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Le indagini del commissario Calligaris
Le indagini del commissario Calligaris
Le indagini del commissario Calligaris
E-book690 pagine9 ore

Le indagini del commissario Calligaris

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Info su questo ebook

Tre gialli in perfetto stile Agatha Christie

Uno strano caso per il commissario Calligaris • Il giallo di villa Ravelli • Il giallo di palazzo Corsetti

Il commissario Adalgisa Calligaris è una donna dura, brusca, per niente bella ma con un’intelligenza imbattibile. Ha deciso di concedersi un po’ di riposo e si è trasferita in un tranquillo paesino umbro, ma anche qui i problemi non tardano ad arrivare, quando viene rinvenuto un cadavere. Il corpo è quello di una cittadina americana, ospite di un centro benessere. Ad aiutare Adalgisa c’è Carlo Petri, il medico legale, che ai tempi della scuola era stato il grande amore del futuro commissario…
Nel secondo caso, il corpo senza vita di Silvia Ravelli è stato trovato dalla sorella nella sua villa. L’ha uccisa un colpo di arma da fuoco, ma non c’è traccia della pistola. Tra le due sorelle non correva buon sangue, ma se Adalgisa vuole arrivare alla verità, deve allargare il raggio delle indagini.
Ne Il giallo di Palazzo Corsetti, la cittadina umbra è stata scelta come location per un reality show musicale. La sera della finale, in diretta nazionale, un terribile incidente trasforma in tragedia il clima festoso della proclamazione e dà inizio a una serie di omicidi misteriosi.

Tre gialli avvincenti, intricati, geniali, irresistibili

«Interessante e mai prevedibile, cattura l’attenzione per poi riversarla in un finale avvincente!»

Alessandra Carnevali
È nata a Orvieto ed è laureata in Lingue. Ha partecipato, in veste di autrice, al Festival di Sanremo 2002 con il brano All’infinito eseguito da Andrea Febo. Nel 2007 è stata la prima blogger accreditata al Festival di Sanremo. Ha curato il blog Festival, sulla musica italiana e Sanremo, per il network Blogosfere. Si occupa di promozione web per eventi e artisti emergenti. La Newton Compton ha pubblicato Uno strano caso per il commissario Calligaris, libro vincitore del Premio ilmioesordio nel 2016, Il giallo di Villa Ravelli e Il giallo di Palazzo Corsetti.
LinguaItaliano
Data di uscita5 feb 2019
ISBN9788822729934
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    Anteprima del libro

    Le indagini del commissario Calligaris - Alessandra Carnevali

    2208

    Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento

    a fatti storici, personaggi o luoghi reali è completamente fittizio.

    Altri nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il frutto

    dell’immaginazione dell’autore, e qualunque somiglianza

    con fatti, luoghi o persone reali, viventi o defunte, è del tutto casuale

    Prima edizione ebook: marzo 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2993-4

    www.newtoncompton.com

    Indice

    Uno strano caso per il commissario Calligaris

    Prologo

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Il giallo di Villa Ravelli

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Il giallo di Palazzo Corsetti

    Prologo. Amir

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Capitolo 53

    Capitolo 54

    Capitolo 55

    Capitolo 56

    Capitolo 57

    Ringraziamenti

    Carnevali Alessandra

    Uno strano caso per il Commissario Calligaris

    Ai miei figli, a mio marito e a me stessa

    Prologo

    «Calligaris Adalgisa!».

    La voce aquilina della bionda ed esile professoressa Scarpati, insegnante di Italiano nella

    III C

    della scuola media Pinturicchio di Rivorosso Umbro, rimbombò nel silenzio svaccato e intorpidito della quinta ora.

    «Calligaris…». La Scarpati ripeté nervosamente quel nome cui nessuno sembrava far corrispondere una faccia, strascicandolo malamente come uno zerbino polveroso che avesse bisogno di una sgrullata fuori dal portone.

    Dal penultimo banco a destra, quello abbastanza vicino alla finestra da buscarsi tutto il sole a giugno e tutti gli spifferi a novembre, si alzò una manozza quadrata da carpentiere nano. Da dietro il tavolo emerse una figura vestita di marrone, un parallelepipedo basso, con una capigliatura corvina, riccioluta e asimmetrica, ampiamente distribuita intorno a una facciotta rosata, trapunta di due occhietti tondi e neri, di due narici da maiale e di una boccuccia a cuore, unico particolare aggraziato e armonico in quel totale disastro di adolescente obesa che rispondeva al nome di Adalgisa Calligaris.

    «Presente!», sobbalzò il parallelepipedo riccio e timido, che si era distratto a guardare le foglie dell’oleandro fuori della finestra.

    La classe fu attraversata da risatine sommesse, come un rumore leggero d’erba smossa nel sottobosco al passaggio veloce e invisibile di una lepre.

    La povera ragazza arrossì di colpo e ricadde a sedere rumorosamente sulla sedia di legno dell’ultima fila.

    La Scarpati, insensibile all’evidente desiderio di Adalgisa di sparire dal mondo o almeno di sottrarsi alla vista di quei cialtroni screanzati dei suoi compagni, decise di stanarla definitivamente dal suo rifugio.

    Ravviandosi, con gesto studiato e felino, la folta chioma ossigenata e sistemandosi sul punto vita con entrambe le mani la giacchetta pied-de-poule taglia quarantadue in pendant con la gonna striminzita, che non le arrivava al ginocchio, disse: «Calligaris, non sederti… vieni alla cattedra. Oggi interrogo te che non ho voglia di arrabbiarmi con qualche caprone sfaticato. Su, cocchina, che con te vado sul sicuro».

    Adalgisa Calligaris, tredici anni trascorsi quasi per intero tra libri ostici e merendine ipercaloriche, si alzò ancora una volta dal suo posto e a passetti piccoli e pesanti da cucciolo d’elefante, guadagnò la corsia centrale tra le file dei banchi e si avvicinò alla cattedra nera, andandosi a piazzare in una posizione perfettamente equidistante tra la Scarpati e la lavagna.

    Con le manine grassocce frugò nel contenitore del gesso e, con la punta delle dita cosparsa di polvere candida, ne estrasse un mozzicone bianco e consumato e un cancellino di cui si era ormai perso anche il ricordo del colore originale.

    Lo faceva sempre, ogni volta che era interrogata, anche se la materia, come in quel caso, non prevedeva spiegazioni scritte, disegni, figure geometriche o conteggi sulla lavagna.

    Quei due oggetti, il gesso e il cancellino, le davano sicurezza ed erano per lei i segni del comando, in quelle rare occasioni in cui, lo sapeva, avrebbe dato il meglio di sé.

    Era infatti in quei momenti che Adalgisa, un metro e quaranta per sessanta chili buoni di disagio esistenziale, infilava le ali e volava alto, come una farfalla leggerissima sopra un campo coltivato a broccoli.

    «Calligaris, parlami della poetica del fanciullino in Pascoli…», chiese la professoressa d’italiano, certa di non rimanere delusa.

    Con tre piccoli colpi di tosse, Adalgisa si schiarì la voce e mise in moto il turbo della conoscenza o, come avrebbero detto i maligni, della secchionaggine, e a suon di nomi, dati, fatti, riferimenti, citazioni, ineccepibili agganci interdisciplinari e intere opere poetiche mandate a memoria, li stese tutti, come sempre, quei ventuno ignorantoni che le stavano davanti, capaci soltanto di sghignazzare per i suoi chili mal distribuiti e di fare scena muta persino di fronte alle domande più elementari.

    Adalgisa si prendeva così, periodicamente, piccole rivincite sui suoi simili.

    Erano quelli i suoi trionfi e bisognava vederla quando, piantata a gambe larghe davanti alla cattedra, forniva prova di tutto il suo sapere, compensando, con la bravura e i voti altissimi in tutte le materie, la grave insufficienza nell’unica qualità che avrebbe più d’ogni altra desiderato possedere e che la natura le aveva negato: la bellezza.

    Ventuno somari attoniti tacevano e la guardavano sbalorditi e lei li sorvolava con lo sguardo sicuro di chi sa e compatisce chi ignora.

    I suoi occhietti svegli e rotondi incrociavano quelli bistrati di sonno e di rimmel di Cannavò Isa, la brunetta agile del primo banco, quelli semichiusi di Rotili Giulio, il campione di zonetta nell’ora di buco, quelli cerulei di Sollievi Cristiano, il sosia umbro di Robert Redford, e quelli ruspanti e impertinenti di Canterini Mario, spacciatore di pizza con le cipolle e di torta al testo preparata ogni mattina all’alba da sua madre.

    Si posavano con superiorità sui kilt scozzesi originali di Magliocchi Patrizia, la ragazzina più ricca di Rivorosso, figlia dell’unico notaio della zona e sui jeans impataccati e maleodoranti di Frittomisto, al secolo Gallettini Luigi, che si lavava solo a Natale, e siccome a Natale non c’era scuola, nessuno sapeva che odore e che aspetto avesse quando era pulito.

    Infine lo sguardo di Adalgisa fissava, stavolta con un certo sdegno, le forme proporzionate e allungate della più bella della classe, tale Spatafora Giovanna, figlia dell’avvocato Spatafora, penalista assai noto in paese e in tutta la provincia, per aver difeso e fatto assolvere qualche anno prima il marchese Rospignosi, accusato di aver ucciso a colpi d’ascia, in un raptus di folle gelosia, l’amante della moglie.

    Rossa e fin troppo appariscente per quella che era la sua età anagrafica, Giovanna rappresentava il desiderio segreto di tutti i suoi compagni maschi e di qualche malaccorto professore dalla libido malsana.

    La ricognizione visiva della classe avveniva senza che Adalgisa smettesse per un solo istante di parlare e di rispondere esattamente, punto su punto, alle domande dell’insegnante.

    Quella cicciona li umiliava, metaforicamente li trafiggeva e li uccideva tutti.

    Soltanto quando il suo sguardo arrivava alla penultima fila, la sua voce tradiva un impercettibile cedimento, un graffio stridulo come quello che fa il gesso quando scivola sulla lavagna.

    Gli occhi di Adalgisa allora si abbassavano a terra, disegnando un’unica dolorosa parabola discendente per evitare quelli verdi, belli e arroganti di Petri Carlo, il ripetente più affascinante del centro Italia. Il ragazzo del suo cuore e dei suoi sogni.

    L’amore senza speranza di Adalgisa Calligaris.

    Capitolo 1

    Alle 7:12 del 7 gennaio 2006, la piccola guardiola del commissariato di polizia di Rivorosso Umbro era vuota.

    Rossano Briganti, un poliziotto in sovrappeso, miope e alle soglie della pensione, incaricato di smistare all’ingresso persone, chiamate e segnalazioni di servizio, indirizzandole con ordine ai rispettivi uffici di competenza, in quel momento era chiuso in bagno.

    Briganti trascorreva gran parte della sua giornata al lavoro, accettando anche turni massacranti, offrendosi sempre più spesso di sostituire colleghi più giovani, perché di certo loro, diceva, «sapevano bene come goderselo, il tempo libero».

    Lui no. Lui del tempo libero non sapeva proprio che farsene. Da quando sua moglie Agostina, cinque anni prima, se n’era andata per colpa di un male fulminante al pancreas, Rossano Briganti aveva perso ogni gusto per la vita fuori da quella centrale di polizia.

    Preferiva lavorare, guardiola e centralino, centralino e guardiola, di notte e di giorno, con la pioggia o con il sole, d’estate e d’inverno.

    Al commissariato, almeno, non si sentiva solo. Scambiava due chiacchiere con i colleghi che ormai erano diventati la sua famiglia e si sentiva meno infelice che a casa sua, dove ogni oggetto, ogni mobile, ogni spigolo tornava insistentemente a ricordargli la dolorosa assenza della sua amata Agostina.

    Rossano e Agostina erano stati sposati per trent’anni. Un matrimonio d’amore al quale era mancato solo l’arrivo di un figlio perché risultasse perfetto. Agostina veniva dal paese d’origine dei genitori di Rossano. Nemmeno un comune, piuttosto quattro case sperdute vicino al mare nella provincia di Lecce, in Puglia. Rossano l’aveva conosciuta durante una torrida estate in cui era andato a far visita ai parenti che, data la grande distanza, vedeva ogni due o tre anni, in soggiorni di un paio di settimane da cui tornava ogni volta più frastornato e più in carne di quando era partito. I manicaretti della zia Adelina, il vino di suo nonno Nicola erano assaggi obbligati, così come l’impepata di cozze in quantità industriale che suo cugino Vito preparava la sera del suo arrivo, così che la prima notte in Puglia il povero Rossano la trascorreva immancabilmente a rigirarsi nel letto per la faticosa digestione dei piccantissimi mitili.

    Quella volta, il giorno dopo il suo arrivo e dopo la nottataccia di rito, Rossano si era alzato molto presto e se ne era andato a camminare verso il mare. Albeggiava e non circolava anima viva. Aveva attraversato orti e campi, era passato tra case diroccate e stalle in disuso, fino a sbucare su un viottolo sabbioso che, dopo una piccola salita, ridiscendeva verso una spiaggia di sabbia fina e bianca, lambita da un’acqua color cristallo.

    Quel mare, così trasparente nella calma del mattino, era un invito irresistibile, soprattutto per chi, come Rossano, viveva da quando era ragazzo in Umbria, regione bellissima, rigogliosa e verde, ma del tutto priva di mare.

    Fissando quella distesa che ogni volta lo stupiva e lo conquistava come un paesaggio d’altri mondi, il giovane si era accorto di una figura esile che nuotava in lontananza.

    Le braccia sottili non potevano essere che di una ragazza. Si alzavano ritmicamente una alla volta sopra il pelo dell’acqua e sospingevano verso la riva la giovane donna distesa in superficie. Rossano se ne stava fermo, immobile poco oltre il bagnasciuga con il mare a metà polpaccio.

    La ragazza, che nuotava con lo sguardo fisso al cielo, non si era accorta di lui finché, una volta arrivata nel punto in cui le era stato possibile appoggiare i piedi sul fondo, non aveva riconquistato la posizione eretta, voltandosi a guardare la spiaggia.

    «Buongiorno, signorina!», l’aveva salutata con timida gentilezza Briganti, sorpreso a osservare con un po’ troppa insistenza le forme della giovane donna, coperte soltanto da un due pezzi azzurro non troppo castigato.

    «Buongiorno!», aveva risposto la giovane, strizzando con le mani i lunghi capelli neri. «Mi avete quasi spaventato, non pensavo ci fosse qualcuno qui a quest’ora!».

    «Deve essere bellissimo fare il bagno così presto, ci venite spesso?», le aveva chiesto Rossano, temendo di essere troppo intraprendente.

    «Quasi tutti i giorni d’estate e a volte anche d’inverno, se il clima è mite!», spiegò Agostina, tremando un po’ nel suo costume da bagno gocciolante.

    Rossano era corso a raccogliere l’asciugamano che la ragazza aveva lasciato sulla sabbia e glielo aveva passato.

    «Grazie…».

    «Mi chiamo Rossano, e voi?»

    «Piacere, Agostina! Ah, voi siete il figlio di Briganti quello che si è trasferito al Nord».

    «Be’, proprio Nord non direi, più verso Roma che verso Milano, comunque sì, sono il figlio di Briganti, l’emigrato!», rise Rossano.

    Restarono a parlare, seduti vicini in riva al mare, finché il sole di quell’estate pugliese non diventò cocente.

    Si frequentarono per tutta la durata della vacanza di Rossano e tra una cena di famiglia e un bagno mattutino nel mare di cristallo, si innamorarono.

    A settembre il giovane chiese Agostina in moglie e lei accettò.

    Si sposarono in Puglia, poi partirono per l’Umbria certi che soltanto una cosa gli sarebbe mancata: il mare. Quello trasparente e deserto del loro primo incontro.

    Rossano entrò in polizia, lei prese un diploma da dattilografa e insieme si stabilirono a Rivorosso, dove vissero e lavorarono felici fino al sopraggiungere della malattia di Agostina e della sua morte.

    Dopo quel tristissimo evento, l’avvicinarsi della pensione terrorizzava Briganti, che sarebbe stato persino disposto a falsificare i documenti, pur di poter restare in servizio all’infinito al commissariato di Rivorosso.

    Di mattina, quando era di turno, Briganti arrivava sempre con largo anticipo, mandava a casa qualche minuto prima l’agente del turno di notte, poi si accomodava nella guardiola, sospirando di piacere nel sedersi in quel piccolo stanzino che considerava il suo angolo di paradiso.

    D’estate apriva la finestra all’aria fresca del nuovo giorno, ma era in inverno che il suo rituale di insediamento diventava più complesso e metodico. Rossano Briganti accendeva la piccola stufa alogena all’interno della guardiola e con le mani ancora fredde per aver attraversato l’alba andava a prendersi il caffè caldo al distributore automatico nel corridoio. Quando il suo cubicolo cominciava a diventare tiepido e accogliente, rientrava nella sua postazione.

    Prendeva dalla tasca della giacca un sacchetto di carta bianca, ne apriva i lembi superiori e ne estraeva una croccante brioche appena sfornata, acquistata al forno sotto casa.

    Dopo la frugale prima colazione, a meno di qualche urgenza o contrattempo, si concedeva il quarto d’ora al pensatoio, come lo definiva lui. Andava al gabinetto. Lì seduto risolveva sei definizioni, giuste giuste, non una di più, non una di meno, sulla «Settimana Enigmistica», poi tornava al suo posto.

    Questo ogni mattina che il Signore aveva creato, con la pioggia o con il sole, d’estate e d’inverno.

    Quando il nuovo dirigente, proveniente dal commissariato di Acerra e pronto a prendere servizio a Rivorosso, entrò per la prima volta in quella caserma, Briganti stava affrontando la sua sesta definizione, l’ultima di quella mattina, il venticinque orizzontale del Ghilardi.

    «Lo restituisce il ladro pentito», lesse a voce alta. «Mal-lop-po!», sillabò scrivendo la soluzione. «Sì, e quando mai…», commentò tra sé e sé.

    Nel frattempo non c’era anima viva dentro la guardiola ad attendere il nuovo arrivato. Anzi, la nuova arrivata.

    Perché, a ben guardare, si trattava di una donna. Non molto femminile, a dir la verità. Ma pur sempre una donna.

    Di statura piccola e di corporatura grossa, la buffa sagoma si stagliò in controluce nello specchio del portone d’ingresso, paludata in un cappotto grigio piombo, tipo loden, stretto sulle spalle e svasato in fondo.

    Se non fosse stato per due stivaletti neri a punta che uscivano dal bordo inferiore del paltò, avrebbe fatto pensare proprio a una di quelle campane basse di pietra, in paese più comunemente dette borberi, che su certe strade strette del centro di Rivorosso rappresentavano l’ultima ratio per riuscire a dissuadere impenitenti parcheggiatori selvaggi a sostare dove era tassativamente vietato.

    I capelli corti, ricci e scuri fuoriuscivano ai lati della testa da un berretto di spessa lana nera fatto a mano, senza disegni o ghirigori, quattro scanalature larghe di cannolè e un bordo rigirato alla marinara, che lasciava scoperto un pezzetto di fronte pallida, digradante verso due archi di sopracciglia folte, siepi incolte e scure a ispida difesa di palpebre bianche e senza un filo di trucco.

    Le guance erano rosse per il gran freddo che tutti gli anni il mese di gennaio regalava alla piccola cittadina umbra. Grazie all’uso di provvidenziali guanti in pile, solo casualmente dello stesso colore del cappello, lo stesso destino non era toccato alle mani.

    La destra reggeva con decisione una valigetta di pelle marrone, la cui lucidissima chiusura di metallo tradiva un acquisto recente, fatto forse proprio per quell’occasione.

    La sinistra invece stringeva un ombrello e un quotidiano ancora piegato.

    La piccola donna intabarrata nel loden a campana restò ferma all’ingresso per qualche istante, in attesa che qualcuno del luogo si palesasse ad accoglierla.

    Tentò poi di segnalare la sua presenza, con un: «C’è qualcuno qui?», da mezzosoprano.

    A quel punto si sentì, da dietro una piccola porta a fianco della guardiola, il rumore dello sciacquone di un water. Poi lo scatto della chiave nella serratura e il leggero cigolio della maniglia. La porta si aprì e ne uscì fischiettando l’agente Briganti, con in mano la matita e la «Settimana Enigmistica», che si diresse verso il suo solito posto dentro la guardiola.

    Non si accorse subito della persona che sostava all’ingresso. Con un movimento sussultorio impresso alla grossa pancia molle, che dondolò dentro la giacca della divisa come un budino di latte alla portoghese cullato nello stampo, Briganti si accomodò sulla sedia, non prima di averla avvicinata il più possibile alla stufetta alogena che teneva da un lato della piccola scrivania.

    Solo allora, risollevando la testa canuta e lo sguardo bovino, la vide.

    «Oh, buongiorno, signor… signora. Desidera?»

    «Sono il commissario Calligaris!», si presentò la donna senza un minimo di affabilità, abbassando il timbro della voce da mezzosoprano a contralto.

    «Commissario… che piacere, mi scusi, mi scusi, ma l’aspettavamo solo per domani…», si giustificò l’anziano assistente.

    «Mi piace essere più che puntuale nel mio mestiere», scandì la Calligaris.

    «Certo, certo, tutti dovrebbero fare così», farfugliò Briganti, con le guance infuocate, senza sapere nemmeno cosa voleva dire. «Più puntualità ci vuole, nel lavoro, nella vita, dappertutto. Funzionerebbe tutto meglio, eh dottoressa?»

    «Senta, poche chiacchiere, mi faccia vedere il mio ufficio, agente. Agente…?»

    «Sì, sì, agente, agente semplice… da sempre».

    «Voglio sapere qual è il suo nome!», sbottò quella che al povero Briganti sembrò l’essere più antipatico dell’universo.

    «Briganti, mi chiamo… Briganti Rossano, agli ordini, dottoressa».

    «Briganti, proprio un bel nome per uno che lavora in polizia! Bene, Briganti, il mio nome è Adalgisa Calligaris, ma lei può chiamarmi commissario e basta. Ora mi mostri il mio ufficio, se non le dispiace».

    «Venga, commissario, le faccio strada», si inchinò l’agente, facendo un ampio gesto in avanti col braccio destro teso e la mano aperta.

    S’incamminarono nel corridoio. Briganti davanti, un po’ curvo, le mani intrecciate all’altezza dello stomaco e i gomiti piegati all’altezza di un inesistente punto vita.

    La Calligaris dietro, a naso in su, a sbirciare il soffitto macchiato dall’umidità e l’intonaco screpolato delle pareti, che la luce fredda di un vecchio neon faceva assomigliare a una carta geografica logora e stinta. Si fermarono davanti alla porta centrale in fondo al brutto corridoio.

    Era di legno marrone, con un rettangolo di vetro smerigliato nella parte superiore. Sopra spiccava una targhetta dorata, nuova e lucida, dove ancora non c’era scritto alcun nome. Sostituiva quella precedente assai più vecchia che riportava il nome del reggente storico del commissariato di Rivorosso Umbro, il dottor Graziano Ceccarelli, che aveva mandato avanti quel posto per oltre dieci anni.

    Graziano, sì, che era un grande capo, stava pensando in quel momento Briganti, sorprendendosi tutto a un tratto a rimpiangere persino i baffi e il pizzetto del vecchio commissario, un livornese alto, magro, sempre pronto al sorriso.

    Un sorriso, quello di Ceccarelli, che partiva dagli angoli della bocca e poi finiva per invadergli irresistibilmente tutta la faccia, tanto che si sarebbe potuto dire che stesse ridendo anche con il naso e con le orecchie, mentre una luce di vivace allegria gli si accendeva dentro gli occhi piccoli e azzurri. Peccato che quella pasta d’uomo fosse andato in pensione, rifletteva l’agente Briganti, provando un senso di crescente disagio di fronte alla iena Calligaris.

    La maniglia di ottone era piena di ditate di grasso e anche sulla parte centrale della porta c’erano tracce di sporco.

    «Se le scene del delitto fossero così piene di impronte, qualunque caso sarebbe una passeggiata», osservò acida la Calligaris, fissando con espressione schifata quella sporcizia.

    Briganti tirò fuori un fazzoletto per il naso a quadretti verdi dalla tasca dei pantaloni e si apprestò a lucidare la maniglia.

    «Lasci perdere, procediamo…», lo richiamò lei.

    Rossano aprì la porta e pensò che forse avrebbe fatto meglio a richiuderla e a scappare.

    La Calligaris era attesa per il giorno successivo e quindi nessuno aveva ancora provveduto a far pulire lo studio.

    La ditta di pulizie sarebbe venuta solo quel pomeriggio e la stanza destinata al commissario era in condizioni disastrose. C’erano cartacce dappertutto. Nei cestini stracolmi, sul pavimento, sulla scrivania, sugli scaffali. Cataste di vecchi giornali, verbali impilati e faldoni unti sorgevano in ogni angolo e il piano della scrivania era invaso da cicche maleodoranti, briciole stantie di panini e contenitori vuoti del cinese take-away all’angolo.

    Sopra a tutto quello sfacelo, uno strato di sudiciume alto un dito, di colore verdognolo, più simile a muffa che a una normale patina di polvere.

    L’aria era ferma, fetida, un miscuglio irrespirabile di acari e nicotina.

    Adalgisa Calligaris non si scompose più di tanto. Con l’indice e il pollice della mano sinistra, ancora guantati di nero, si tappò il naso da maialino e piazzandosi a gambe larghe al centro della stanza fece cenno a Briganti di scostare le tende e spalancare le finestre.

    L’agente obbedì. Il freddo pungente invase la stanza e attenuò in poco tempo il tanfo che vi regnava.

    «Dottoressa, lei non doveva essere ancora arrivata… Se veniva domani, trovava tutto in ordine».

    «Cominciamo bene, proprio bene. Mi vada a prendere dei sacchi per l’immondizia e un aspirapolvere, se c’è», disse il nuovo commissario.

    «Ma non spetta a lei pulire. Torni domattina e vedrà che sarà tutto a posto», quasi la implorò Briganti.

    «Non sono abituata a fare marcia indietro e non sarà un po’ di sozzeria a farmi lasciare il mio posto di lavoro».

    Briganti si arrese e tornò verso la guardiola a cercare una scopa e dei sacchi, per assecondare gli ordini di Adalgisa Calligaris.

    All’ingresso incontrò Sergio Fava e Adamo Ritagli, che erano appena rientrati da un sopralluogo nella zona industriale di Rivorosso, dove era stata segnalata un’effrazione a un magazzino di laterizi.

    Il sovrintendente Sergio Fava vide l’espressione rabbuiata di Briganti. «Che è successo, Rossano? Qualche segnalazione urgente?», gli domandò.

    «Altroché. È arrivato il commissario nuovo. Con un giorno d’anticipo. È nel suo ufficio», bisbigliò l’agente, uscendo dalla guardiola con una scopa e un sacco in mano.

    «E questi per chi sono?», chiese Fava indicando i due oggetti.

    «Per la Befana!», gli alitò in faccia Briganti.

    «Befana? Che vuoi dire? Che non è una bella donna?», s’incuriosì l’agente scelto e sciupafemmine sceltissimo Adamo Ritagli, che fino a quel momento era rimasto in disparte.

    «Una donna… è una parola grossa. Diciamo che non è un uomo», provò a riderci su Rossano.

    Fava e Ritagli seguirono Briganti lungo il corridoio e sbirciarono dentro l’ufficio del commissario, dal quale provenivano una corrente di gelo siberiano e il rumore di carta strappata.

    Quello che videro fu un posteriore umano grosso e rotondo, due gambe robuste contenute dentro calze nere settanta denari e stivaletti a mezzo polpaccio che spuntavano da una gonna di panno nero con un piccolo e castissimo spacco, esasperato dalla postura del resto del corpo, proteso in avanti nel tentativo di raccogliere qualcosa da terra.

    A Fava e a Ritagli venne in mente subito il cotechino che avevano mangiato pochi giorni prima al cenone di Capodanno. A entrambi stava per venir da ridere, quando la goffa figura si riappropriò della posizione eretta, si voltò e li fulminò con lo sguardo da sotto il cappelletto di lana ancora calcato sulla zucca.

    «E voi due simpaticoni chi sareste? Invece di stare lì a fare gli imbecilli, datemi una mano a spostare questi fascicoli».

    «Sovrintendente Sergio Fava», si presentò uno.

    «Agente scelto Adamo Ritagli», gli fece eco l’altro.

    E rimasero tutti e due con la mano tesa e il sorriso largo ad aspettare la stretta cordiale del loro nuovo capo.

    Sergio Fava era un uomo stempiato, di media statura, di circa trentotto anni. La sua pancia sporgente tradiva un amore eccessivo per la buona tavola, passione che lo faceva vibrare quasi come quella per le belle donne, alle quali dedicava attenzioni quasi mai adeguatamente corrisposte. Infatti era single.

    Faceva quel mestiere per vocazione famigliare, per patrimonio genetico, si potrebbe dire. Figlio e nipote di poliziotti di grande valore, non aveva esitato un attimo ad arruolarsi anche lui, non appena finito il liceo scientifico.

    L’alternativa sarebbe stata iscriversi a Matematica perché Fava, modestamente, con i numeri era quasi un genio. Da piccolo avevano pensato che soffrisse di una forma particolare di autismo, che lo rendeva capace di contare con precisione i fiammiferi contenuti in una scatola, pur essendo per tutto il resto un bambino vivace e normalissimo. Nel conteggio dei fiammiferi, Sergino, come lo chiamava la sua mamma, era imbattibile.

    La povera donna aveva invano tentato di sfruttare quel talento del figlio per indovinare i quiz milionari della Carrà. La signora Iole Capretta in Fava lo costringeva a vedersi tutte le puntate di Pronto, Raffaella? e ogni volta gli faceva scrivere su un foglietto quanti, secondo lui, potessero essere quei benedetti fagioli dentro quel benedetto vaso di vetro che compariva sullo schermo del televisore, a fianco della platinata showgirl. Una volta che Sergio le aveva dato il numero presunto dei fagioli, si attaccava al telefono per prendere la linea, operazione complicatissima che portava via tempo ed energie e soprattutto la possibilità al resto della famiglia di utilizzare l’apparecchio di casa, fosse pure per questioni di vita o di morte. C’era un altro motivo per cui la signora Iole Capretta Fava era convinta che avrebbe, prima o poi, vinto il monte premi ed era il fatto che suo figlio portava quel nome, Sergio, lo stesso di Japino, fidanzato della Carrà.

    Una volta sola, dopo mesi di tentativi, Iole era riuscita a prendere la linea. La Raffa nazionale le aveva sorriso a trentadue denti e, in diretta Rai, aveva pronunciato proprio il suo nome, esortandola a sparare il numero giusto.

    Iole prese il foglietto di Sergino e urlò nella cornetta: «Quindicimilatrecentoventuno!».

    «Noooo, Iole, di menoooooo!», l’aveva gelata la garrula conduttrice, scuotendo a destra e a sinistra il celebre caschetto biondo.

    Come poteva essere accaduto che il numero indicato dal suo Sergio fosse sbagliato? Eppure era quella la dura verità: Sergino con i legumi si era dimostrato molto meno abile che con i fiammiferi e i milioni della televisione non sarebbero mai arrivati a cambiare la vita della famiglia Fava.

    Adamo Ritagli aveva qualche anno meno di Fava, ma era da tempo il suo inseparabile compagno di pattuglia.

    Di aspetto gradevole, moro, con gli occhi chiari e un pizzetto da moschettiere che gli ornava il mento pronunciato, era il bello del commissariato di polizia di Rivorosso.

    Lontano dallo sguardo geloso di Ines, che aveva sposato un paio d’anni prima, dopo un lungo fidanzamento, corteggiava disinvoltamente qualunque esemplare di sesso femminile gli capitasse a tiro. Colleghe, bariste, cameriere, vittime di furti o rapine, ladre, prostitute, extracomunitarie senza permesso di soggiorno, truffatrici e, se capitava, persino monache.

    Lui le corteggiava per principio, quasi fosse un dovere impostogli dall’essere maschio e belloccio.

    Nel tempo libero, oltre alle donne, Ritagli amava dedicarsi al calcetto e alla pesca sportiva, quindi passava pochissimo tempo a casa con la moglie, anche quando era libero dal lavoro. Potevi trovarlo all’oratorio o al laghetto, a casa mai.

    S’incrociavano a cena, lui arrivava quando la moglie era già pronta per andare a dormire e ora che Ines aspettava un figlio, il collega Fava faceva battute pesanti su quando mai potesse essere avvenuto quel concepimento, data la scarsa frequentazione tra Adamo e la consorte. Ritagli ci rideva su e abbozzava, ma sapeva che di lì a qualche mese avrebbe dovuto cambiare registro e rendersi più disponibile. Sì, perché sarebbe stato un maschietto, doveva nascere ad aprile e lo avrebbero chiamato Americo, come il papà buonanima di Adamo. Ines avrebbe preferito Giulio, ma sul nome di famiglia Ritagli non era affatto disposto a trattare. Una decisione, quella del nome, presa due anni prima, il giorno del funerale del padre, per accontentare il quale aveva deciso di fare il poliziotto.

    In verità nella vita non gli si erano presentate molte alternative e Adamo, di attitudini particolari, a parte quelle, decisamente sportive, al corteggiamento acrobatico e alla conquista su terra battuta, sapeva di non possederne.

    Alla fine poi aveva finito per amarlo, quel lavoro, e ora non sarebbe stato capace di immaginarsi a proprio agio in nessun altro luogo che non fosse la sua macchina di servizio, a fianco del collega e grande amico Sergio Fava.

    «Per le presentazioni avremo tempo, adesso aiutatemi a sgombrare tutta questa mondezza», li intrappolò la Calligaris.

    Fava e Ritagli abbassarono la mano e la cresta e obbedirono senza fiatare.

    Rossano Briganti, con la scusa del centralino telefonico che squillava, si defilò ridendo e si rifugiò al calduccio della guardiola, che mai come allora gli sembrò tanto accogliente.

    Capitolo 2

    Il giorno dopo, il commissariato di polizia di Rivorosso era uno specchio, tanto che avrebbero potuto chiamarlo commissariato di Pulizia, tanto brillava e profumava. Solo ventiquattro ore prima Adalgisa Calligaris aveva fatto sgobbare per l’intera mattinata Fava e Ritagli, costringendoli a carreggiare faldoni e cartelle da una stanza all’altra.

    Li aveva armati di straccio e spray e li aveva tenuti d’occhio affinché rimuovessero fino all’ultimo centimetro quella inquietante patina verde. Poi finalmente, nel primo pomeriggio, era arrivato il camioncino della Limpiatrix, premiata ditta di igiene e pulimento di Dora Lucidi e figlie, e ne era disceso un piccolo drappello di energiche moldave in grembiule azzurro e cuffia rosa che avevano portato a termine l’ardua impresa, liberando Fava e Ritagli da quell’ingrato compito.

    Adalgisa Calligaris aveva esordito così con l’incarico di nuovo commissario di Rivorosso Umbro, che poi era il luogo dove era nata quasi quarant’anni prima e dal quale se ne era andata da circa venti per studiare e per fare carriera in polizia.

    Dopo la laurea in Giurisprudenza conquistata con bacio accademico e a tempo di record alla Sapienza di Roma, con una tesi dal titolo Associazione mafiosa: origini e ipotesi criminologiche e un concorso vinto a pieni voti, Adalgisa era diventata commissario prima di compiere trent’anni e per farsi le ossa aveva lavorato in luoghi dove la vita di un poliziotto ogni mattina è poco più di una scommessa. In certi sperduti paesi del napoletano, dove le leggi le fa la camorra e la polizia è solo un ospite scomodo e mal tollerato. Località il cui solo nome, a sentirlo pronunciare, fa tremare i polsi. Giugliano, Ercolano, Ottaviano, Somma Vesuviana, Acerra…

    Si era fatta valere con inchieste coraggiose su malavitosi intoccabili, indagando le trame più nascoste e provando la collusione di nomi eccellenti con i peggiori trafficanti e assassini. Per questo aveva ricevuto minacce e se l’era vista brutta almeno un paio di volte, faccia a faccia con la manovalanza armata di qualche boss infastidito dalle sue attenzioni.

    Un giorno era stata ferita gravemente in un conflitto a fuoco con dei contrabbandieri di sigarette vicino al porto di Napoli, una pallottola le aveva attraversato un polmone, sfiorando l’aorta, ed era stata dieci giorni tra la vita e la morte. In quella sparatoria era rimasto ucciso l’agente scelto Gaetano Lo Cascio, un giovanotto di nemmeno trent’anni, suo autista e grande amico. Con lui aveva condiviso appostamenti, inseguimenti, pizze fredde e risate dentro l’auto di servizio, paure e progetti. Un ragazzo, quel Lo Cascio, di molti e sani principi, che credeva nella missione del proprio lavoro ed era felice di svolgerlo vicino a una capa – così la chiamava lui – appassionata e intransigente come Adalgisa. La mamma di Gaetano era un’ottima cuoca e quando Lo Cascio scendeva in licenza a Milazzo, spesso mandava alla capa di suo figlio specialità siciliane cui il commissario Calligaris non sapeva resistere. Arancini morbidi e sugosi ripieni di carne, piselli e pomodoro, giganteschi cannoli strabordanti di ricotta, cioccolato e canditi, pignolate al limone, pistacchi di Bronte e qualche bottiglia di Nero d’Avola. E ogni volta le scriveva una letterina con riverenti saluti e apprezzamenti per il coraggioso lavoro che faceva e per come si prendeva cura di quel suo figlio, tanto amato e lontano.

    Non avevano mai parlato a voce né si erano mai viste in faccia, la mamma di Lo Cascio e il commissario Calligaris. La prima volta che accadde fu dopo la morte di Gaetano, al cimitero di Milazzo, dove Adalgisa aveva voluto recarsi, una volta uscita dall’ospedale, per rendere omaggio all’amico e collega. Le due donne si erano abbracciate forte davanti alla lapide del ragazzo ed erano rimaste a lungo in silenzio, a guardare la foto in bianco e nero di Gaetano che sua madre aveva scelto per ricordarlo a tutti. L’immagine lo ritraeva sorridente, solo un anno prima, al matrimonio di un cugino, nel fiore di una vita che non si sarebbe mai pienamente compiuta, fermato per sempre in quella sua bellezza di ragazzo del Sud, della parte più sana del Sud, che non avrebbe conosciuto cedimento o declino.

    Era stata Adalgisa a lasciarsi andare per prima alle lacrime.

    E in quell’istante si era resa conto di dover fare una pausa. Aveva capito di voler tornare a casa da sua madre che cominciava a essere anziana e malandata.

    Almeno per un po’ di tempo e prima che fosse troppo tardi, avrebbe voluto starle vicino e farla preoccupare il meno possibile. Così aveva chiesto un trasferimento provvisorio a Rivorosso e l’avevano accontentata.

    Quell’incarico al paese natio era da considerarsi un’eccezione, quasi un premio, un riconoscimento alla sua integrità e al suo valore.

    Sapeva già che un comando come quello non le avrebbe riservato grosse emozioni o rischi estremi.

    Rivorosso era un paesotto di provincia, al confine tra Umbria e Toscana, con poco meno di ventimila abitanti.

    Si sviluppava in una valle circondata da colline e attraversata da un fiume, quel Rivorosso che dava il nome alla cittadina.

    Quasi tutti gli abitanti avevano in qualche modo origini contadine, molti adesso possedevano terre e bestiame ereditati da un bisnonno, nato mezzadro poi diventato coltivatore diretto.

    I nipoti dei mezzadri avevano tutti studiato e intrapreso carriere da professionisti o, studiando un po’ meno, avviato attività commerciali, e così ora Rivorosso pullulava di bottegai, ristoratori, baristi, ma anche di avvocati, ingegneri, architetti, commercialisti e imprenditori. Un posto quieto, meta di un turismo discreto e tranquillo, costituito per lo più da amanti della natura e delle delizie enogastronomiche umbre. Alcuni personaggi famosi avevano scelto Rivorosso come luogo di villeggiatura ideale o come buen retiro e, tra la metà degli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta, c’era stato il boom degli acquisti e delle ristrutturazioni di vecchi casali e antiche ville disseminate sulle colline intorno al paese. Posizioni privilegiate, lontano da occhi indiscreti, dove il

    VIP

    di turno poteva godere del desiderato riposo, da solo o in compagnia. Se voleva, senza minimamente interagire con la cittadinanza valligiana. Ma la gente del posto – come aveva avuto modo di notare Adalgisa al suo ritorno – era rimasta sempre uguale: chiusa, sospettosa, pettegola e poco incline alle innovazioni esattamente come l’aveva lasciata vent’anni prima. Poche le distrazioni e i passatempi, fatta eccezione per lo struscio serale sul corso e l’aperitivo in piazza del Comune al Bar Centrale. Una decina di tavolini all’aperto, recintati da fioriere discrete, un barista gioviale e una ragazza formosa che serve i drink. A qualsiasi ora del giorno e della sera c’era sempre qualcuno seduto, solitari avventori, gruppi di amici, famiglie con bambini, pensionati a godersi il caffè, un gelato, bibite o una birra e contemporaneamente il passeggio, il sole, il fresco o la vista di qualche bella ragazza. Tra un prosecco e un’oliva, tra un cornetto e un cappuccino, si discuteva di politica, del tempo, del lavoro e delle donne, ma soprattutto si spettegolava a morte su chi non era presente, perché, come disse una volta Audrey Hepburn: «Alla conversazione durante un party, nessuno contribuisce più degli assenti».

    Adalgisa aveva una sua teoria sulle origini del carattere ispido e malevolo dei suoi concittadini, ovvero che la causa di tutto fosse la mancanza del mare.

    L’odore del mare fino a Rivorosso non ci arrivava. A tal proposito, Adalgisa ricordava una cosa che suo padre Pino ripeteva spesso quando lei era bambina. Pino Calligaris diceva che per vedere il mare e per sentirne l’odore bisognava prendere la macchina e fare almeno cento chilometri di curve e tutto questo un rivorossese non è che lo poteva affrontare così, come se nulla fosse. E se lo diceva lui, che di mestiere faceva il camionista, c’era da credergli. Ci si doveva organizzare e lo si faceva solo se si poteva fare, se c’erano, insomma le giuste condizioni. In primis quelle meteorologiche, osservando attentamente il cielo per vedere se fosse limpido, se non minacciasse pioggia, se l’aria fosse sufficientemente tiepida. Poi quelle cronologiche, logistiche ed economiche, assicurandosi di avere il tempo e il mezzo per andare e i soldi sufficienti per tornare.

    «Se tutte queste cose sono come ritieni debbano essere, allora ti organizzi e ci vai», spiegava convinto Pino Calligaris alla figlioletta.

    «Dove, papà?», chiedeva Adalgisa bambina un po’ annoiata da quella disquisizione semiseria.

    «Come dove? Al mare, a sentire l’odore del mare!», esclamava Pino, ridendo di gusto. Per i cittadini di Rivorosso spesso il mare «è un concetto che il pensiero non considera», come nella canzone di Loredana Bertè e non soltanto d’inverno. Anche in estate, quando sarebbe stato più naturale se non inevitabile pensarci, non era tipico, per gli abitanti di quel posto, provare l’irresistibile attrazione, come accadeva ad esempio a quelli di Roma, pronti a fiondarsi in spiaggia, belli organizzati, in costume e ciabatte, non appena il termometro esterno della sala da pranzo avesse superato i quindici gradi e il calendario della cucina avesse lasciato cadere l’ultimo foglio del mese di aprile. Il concetto di abbronzatura, nonché quello di asciugamano, bagnino, bagno, bichini, bicipite, crema solare, ombrellone, onda, sabbia, sole e via considerando, in ordine alfabetico, tutto il corollario del primario concetto di mare, restava perennemente distante dalla mente del rivorossese

    DOC

    , sempre per il famoso fatto che a Rivorosso non arrivava l’odore e non veniva a nessuno tutta quella voglia di scapicollarsi per raggiungere una qualsiasi spiaggia. E dato che il fiume era inquinato e interdetto alla balneazione, al massimo in paese arrivava l’odore del lago, che era diverso da quello del mare, e per quanto anche il concetto di lago fosse stato ampiamente considerato nei testi di canzoni più che note, i suoi effetti sulla gente di Rivorosso erano senza alcun dubbio differenti da quelli del mare.

    A Rivorosso ci si accontentava quindi del lago e ci stava anche chi era convinto che fosse meglio del mare. «E che voe mette il coregone con l’aragosta?» «Viva Bolsena e abbasso Rapallo e pure l’isola de Cavallo. Martana e Amalasunta forever».

    Il lago era diverso. Il lago aveva un altro colore, un verde militare che tendeva al marrone, il fondo melmoso, scivoloso come la groppa di una lumaca, come il torace di un culturista al campionato dei culturisti, e poi ti lasciava addosso un odore di pesce e d’erba marcia, che però, unitamente alla mancanza del mare, incideva, secondo Adalgisa, sul brutto temperamento degli abitanti di Rivorosso.

    Nonostante il carattere intossicato dei suoi cittadini, a Rivorosso Umbro non accadevano quasi mai cose terribili.

    Al massimo rubavano le galline, spacciavano un po’ di cicoria tagliata con l’indivia e si azzuffavano per la servitù di un passaggio.

    Niente a che vedere con la criminalità organizzata.

    Però sua madre sarebbe stata più serena e questa consapevolezza l’avrebbe ripagata quasi di tutta la noia che avrebbe dovuto sopportare lavorando a Rivorosso, quel borgo tranquillo dal quale era fuggita appena ultimate le scuole superiori.

    Il problema grosso sarebbe stato eventualmente un altro: ritrovarsi a fare i conti con i ricordi che appartenevano alla sua infanzia e alla sua adolescenza, periodi non proprio felici del suo passato.

    Prima di individuare una sua dimensione al di fuori di quel paese di provincialotti ottusi, le uniche dimensioni riconosciute a Adalgisa, fino ai diciott’anni, erano la sua bassa statura e la sua grassezza.

    In un prato di fanciulle in fiore esili come giunchi e leggere come piume, Adalgisa si era sempre sentita ingombrante e grave, come una palla da bowling, sgraziata e maldestra, inadeguata anche alla più che legittima attività del fantasticare su una vita migliore.

    Fuggiva la sua sgradevole realtà nelle letture, evitando accuratamente le storie d’amore che detestava al pari della fantascienza, in quanto, per lei, del tutto inverosimili e irrealizzabili.

    Dopo la scuola tornava a casa sua, nella sua camera e si nutriva di gelati e romanzi gialli, in estate, di pizza e filosofi, d’inverno, non sempre secondo questo abbinamento.

    Rosaria, la madre, si preoccupava di quella figlia così tanto silenziosa e lunare, senza amici o amori, che passava la giovinezza aggrappata alla solitudine e allo studio come a un salvagente sgonfio in mezzo al mare in tempesta. A volte, per scuoterla da quella routine, la costringeva ad accompagnarla a fare spese o dal medico e la stanava a forza dal suo bunker, la convinceva a vestirsi con cura, a pettinarsi i capelli all’indietro, a «scoprire la faccia e affrontare il mondo», come diceva lei.

    Adalgisa, suo malgrado, la accontentava ed eseguiva il rituale senza voglia, come una foca ammaestrata per la gioia del domatore.

    Mamma Rosaria in quelle rare occasioni tirava un sospiro di sollievo.

    Una volta in strada, però, arrivavano i tormenti. Le amiche della madre, incrociandole sul corso del paese, le fermavano per salutarle e farsi un po’ gli affari loro.

    «Come sei cresciuta, Adalgi’! Sei ’na signorina, proprio, vero Rosa’?»

    «Che classe fae cocca?»

    «M’hanno detto che a scola see tanto brava».

    «Eh, Rosa’… si ce fosse ancora vivo ’r su poro babbo, pensa quanto sarebbe contento d’avecce ’sta bella fija».

    Adalgisa rispondeva a monosillabi, mentre Rosaria cercava di essere più socievole, ma la irritava che ogni volta dovessero tirare in ballo i morti, nella fattispecie il suo amato Pino, di cui sentiva una bruciante mancanza che il tempo non affievoliva.

    Madre e figlia erano poi entrambe sicure, «da metterci la mano sul fuoco», che una volta allontanatesi, le amiche avrebbero iniziato a sparlare e malignare, in particolare su Adalgisa.

    «Certo che quella fija è fatta proprio col roncio!».

    «Del resto manco la Rosaria è tutta ’sta bellezza! Che voe pretenne, Tuigge?».

    A meno che non si fossero nel frattempo trasferiti tutti in blocco altrove, tornando a Rivorosso Adalgisa avrebbe dovuto incontrare un sacco di gente che, onestamente, non aveva nessuna voglia di rivedere.

    Avrebbe affrontato le cose una alla volta, lì a Rivorosso. Avrebbe frequentato gli indigeni il meno possibile, limitandosi a qualche stretta di mano, in quelli che sarebbero stati gli inevitabili incroci sul corso. «Adalgisa, quanto tempo!», avrebbe esclamato più d’uno, accompagnando la frase con un’immancabile pacca sulla spalla.

    «Ti ho visto nascere!», le avrebbero rivelato le più insospettabili tardone incipriate e lei puntualmente sarebbe stata sul punto di rispondere: «Accidenti però, che sala parto affollata è stata la mia!».

    Poi si sarebbe trattenuta, ma solo per rispetto a sua madre, e sarebbe stata con tutti loquace e calorosa come una pietra tombale. «Bene. Grazie. Prego. Arrivederci», aggiungendo all’occorrenza un «Presenterò», nel caso le fosse stato richiesto di portare i saluti alla cara mamma.

    Adalgisa Calligaris, tornando al paese natio, sperava soprattutto in una diaspora dell’intera classe 1966. Perché la categoria che più la infastidiva dover rivedere era quella dei coetanei, peggio ancora se ex compagni di scuola.

    Sarebbe uscita pochissimo, se non per andare al lavoro o per qualche raro, inderogabile impegno, ma a una cosa non avrebbe mai rinunciato. Al suo vizio segreto. La mania che l’aveva resa schiava e dalla quale da tempo non riusciva più a liberarsi.

    Gli anni trascorsi a Napoli e dintorni le avevano dato il colpo di grazia. Napoli e zone limitrofe erano state la culla di quel vizio assurdo e dilagante e Adalgisa, che ormai poteva considerarsi assuefatta, non sapeva né poteva più uscirne. Si era informata bene. Le avevano detto che anche a Rivorosso circolava quella roba e che erano rimasti in pochi a essere immuni da quella febbre.

    Il primo giorno utile si sarebbe recata sul luogo e avrebbe verificato con i propri occhi fino a che punto la popolazione di Rivorosso fosse preda di quella mania.

    Pur di soddisfare quella pulsione, avrebbe accettato persino di buttarsi in mezzo alla folla del mercato del suo paese, con le immaginabili, terribili conseguenze che Adalgisa tanto temeva.

    Il giovedì successivo si alzò presto e andò al mercato. Immediatamente si rese conto di quanto fosse pesante la situazione persino a Rivorosso.

    Le vittime del vizio erano tante e come nella maggior parte delle città che aveva avuto modo di conoscere, quasi tutte donne.

    Se qualcuno avesse fatto un censimento con relativo tesseramento, sarebbe stato possibile fondare un vero e proprio partito.

    Avrebbe potuto chiamarsi

    PRUA,

    Partito Rovistatrici Usato Ammucchiato.

    A Rivorosso esisteva un quintetto base di veterane, quelle della prima ora o meglio del primo banchetto. Il gruppo, denominato la Banda della Maglina, era formato dai seguenti elementi: Pina, taglia trentotto, età indefinita tra i cinquanta e i settanta, alla perenne ricerca di giacche e maglie piccolissime; segni particolari: amante degli animali; colori preferiti: grigio e bianco. Il Bradipo, taglia cinquanta, sulla settantina, a caccia di vestiti per figlie e nipotini; segni particolari: un’estrema lentezza nei movimenti, in particolare durante la ricerca. Il Dietologo, taglia quarantaquattro, sulla cinquantina, gusti sobri per un abbigliamento basic griffato; segni particolari: se richiesti, elargiva consigli generici sull’alimentazione, mentre era intenta a scegliere i capi nel mucchio. L’Architetto vintage, quarant’anni, taglia quarantasei, abbigliamento anni Settanta e post hippy per sé e prole; segni particolari: un sacco alternativa. La Miliardaria di Rivorosso, taglia continuamente variabile, cinquantacinque anni apertamente dichiarati, così soprannominata da uno dei venditori per via delle voci di una sua misteriosa e recente vincita al superenalotto; segni particolari: continuava a essere pazza per l’usato, ma non si serviva più da chi l’aveva soprannominata così.

    Donne agguerrite e facinorose che ogni giovedì e sabato che il Padreterno aveva fatto, si svegliavano all’alba, sgattaiolavano fuori di casa, eludendo la sorveglianza di mariti e figli, e si avviavano con passo marziale verso il mercato.

    La cosa preoccupante consisteva nel fatto che nessuna di loro faceva quello che ci si sarebbe aspettato da normali e coscienziose casalinghe e madri di famiglia che si rechino in un mercato rionale, ovvero

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