un pomeriggio soleggiato di giugno, e la vecchia casa di mattoni rossi, situata su uno sperone meridionale delle alture del Surrey, sorgeva dalle profondità di una pineta con lo splendore caldo d’un prezioso gioiello. Il tenente Sutch attraversò il vestibolo, popolato dai ritratti dei Feversham, e uscì sulla terrazza di pietra. Vi trovò il suo ospite, seduto, che guardava verso il sud, verso la catena dei Sussex Downs.

    «Come va il piede?», domandò il generale Feversham, alzandosi con impeto giovanile dalla sua sedia. Era un piccolo uomo nervoso, vivacissimo nonostante i capelli bianchi. Ma la vivacità non andava oltre il corpo. Il viso ossuto, con la fronte alta e stretta e gli occhi inespressivi, dai bagliori d’acciaio, suggerivano un’intelligenza poco aperta.

    «Non mi ha dato pace, quest’inverno», rispose Sutch. «Ma c’era da aspettarselo».

    Il generale Feversham annuì col capo e per qualche istante i due uomini rimasero in silenzio. Sotto la terrazza, il terreno precipitava bruscamente fino a una vasta pianura dove tra prati di smeraldo si ergevano massicci ciuffi d’alberi. Dalla pianura, deboli ma chiare, voci diverse salivano verso il sole. Lontano, verso Horsham, il pennacchio di fumo candido di un treno serpeggiava rapidamente tra gli alberi; e sull’orizzonte si ergevano i Downs, macchiati di chiazze calcaree.

    «Sapevo che vi avrei trovato qui», disse infine Sutch.

    «Era l’angolo preferito di mia moglie», rispose Feversham con voce indifferente. «Rimaneva seduta qui per ore e ore. Aveva una strana predilezione per gli orizzonti aperti e vasti».

    «Sì», approvò Sutch. «Le sue fantasie bastavano a popolarli. Era una donna dall’immaginazione vivacissima».

    Il generale Feversham guardò il suo compagno come se non avesse capito, ma non disse nulla. Le cose che non capiva, di solito le bandiva dalla sua mente, giudicandole indegne di riflessione. Immediatamente cambiò argomento.

    «Ci saranno molti posti vacanti stasera, a tavola».

    «Sì. Collins, Barberton e Vaughan se ne sono andati quest’inverno. E se non capita presto qualche cosa di nuovo, anche la nostra morte non provocherà che un trafiletto di più sul Bollettino ufficiale».

    E Sutch stese al sole la sua gamba, spezzata quattordici anni prima dalla caduta di una scala d’assalto.

    «Sono contento che siate venuto prima degli altri», continuò Feversham. «Volevo chiedervi un parere. Questo giorno è per me assai più che l’anniversario del nostro assalto a Redan. Nel preciso istante in cui marciavamo, armati, nell’oscurità…»

    «A ovest delle cave di pietra, ricordo», lo interruppe Sutch, con un sospiro profondo. «Come dimenticarlo?»

    «In quel preciso istante Harry nasceva in questa casa. Ho pensato, quindi, se non avevate nulla in contrario, che egli potrebbe cenare con noi stasera. In questo momento è con me. Naturalmente, entrerà nell’esercito, e la vostra compagnia potrebbe giovargli; non si sa mai».

    «Certo», rispose Sutch, premurosamente. Le sue visite al generale Feversham erano limitate a quei pranzi d’anniversario, perciò egli non conosceva ancora Harry Feversham.

    Per molti anni Sutch si era domandato perché una donna come Muriel Graham, una creatura eccezionale per bellezza e intelligenza, si fosse innamorata del generale Feversham. Ma a questa domanda non aveva mai saputo rispondere. Aveva dovuto accontentarsi di pensare che la scelta di Muriel era caduta su un uomo tanto più anziano di lei e da lei così diverso, per qualche misteriosa ragione. Il coraggio, e una indomabile fiducia in se stesso, erano le sole qualità che distinguevano il generale Feversham. I pensieri di Sutch vagavano ora nel passato, tornando con insistenza a una famosa season londinese di venti anni prima, subito dopo la disgraziata azione di Redan, alla quale egli aveva partecipato con la flotta di mare. Sutch, adesso, era curioso di conoscere Harry Feversham: di sapere se il ragazzo somigliasse al padre o alla madre. Non voleva confessare nemmeno a se stesso che nella sua curiosità ci fosse altro.

    Così, quella sera, Harry Feversham intervenne al pranzo che riuniva gli antichi commilitoni di Redan, e mentre il tenente Sutch lo osservava di sottecchi, ascoltò le storie che gli anziani narravano. Quelle storie si riferivano tutte al tragico inverno crimeano: parlavano di morte, di imprese pericolose, del morso della fame e del gelo. Ma erano narrate semplicemente, senza fronzoli, senza commenti ampollosi, e di rado suscitavano negli ascoltatori un’osservazione più calorosa che Strano! o un’esclamazione più significativa di una risata.

    Eppure Harry Feversham ascoltava intensamente, come se gli episodi narrati con tanta indifferenza si svolgessero in quell’istante, dentro le pareti di quella stanza.

    I suoi occhi neri – gli occhi di sua madre – percorrevano dopo ogni racconto i visi dei presenti, e attendevano, dilatati e fissi, che l’ultima parola venisse pronunciata. Sembrava affascinato e rapito. E il suo viso mutevole rifletteva con tanta perspicacia i moti violenti del suo animo, che Sutch pensò che il ragazzo doveva udire veramente, di volta in volta, il rombo dei cannoni, sostenere la tremenda tensione d’una carica, cavalcare veramente nel folto di uno squadrone verso una nuvola di fumo che sputava fiamme rosse. Quando un maggiore d’artiglieria rievocò la lentezza intollerabile degli ultimi minuti prima di una battaglia e del primo ordine di avanzata, le spalle di Harry s’incurvarono sotto il peso torturante di quell’attesa eterna.

    Ma questa volta il nervosismo estremo del ragazzo si manifestò diversamente. Harry gettò dietro di sé uno sguardo, un unico sguardo tremante, furtivo, e il tenente Sutch ne fu meravigliato, più che meravigliato, addolorato. Giacché non poteva dimenticare che Harry era il figlio di Muriel Graham.

    Quello sguardo Sutch lo conosceva bene. Lo aveva visto troppo spesso sul viso delle reclute al loro primo incontro col fuoco, per non riconoscerlo immediatamente.

    Sutch gettò a sua volta una rapida occhiata circolare sui commensali, temendo che il generale Feversham o qualcuno degli invitati avesse fatto la stessa osservazione. Ma nessuno badava al ragazzo: ognuno aspettava ansiosamente l’occasione di narrare qualche storia sua. Con un sospiro di sollievo Sutch si voltò nuovamente verso Harry e lo vide, con i gomiti puntati sulla tovaglia e la testa fra le mani, perso in un suo mondo caotico di grida e feriti, e folli cavalcate nel fumo dei cannoni. La più breve, più succinta descrizione della dura vita delle trincee faceva rabbrividire il ragazzo. Perfino il suo volto si era contratto, come se il gelo di quell’inverno gli fosse veramente penetrato nelle ossa. Sutch, allora, gli toccò leggermente il gomito.

    «Voi mi fate rivivere quei giorni», disse. «Malgrado l’afa estiva, sento il gelo della Crimea».

    Harry parve uscire da un sogno.

    «Sono questi racconti che ve li fanno rivivere», replicò.

    «No, è il vostro modo di ascoltarli».

    Prima che Harry potesse rispondere, la voce del generale Feversham risuonò aspramente all’altra estremità della tavola.

    «Harry, l’orologio!»

    Immediatamente tutte le teste si voltarono verso il ragazzo. Le lancette dell’orologio combaciavano: era mezzanotte, e dalle otto, senza una parola né una domanda, egli aveva ascoltato in silenzio i racconti dei commilitoni di suo padre. Eppure non sembrava stanco: si alzò con riluttanza.

    «Devo proprio andare, papà?», chiese. Gli invitati del generale protestarono in coro.

    «È il suo compleanno», disse il maggiore d’artiglieria. «Lasciatelo rimanere, Feversham: non vedete che ne muore dalla voglia? Un ragazzo di quattordici anni non sarebbe rimasto per tante ore, senza nemmeno assestare un calcio al piede della tavola, se la conversazione non lo avesse interessato. Lasciatelo rimanere, Feversham».

    Per una volta il generale Feversham rallentò la ferrea disciplina sotto cui il ragazzo viveva.

    «E sia», disse. «Harry avrà un’ora di grazia. Un’ora sola, però».

    Gli occhi di Harry si posarono sul padre, e per un istante ne fissarono il viso con uno strano sguardo. A Sutch sembrò che quei grandi occhi neri formulassero una domanda, e a torto o a ragione egli la tradusse dentro di sé in parole:

    Sei cieco?

    Ma Feversham già aveva ripreso a parlare con i suoi vicini di tavola. Harry riprese in silenzio il suo posto, e appoggiando di nuovo il mento sui gomiti, ascoltò con tutta l’anima. Eppure non si divertiva: sembrava piuttosto affascinato. Il suo viso si faceva sempre più pallido, i suoi occhi si dilatavano, mentre le fiammelle dei candelabri splendevano più rosse nel fumo denso del tabacco, e il livello del vino si abbassava rapidamente nelle bottiglie.

    Così passò mezz’ora della tregua concessa. A un tratto, il generale Feversham, colpito dall’inopportuna menzione di un nome, incominciò, con la sua disordinata violenza.

    «Lord Wilmington. Uno dei più bei nomi d’Inghilterra, come sapete. Avete mai visto il suo castello, nel Warwickshire? Ogni centimetro quadrato di quella terra, se potesse parlare, ordinerebbe al suo proprietario di mostrarsi degno del nome dei padri… Nessuno ci credeva, sulle prime, ma poi la diceria prese consistenza. Sussurrata ad Alma, fu commentata forte a Inkermann, gridata a Balaclava. Davanti a Sebastopoli, l’orribile accusa fu provata vera. Wilmington era la staffetta del generale: e sono certo che il generale l’aveva scelto per additargli il suo dovere e dargli un’occasione di smentire le calunnie. C’erano trecento metri di terreno spazzato dai cannoni, e una lettera da portare al di là. Se Wilmington fosse precipitato dal suo cavallo, recando quella lettera, le dicerie sarebbero cessate per sempre. Se fosse tornato vivo avrebbe guadagnato anche una medaglia. Ma rifiutò. Pare incredibile, ma ebbe paura! Quando era già in sella, tremando, rifiutò! Avreste dovuto vedere il generale! Si fece più rosso di questo Borgogna. Avrete certo un impegno più urgente disse, con voce cortesissima. Nient’altro, non una parola d’offesa. Un impegno più urgente su un campo di battaglia! Non potei fare a meno di ridere! Ma per Wilmington la faccenda finì tragicamente. Fu radiato dall’esercito, si capisce, e dovette tornare a Londra. Tutte le porte si chiusero davanti a lui, i suoi amici lo abbandonarono senza pietà. Quando passava per Piccadilly, persino le donne sputavano in terra, se egli rivolgeva loro la parola. Finì col farsi saltare le cervella in una camera ammobiliata di Haymarket. Curioso, no? Non aveva avuto il coraggio di far fronte alle pallottole, quando il suo onore era in gioco, ed ebbe quello di uccidersi, poi».

    Sutch alzò gli occhi a guardare l’orologio: mancava un quarto all’una. Harry Feversham aveva ancora un quarto d’ora di grazia, e quel quarto d’ora fu riempito da un generale medico in ritiro, con una grande barba bianca, che sedeva quasi di fronte al ragazzo.

    «Conosco un incidente ancora più curioso», disse. «L’uomo di cui vi parlo non era mai stato al fuoco, prima, ma era medico come me avvezzo a guardare la morte da vicino. Né si può dire che fosse veramente in pericolo. La faccenda accadde durante una campagna in India. Eravamo accampati in una valle, e una manciata di indigeni, dalle colline, ci scaricava addosso i suoi fucili. Un palla perforò la tenda dell’ospedale: ecco tutto. Il mio collega fuggì nell’oscurità: la mattina lo trovarono morto in un lago di sangue».

    «Era stato colpito?», domandò il maggiore.

    «Nient’affatto», disse il medico. «Aveva aperto tranquillamente la sua busta, nelle tenebre, ed estrattone un bisturi si era reciso l’arteria femorale. Un accesso irresistibile di panico provocato dal sibilo di una palla, nient’altro».

    Perfino su quegli uomini che avevano fatto il callo a ogni sorta di orrori, l’incidente, riferito nella sua scarna semplicità, produsse il suo effetto. Alcuni emisero un’esclamazione incredula, altri si agitarono nervosamente sulle loro sedie con una specie di conforto fisico, all’idea che un uomo potesse essere caduto così in basso. Un ufficiale vuotò d’un sorso il bicchiere; un altro scrollò le spalle, come per scuotere da sé quella notizia, come un cane si scuote di dosso l’acqua che lo bagna. In tutta l’assemblea nel silenzio che seguì il racconto, uno solo rimase perfettamente immobile e muto: Harry Feversham.

    Con le mani intrecciate intorno alle ginocchia, egli si protendeva ora lievemente sulla tavola, verso il narratore, pallidissime le guance, accesi gli occhi di uno sguardo nuovo, duro e quasi feroce. Sembrava un animale pericoloso caduto in una trappola. Il suo corpo era raccolto, i muscoli irrigiditi. Sutch ebbe quasi timore che il ragazzo si precipitasse sul generale medico per colpirlo con la violenza della disperazione. E già aveva teso una mano, incoscientemente, per trattenerlo, quando la voce metallica del generale Feversham risuonò di nuovo, e l’atteggiamento del ragazzo subito si ricompose.

    «Accadono talvolta cose veramente incomprensibili», diceva il generale. «Eccone per esempio due. Davanti alla loro irrefutabile realtà non ci rimane che pregare Iddio perché ci permetta di dimenticarle. Ma spiegarle non si può. Perché non si può capirle».

    Sutch fu spinto a posare la mano sulla spalla di Harry.

    «E voi, potete capirle?», domandò. Si pentì della domanda quasi prima di averla pronunciata. Gli occhi di Harry si voltarono rapidamente verso Sutch, posandosi sul suo viso, non già turbati o supplichevoli, ma calmi, impenetrabili. Alla domanda il ragazzo non rispose, pensò il generale Feversham a rispondervi, a modo suo.

    «Harry le capisce!», esclamò il generale con un grugnito d’indignazione. «Dimenticate che è un Feversham?»

    La domanda che lo sguardo di Harry aveva formulato poco prima, Sutch la ripeté ora senza parlare. Siete cieco? domandarono i suoi occhi al generale Feversham. Un Feversham, Harry? Il ragazzo portava, sì, il nome di suo padre, ma aveva gli occhi neri e trasognati della madre, l’ampia fronte materna, il profilo delicato, l’immaginazione infiammabile di Muriel Graham. Ma forse soltanto un estraneo poteva accorgersi della verità. Il padre era così abituato all’aspetto di suo figlio, che non vi faceva più caso.

    «L’orologio, Harry!»

    L’ora di grazia era trascorsa. Harry si alzò.

    «Buonanotte, signori», disse sospirando forte, e uscì dalla stanza.

    La servitù era già tutta a letto, e quando Harry aprì la porta, l’anticamera nera si spalancò davanti a lui come la bocca della notte. Per uno o due secondi il ragazzo esitò sulla soglia, e sembrò quasi retrocedere nella stanza illuminata, come se un pericolo lo minacciasse. E un pericolo infatti lo minacciava: i suoi pensieri.

    Uscito infine dalla stanza, si chiuse la porta alle spalle. Le caraffe circolarono di nuovo, altre bottiglie vennero stappate, la conversazione continuò ad aggirarsi sui soliti argomenti. In un istante tutti dimenticarono Harry; tutti, tranne Sutch. Il tenente, benché si vantasse di essere un giudice imparziale e freddo di uomini e di circostanze, era in realtà la migliore pasta d’uomo, più buono assai che perspicace. Di più, ragioni speciali lo spingevano a interessarsi vivamente ad Harry Feversham. Rimase per qualche istante al suo posto con aria perplessa e turbata, poi, cedendo a un impulso, si avvicinò alla porta, l’aprì senza rumore, se la chiuse dolcemente alle spalle e passò in punta di piedi nell’anticamera.

    Ecco quel che vide: Harry Feversham, nel centro della stanza, reggeva la candela alta sulla sua testa guardando i ritratti dei Feversham salire sui muri e perdersi nell’oscurità del soffitto. Un suono confuso e debole di voci giungeva dalla stanza da pranzo, ma l’anticamera era silenziosa. Harry stava perfettamente immobile: la sola cosa che si muovesse era la fiammella gialla della candela, agitata evidentemente da un lieve soffio d’aria. La luce tremava sui ritratti rivelando qua e là una giacca rossa coperta d’alamari, una corazza d’acciaio. Non c’era ritratto sui muri che non luccicasse dei colori di un’uniforme, e i ritratti erano molti. Di padre in figlio, i Feversham erano stati tutti soldati, dall’origine della famiglia. Padri e figli, in colletti di pizzo e stivaloni di cuoio, in parrucche candide e corazze d’acciaio, in giubbe di velluto, con i capelli incipriati, in berrettoni di pelo e giacche a coda di rondine, in calzoni a strisce e giubbe coperte di alamari, fissavano tutti l’ultimo dei Feversham ordinandogli di abbracciare con entusiasmo il mestiere delle armi. Erano tutti uomini dello stesso stampo; la diversità delle uniformi non mascherava la loro parentela: uomini dai visi duri come il ferro, dai lineamenti fermi e grossolani, labbra sottili, con menti pronunciati e bocche quasi diritte, fronti basse e occhi azzurri, freddi e inespressivi; uomini ricchi di coraggio di energia, senza dubbio, ma privi di sensibilità, di nervi, privi soprattutto del dono pericoloso e magnifico dell’immaginazione; uomini tutti d’un pezzo, che non si erano distinti né per delicatezza né per intelligenza; per dirla più sinceramente, piuttosto mediocri; combattenti di prim’ordine, sì; ma non soldati di prim’ordine.

    Ma Harry Feversham non sembrava vedere i loro difetti. Per lui erano tutti portentosi e terribili. Stava davanti a loro nell’atteggiamento di un colpevole davanti ai giudici, leggendo in quegli occhi freddi e impassibili la sua condanna. Ora Sutch capiva perché la fiamma della candela tremasse. Nell’anticamera non c’erano correnti d’aria: era la mano del ragazzo che tremava. E finalmente, come se avesse udito la voce dei suoi giudici pronunciare una sentenza che gli sembrava giusta, Harry s’inchinò davanti ai ritratti dei suoi antenati. Mentre alzava la testa, vide il tenente Sutch sotto l’arco della porta.

    Non ebbe un sussulto, non pronunciò una parola; fissando tranquillamente Sutch, attese. Dei due, l’uomo era il più imbarazzato.

    «Harry», disse, e malgrado il suo imbarazzo ebbe il tatto di non parlargli come a un ragazzo ma come a un coetaneo, a un amico, «noi ci siamo conosciuti appena stasera. Ma io sono stato amico di vostra madre, molti anni fa. Avete qualcosa da dirmi?»

    «Nulla», rispose Harry.

    «Confidando a un amico una pena, spesso la si può alleggerire».

    «Siete molto gentile, ma non ho nulla da dirvi».

    Il tenente Sutch era sempre più imbarazzato. La solitudine del ragazzo lo commuoveva profondamente. Giacché il ragazzo, così diverso nel viso e nel carattere dal padre e dagli avi del padre, non poteva essere che solo. Ma egli, che poteva fare di più? Il suo tatto gli venne improvvisamente in aiuto.

    «Troverete il mio indirizzo su questo biglietto», disse estraendo di tasca il portafogli. «Forse un giorno mi farete il piacere di accettare la mia ospitalità. Posso offrirvi qualche partita di caccia. Nella mia proprietà la selvaggina non manca».

    Uno spasimo di dolore contrasse per un brevissimo istante il viso impenetrabile del ragazzo. Ma si dileguò subito.

    «Grazie, Sutch», ripeté Harry, con voce monotona. «Siete molto gentile».

    «E se sentirete il bisogno di discutere con un uomo più anziano di voi su qualche questione che vi sembrerà difficile, ricordatevi che sono al vostro servizio».

    Harry prese il biglietto, ringraziando ancora. Poi si avviò verso lo scalone che conduceva al primo piano.

    Il tenente Sutch attese nell’anticamera finché la luce della candela non fu completamente svanita. Era certo di aver lasciato sfuggire un’occasione che forse non sarebbe più ritornata. Avrebbe voluto dire al ragazzo altre parole, ma gliene era mancato il coraggio. Ritornò nella sala da pranzo e come per riparare alla sua omissione, prese il bicchiere e intimò il silenzio.

    «Signori», disse, «è il 15 giugno». Un coro di applausi e di grida festose si levò intorno a lui. «Questa data è non solo l’anniversario del nostro attacco a Redan, ma anche il compleanno di Harry Feversham. Noi siamo ormai vecchi, il nostro compito è finito. Vi chiedo di bere alla salute di uno dei più giovani nostri continuatori. Le tradizioni della famiglia Feversham vi sono note: possa Harry Feversham perpetuarle degnamente! Possa egli aggiungere gloria a un nome già così onorato!»

    Immediatamente tutti balzarono in piedi.

    «Viva Harry Feversham!»

    Il nome fu gridato con tanto entusiasmo che i bicchieri sulla tavola ne tintinnarono. «Harry Feversham! Harry Feversham!» ripeterono in coro i vecchi commilitoni, mentre il generale Feversham arrossiva di orgoglio. E qualche istante dopo un ragazzo nella sua camera all’ultimo piano, udendo salire verso di lui parole smorzate di un coro guerresco, credeva che gli invitati della notte crimeana festeggiassero suo padre. Incapace di prender sonno, si rivoltava penosamente nel letto. Tremando, vedeva nel buio un ufficiale degradato errare nei vicoli più deserti di Londra; vedeva un uomo morto nel suo sangue, con un bisturi nella mano irrigidita. E l’ufficiale degradato e il chirurgo morto avevano lo stesso viso; il viso di Harry Feversham.

    II.

    Il capitano Trench e un telegramma

    Tredici anni dopo, nello stesso mese di giugno, si bevve ancora alla salute di Harry Feversham, ma meno rumorosamente e da una compagnia più piccola. Al ritorno del suo reggimento dall’India, Harry si era installato in un piccolo appartamento al decimo piano di un enorme edificio che sovrastava Westminster; e fu nella sala da pranzo di quell’appartamento che si svolse la semplice cerimonia.

    Intorno alla tavola sedevano quattro uomini, fumando. Harry Feversham non sembrava malato, solo il suo labbro superiore era ombreggiato da baffetti biondi, in contrasto con i suoi capelli neri. Egli era adesso un uomo di media statura, di corporatura asciutta e armoniosa, come un atleta; i suoi tratti non avevano subito alterazioni dalla sera in cui il tenente Sutch li aveva studiati così attentamente. Dei presenti, due erano suoi commilitoni, come lui in permesso in Inghilterra, che egli aveva invitati quella sera, incontrandoli al club: il capitano Trench, un ometto dalla calvizie incipiente, con un viso asciutto, illuminato da occhi neri penetranti e lucidi, e il tenente Willoughby, un ufficiale di stampo assai diverso. La sua fronte sfuggente, il naso corto e grosso e un paio d’occhi sporgenti e vuoti gli davano un’aria d’invincibile stupidità. Oltre che stupido, era ostinato; e la sua ostinazione gli impediva di riconoscere il male che la sua stupidità poteva fare. Volerlo persuadere era un’impresa disperata, poiché avendo poche idee egli vi attaccava tenacemente: era inutile discutere con lui, dal momento che invece di cercare di capirvi, tronfio, soddisfatto, egli continuava a rivolgere dietro la sua fronte sfuggente i suoi zoppicanti pensieri. Il quarto commensale era Durrance, tenente nell’East Surrey Regiment, il migliore amico di Feversham, accorso in posta a un telegramma.

    Si era nel giugno del 1882 e i pensieri dei borghesi si volgevano ansiosamente all’Egitto, quelli dei soldati con impazienza e desiderio. Arabi Pascià, malgrado ogni ammonimento, continuava a irrobustire le fortificazioni di Alessandria, e già a una gran distanza, verso il Sud, l’altro, il grande pericolo, minacciava come una nuvola pregna di tempesta. Era passato un anno da quando Mohammed Ahmed, giovane e snello Dongolawi, aveva attraversato i villaggi del Nilo Bianco predicando con ardore l’avvento d’un Salvatore. Le doloranti vittime dei Turchi l’avevano ascoltato, avevano raccolto la promessa ripetuta dal vento alle erbe inaridite, e trovato i santi nomi impressi perfino sulle uova degli uccelli selvaggi. Nel 1882, infine, Mohammed si era rivelato per il Salvatore, e aveva vinto le prime battaglie contro i Turchi.

    «Ci sarà del torbido», disse Trench, e su questo tema il discorso si aggirò a lungo. Durante una pausa, tuttavia, Harry Feversham passò a un argomento completamente diverso.

    «Sono molto lieto che abbiate accettato il mio invito», disse. «Avevo telegrafato anche a Castleton, un nostro ufficiale», spiegò a Durrance; «ma si è scusato; doveva cenare con un pezzo grosso del Ministero della Guerra, prima di partire per la Scozia. Ho una notizia da darvi».

    I tre uomini si protesero verso il

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