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Il Santo di Materga
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E-book301 pagine4 ore

Il Santo di Materga

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Info su questo ebook

Un parroco di un piccolo borgo dell'entroterra appenninico viene incaricato di svolgere un’indagine per la canonizzazione di un sacerdote vissuto tempo prima negli stessi luoghi e già in odore di santità. Il compito, fra omertà ed entusiasmo, si rivelerà complicato: ognuno racconterà la propria storia, d'una semplicità disarmante, da cui trapelano l'intrigo, l'avidità, l’ipocrisia, la vita, vista come possibilità di mero arricchimento.
Ne risulta un romanzo corale che è un forte atto di accusa nei confronti dello stile di vita di una provincia malata e che ha perso i valori che l'avevano un tempo caratterizzata.

Il Santo di Materga è stato uno dei tre romanzi finalisti della sezione "Romanzo Inedito" del Premio Letterario il Borgo Italiano 2017
 
LinguaItaliano
Data di uscita21 giu 2018
ISBN9788893372626
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    Anteprima del libro

    Il Santo di Materga - Pier Massimo Paloni

    Holden 

    Prologo alla funzione religiosa

    Il celebrante in mezzo all’altare colle mani giunte alzerà gli occhi alla Croce, e quindi dirà: «Oh Signore accogli le mie preghiere».

    Subito dopo si inchinerà, profondamente, senza poggiar però le mani sull’altare, e reciterà: «Oh Signore scaccia da me ogni tentazione».

    Posta poi la mano sinistra sopra il Vangelo, con la destra alzata e a chiara voce esclamerà: «Oh Signore non son degno».

    E, sempre con la mano sinistra sul Vangelo, col pollice della destra formerà una croce sul principio del Vangelo stesso, e quindi, ponendo la destra sul petto, sulla propria fronte, e sulla propria bocca, reciterà: «In nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo».

    Capitolo I

    A Materga il più cretino era milionario e il più milionario era un cretino. Ho sempre pensato che le due cose fossero collegate: come se nella lacuna intellettuale ci fosse una sorta di compensazione, ovvero uno spazio adibito agli affari, per trovare il sistema di far soldi a palate, o come dicono da queste parti, far cantare la volpe.

    E proprio di questo si era trattato. Ossia di scovare, in paese, dopo secoli di stenti, fame e sfortuna, l’idea che risolve, anzi ti rende ricco, ricchissimo e non ti fa più aver paura degli altri, soprattutto paura di quello che pensano di te gli altri, perché a Materga le cose avevano sempre funzionato così.

    Il sabato pomeriggio il Corso Vittorio Emanuele, che tagliava in due la città dalla cattedrale fino all’ingresso dei giardini pubblici, era affollato all’inverosimile sin dalla prima controra. La fontana monumentale nella piazza principale era sempre allegramente zampillante con le sue quattro figure di pietra o gesso nel mezzo del catino idraulico; poco più in là la vecchia torre civica, dall’alto dei suoi trentadue metri, dominava con altezzoso distacco la frotta di gente che cominciava ad uscire dalle proprie case come formiche dalla tana, formando un’oscena calca di persone che andavano su e giù senza sosta, instancabilmente, seguendo il rituale dello struscio ed esibendosi sfrontatamente al giudizio degli altri come su un palcoscenico. Giudizio malizioso in verità, e di cui bisognava aver paura! Spesso anche crudele o fantasioso, ma che comunque ti inchiodava. Ne erano un esempio eclatante i bizzarri nomignoli che si era soliti dare a qualche concittadino stravagante e che in un attimo ti facevano capire di chi si stava sparlando.

    Ecco allora Gorilla, peloso giovanotto scansafatiche che a quarant’anni suonati viveva ancora con la vecchia madre Gegia, nella casa di fronte alla chiesa di S. Agostino; un energumeno ben allergico a qualsiasi tipo di occupazione che non fosse andare a pesca di gamberi nel fiume Esino e che invece di parlare grugniva frasi incomprensibili. Oppure Brodolò, l’apprendista del mite barbiere di Piazza Grande, Puppuro, che non era sufficientemente preciso col pennello e col sapone da barba, e insieme al viso bagnava malamente anche il collo e la camicia dello sfortunato cliente di turno. Sparlare o dire malignità era lo sport preferito di tutti i matergani.

    Così, sotto le feste di Natale, fra le vetrine stracolme di panettoni e torroni, in quella fregola che prende nei giorni di festa – come a voler fare chissà cosa proprio nell’ultimo scampolo dell’anno – la gente, un poco infreddolita e incerta, vagava frettolosa lungo il corso addobbato da povere luminarie e si agitava in Piazza Grande per scegliere i regali da mettere sotto l’albero o per le ultime compere. Forse allora c’era più gusto a mormorare a labbra semichiuse l’ultimo pettegolezzo. Un vento fastidioso si era alzato e portava in ogni casa qualche storia maledetta.

    L’affascinante figlia di Norina, la maestra elementare, sposata a marzo di quello stesso anno, era rimasta in stato interessante durante il suo breve viaggio di nozze. E fin qui nulla di insolito o strano. I suoi anziani genitori, che, come del resto i suoceri, ne erano rimasti assai contenti, dovettero poi ricredersi amaramente perché, nove mesi dopo, appunto durante le feste natalizie, avevano fatto sparire il neonato e la puerpera, spedendoli entrambi in tutta fretta al nord, a casa di una zia ricca, allorché Fatima aveva dato alla luce un bambino mulatto, quasi nero per la verità. Quel cioccolatino scuro era il frutto di una baldoria clandestina con uno sfrontato e assai intraprendente marinaio di colore che sulla nave da crociera Mediterranea, ove i novelli sposi avevano trascorso una settimana di luna di miele davvero indimenticabile, aveva apprezzato quanto il marito, così presto becco, le grazie di quella fascinosa e acculturata ragazza matergana, soprannominata volgarmente Ficadoro.

    Oppure, se non erano storie di sesso, erano storie di soldi. Come aveva fatto il figlio de Lu straccu – si chiedevano in molti – a fare tutti quei milioni in così poco tempo? Non somigliava certo al padre! In effetti Rasoterra era partito con la piccola Azienda di Mobili Metallici, l’A.M.M., neanche due anni prima, e adesso aveva la Porsche Carrera e la villa in Sardegna, dove andava in vacanza ogni estate con tutta la numerosa famiglia. E sì che per avere quel tenore di vita dei suoi mobili metallici ne avrebbe dovuti vendere a migliaia!

    «Ma no – si malignava – ha vinto alla lotteria nazionale e ha in Svizzera un’altra attività intestata a un lontano parente emigrato all’estero, tanto tempo fa, e così non paga le tasse in Italia, il furbo.»

    Ma le storie più squallide mi tocca sentirle in confessionale, allorché la domenica mattina, prima della santa messa nella cattedrale del Beato Marziale, dove sono parroco e indegno servo di Dio da quindici interminabili anni, si forma una lunga coda di penitenti, e tutti, dico proprio tutti, dalla giovanissima Marocchina (adottata come profuga di guerra del Ciad) al serioso dottor Leoncini, professore di liceo, nonché sindaco, con al fianco la sempre elegantissima e silenziosa moglie, la signora Eva, si mettono in fila per confessarsi.

    Aperto, da dietro la grata del confessionale, lo sportellino di legno, senza che io possa vedere i loro volti contriti e tristi, mi espongono con voce fioca i loro peccati e poi diligentemente fanno una comunione coi fiocchi con le mani giunte e gli occhi bassi. Così una mano lava l’altra e tutte e due lavano la coscienza, almeno fino alla prossima domenica. Ma mentre mi bisbigliano le loro colpe, pur apparentemente pentiti, hanno un vizio che detesto. Tutti, durante la confessione – che diventa a sua volta mezzo di mormorazione – si scagliano contro un loro nemico giurato con accuse assurde, che nulla hanno a che vedere con il sacramento che li monda dai loro peccati veniali o mortali che siano. Così finisce che, invece di parlarmi delle loro colpe, più spesso nel confessionale malignano sui loro simili per manchevolezze che considerano molto più gravi delle loro.

    «Deve sapere, caro Don Carlo, – mi bisbiglia tutto dispiaciuto Giacomo, il fornaio dalla faccia impassibile, chiamato appunto Maschera di ferro – che quel fetente di Nino, l’elettricista, ogni volta che va a Civitanova Alta con la sua Lambretta, non è per incontrarsi con qualche fornitore, eh no! È solo per vedersi con una certa Ramona, una bulgara o rumena ventenne, la quale, con rispetto parlando, esercita il più vecchio mestiere del mondo, ossia fa la prostituta.»

    E qui fa una pausa e trattiene il fiato per sentire da dietro la grata del confessionale la mia reazione, che immagina severa, e poi sussurra ancora: «E anche se oggi le chiamano cubiste, con il dovuto rispetto Padre… – e qui, dopo un lungo silenzio, probabilmente guardandosi attorno, e capendo che adesso non si può più tirare indietro, finalmente sbotta – Sempre mignotte sono!».

    Infine, prendendo coraggio dal mio mutismo, aggiunge con voce seria, sicuro di sé: «Pensa che sia giusto, lei, Don Carlo, che quel farabutto lasci ogni sera la moglie sola a casa con tre figli piccoli, di cui l’ultimo scemo? Perché quella Ramona gli costa più del figlio scemo! Ma che siamo matti?» conclude tutto indignato come se si fosse tolto un peso dallo stomaco.

    Io ovviamente, comprensivo, non commento mai, anzi perdono tutti e per tutti chiedo perdono. Concedo assoluzioni a raffica e mi dimentico subito di quelle maldicenze nascoste nel segreto del confessionale, anche se qualche volta a letto prima di addormentarmi ci ripenso con un sottile senso di inquietudine e infinita tristezza.

    Ma oggi devo pensare ad altro. Quest’oggi. Devo sforzarmi di avere più fede nei confronti dei miei parrocchiani. Vista da quassù, a ogni modo la grande cattedrale gotica non mi piace affatto, sembra più piccola, e questo nonostante ci sia una frase, che mi ripetevo spesso quando ero nient’altro che un giovane e sprovveduto seminarista in quel di Firenze, che recita «La chiesa è piccola ma la devozione è grande.»

    Già… La devozione. Ne parlavo proprio ieri l’altro con Don Luigino, chiamato ironicamente il prete corto, per distinguerlo da me che sono più alto; me l’ero visto comparire davanti – tanto che dovetti frenare una risata che stava per esplodere spontanea – con un assurdo e lucentissimo clergyman, nuovo di zecca, che si era orgogliosamente comprato a Roma, quando l’ultima domenica di settembre era andato in udienza dal Santo Padre, ovviamente con tutte le beghine e i fedeli della sua parrocchia.

    «Già… La devozione?» mi ha risposto.

    «Chi la sente più la devozione ai giorni nostri? Invece nella Santa Città del Vaticano si sente, si respira, si palpa, la devozione.»

    L’altra sera mi ha consegnato una lettera della Curia romana; ancora non avevo finito di far cena e, neanche il tempo di prendere un caffè insieme, si è volatilizzato sbattendo forte il portoncino della canonica. Che tipo! Ma è un buon prete, sempre a posto, allegro, adora fare delle battute di spirito e credo anche si tinga i capelli crespi con qualche intruglio colorato, ovviamente di nascosto.

    L’assegnarono da giovane alla diocesi di Materga, con la falsa promessa di sostituirlo il prima possibile e rimandarlo nella sua adorata Puglia, dove ancora vive il suo anziano padre, e dove lui giura splende il sole dieci mesi all’anno, il mare è sempre di un azzurro intenso, il pane è quello tondo, mollicoso e lavorato col metodo antico di Altamura. E invece, beh, c’era da aspettarselo, è rimasto qui da noi fra le montagne fino alla vecchiaia. Oddio, non che sia proprio un prete vecchio: ha poco più di sessant’anni. Tuttavia non si è mai integrato fino in fondo nella nostra tranquilla cittadina: lo noti subito dalla cadenza dialettale, che a volte affiora nella foga dei suoi discorsi sempre agitati, o nell’assoluta devozione nei confronti del frate di Pietrelcina, di cui porta in tasca un rosario ligneo che sgrana nervosamente. Si agita, gesticola, ride, si dimena, si eccita – rosso in viso – nel parlare, voltandosi prima a destra e poi a sinistra come verso un pubblico immaginario. Che tipo, Don Luigino.

    Insomma non sta mai fermo un minuto, il prete corto; e sapete cosa ha fatto una volta? Ha costretto quasi l’intera popolazione matergana ad andare – saranno ormai tre anni – in Puglia, a San Giovanni Rotondo, a visitare la tomba di Padre Pio. E lì, dopo una suggestiva cerimonia e il conseguente bagno di folla, la sera ha invitato quanti poteva a casa sua per mangiare i troccoli alla foggiana, col genitore novantenne che lo guardava estasiato mentre lui parlava e ancora parlava e rideva tutto eccitato raccontando arguzie e barzellette, aneddoti e ricordi della sua infanzia povera ma stupefacente. E gli occhi gli brillavano di contentezza e faceva ampi gesti con le braccia sorridendo con cordialità a tutti e tirandosi su le maniche della tonaca, da dove spuntavano i polsini di una camicia candida con i gemelli dorati a forma di piccolo ferro di cavallo. Nel frattempo il padre, un vecchio agricoltore ancora lucidissimo, le guance percorse da una ragnatela di minuscole vene violacee, gli occhi acquosi ma di un azzurro intenso, lo osservava compiaciuto e se lo mangiava letteralmente con lo sguardo, e raccontava divertito: «È stato sempre così, Luigi, fin da piccolino, che ci volete fare? Sapete, da ragazzino lo chiamavamo quello che non sputa mai, perché parlava, parlava e parlava, Santo Iddio, parlava sempre».

    E mentre il padre rideva, rideva di gusto, versando del liquore nocino a tutti, il figlio da dietro gli faceva le boccacce di nascosto, burlandosi di lui. Però è un prete simpatico, questo prete corto, perché è sempre così allegro e poi… Ma sto divagando, parlando di Don Luigino. Si discorreva di cosa? Ah sì, la devozione. La devozione è come la fede, o ce l’hai o non puoi fartela venire d’incanto. Devo sforzarmi davvero di avere più fede. E quando dico fede, penso non solo a quella in Dio, ma anche a quella negli altri esseri umani, fatti – malamente – a sua immagine e somiglianza. E già. Devo proprio sforzarmi di avere più fede nei confronti dei miei parrocchiani.

    Questo mi andavo ripetendo dopo una notte agitata e insonne per convincermi, mentre salivo all’alba e col fiatone questo viottolo sterrato, sorta di tratturo che porta ai ruderi dell’antica Abbazia di Roti appena fuori città. Tirandomi su con stizza la sottana della tonaca che mi s’attorcigliava malamente fra le gambe.

    Capitolo II

    Da quassù Materga, alle prime luci del nuovo giorno, è proprio una bellezza. Sembra un presepe in miniatura, questa piccola città adagiata in un vallone naturale; pulita e ordinata come un giardino ben curato, dove ogni cosa ha un suo posto e c’è un posto per ogni cosa. La cattedrale in stile tardoromanico, dedicata al monaco benedettino Marziale de’ Liguori e dove io sono stato assegnato come priore, si vede bene, anche se è quasi schiacciata accanto ai monumenti architettonici della piazza principale.

    Osservo stagliarsi severo, nel riflesso livido dell’aurora rosseggiante, il profilo delle arcate rinascimentali del Loggiato dei mercanti, poi sulla destra il Palazzo pretorio con la sua bella facciata neoclassica, e sull’altro lato la piccola chiesetta a croce, detta delle anime purganti; infine, proprio nel mezzo, la fontana monumentale con la sua austera eleganza e le quattro figurette di pietra bianca nella vasca ottagonale. Su tutto però domina il grande simbolo di Materga: quella alta e merlata torre civica, curiosamente esagonale, che svetta orgogliosa sfidando il cielo fra i tanti piccioni che vi svolazzano tutt’attorno, mentre, sul pinnacolo maestoso, un gonfalone bianco e rosso garrisce festoso nell’aria. Dalla finestra del cucinino della canonica è la prima cosa che vedo ogni giorno in quella larga piazza dalla forma irregolare, vero cuore pulsante di tutta la città.

    Ora la torre è interamente coperta da un telone argentato di una ditta romagnola, perché è in restauro, e, sopra quello, un immenso cartellone rigido con una foto a colori: il ritratto di una ragazza giovane e carina, con un curioso elmetto giallo in testa, come quelli che si usano nei cantieri edili, la quale strizza l’occhio con fare complice ai numerosi passanti, sorridendo, con un décolleté fin troppo audace e con una splendida ghiera di denti bianchissimi. Subito sotto, a lettere cubitali, una scritta che recita: Sto lavorando anche per te. Io però non l’ho mai vista lavorare in città! Qui a Materga, voglio dire.

    Materga è ormai la mia città. Diecimila abitanti e diecimila automobili, una per ogni abitante. Davvero! Roba da non crederci. La mattina, molto presto, quando questa tribù motorizzata va a lavoro, con la faccia incollata al volante e gli occhi ancora cisposi, odiando tutto quello che il buon Dio ha creato su questa terra, riesce persino – per un attimo – a mettermi allegria al pari di Don Luigino. Li osservo spesso così altezzosi e nevrotici, agitati e ridicoli, guidare una lunga teoria di autovetture di ogni marca e tipo che escono dai garage ricavati dalle vecchie cantine. Tutti che gesticolano con lo sguardo cattivo e le mani occupate dal telefonino, perennemente acceso, che squilla già imperiosamente. Sì, ma quale? Quello giallo? Quello nero? Quel groviglio di lamiere lucenti si impadronisce in un attimo del vecchio centro storico e blocca tutta la circolazione lungo il corso principale, pomposamente intitolato a Re Vittorio Emanuele, con i negozi ancora chiusi da possenti serrande blindate.

    Per la verità quell’andare affannoso di ogni giorno feriale è uno spasso, oppure uno stress: dipende se si è pedoni o guidatori, ossia se si è poveri o ricchi. Il fatto è, a dirla tutta, che nessuno avrebbe immaginato, non più di quarant’anni fa, che nel giro di poche stagioni ogni matergano degno, cioè ricco, avrebbe acquistato con gioia famelica una favolosa auto di grossa cilindrata, o meglio ancora un’enorme jeep dalla boiserie pregiata, magari col frigobar e il navigatore satellitare in dotazione. E per fare cosa? Mi sono sempre chiesto. Per fare cosa, buon Dio? Visto che Materga è adagiata in una perfetta conca pianeggiante, ridente vallata senza pendii scoscesi né salite proibitive, incassata fra i magici monti Sibillini, che si intravedono da lontano quando non c’è caligine. E poi – scusate tanto – nei suoi vicoli medievali quei fuoristrada mastodontici neanche ci passano, quei gipponi che sembrano carri funebri perché troppo larghi. Per fare cosa, allora?

    Ma è semplice. Unicamente per usarli, lavarli, lucidarli, coccolarli, amarli, persino ripararli con le proprie mani alla bisogna, e sentirsene fiero. Una sorta di feticcio, credo. E poi, ancora, ammirarli eccitati e sentirsene appagati, senza più quell’atavica paura di cui dicevo all’inizio. Infine, per essere invidiati. Ecco per fare cosa. Soprattutto per suscitare un’insana invidia negli altri! Sentimento che dalle nostre parti è imperante e ineluttabile come la morte.

    Non ci credete, vero? Si vede che non siete mai stati a Materga. Venite, allora! Venite a vedere coi vostri occhi quanto ha cambiato la nostra vita il problema del traffico automobilistico in una cittadina dall’impianto urbanistico tipicamente medievale. Che è una bella storia pure quella.

    E a proposito di Storia – questa volta con la esse maiuscola – i due più autorevoli studiosi locali non sono mai stati in accordo sulle origini di questo quieto ed antichissimo borgo dell’entroterra, perché alcuni recenti ritrovamenti di tombe picene in località Crocifisso ne hanno retrodatato la fondazione; da sempre infatti si pensava proto romano, nato sotto l’altisonante nome di Castrum Materghina, come anche Plinio il Vecchio ricorda nella sua Historia Civis.

    Ha preso quindi corpo la tesi che la sua fondazione non fosse intorno al II secolo avanti Cristo, come sempre si era creduto, ma addirittura risalisse a una civiltà fiorita durante l’Età del ferro. E a mente di quella sorprendente scoperta si sono sviluppate due scuole di pensiero opposte e discordanti, le quali ovviamente hanno i loro seguaci e i loro detrattori, tanto che ne è scaturita una formidabile querelle storico-archeologica che per anni ed anni ha illividito, in cortese polemica – come dicevano quando erano ancora vivi – i due più illustri e famosi studiosi matergani, ossia il sempre brillante avvocato Simoncini e il più triste e taciturno professor Malipiero.

    Il primo affermava sicuro: «Certamente la città deriva da un agglomerato di pastori-guerrieri, comunità insediatasi, si deve credere, durante l’Età del ferro e proveniente dalle terre dell’Umbria, i cui componenti un bel dì si sono stanziati verso la valle del fiume Esino per poi costruire le prime capanne di fango e terriccio. Insomma, una Materga picena».

    E il secondo replicava astioso: «Manco per sogno! Materga, come anche il nome di origine latina ricorda, era sicuramente una colonia di epoca pre-romana; genti venute dal nord, discendenti ragionevolmente da fiere tribù alemanne, molto evolute a dirla tutta, come le armi e le suppellettili di stampo teutonico dimostrano; quindi è corretto chiamarla Materga gallica».

    Materga picena, Materga gallica: sempre la stessa storia… E giù prove, reperti, libri, mostre, convegni, ritrovamenti di documenti inediti. Insomma, in poche parole, una polemica storica infinita che ha visto affrontarsi con vigore quei due sapienti e rispettabilissimi studiosi a colpi di dotte pubblicazioni, articoli e quant’altro, come dicono quelli che la sanno lunga su ogni questione di questo disgraziatissimo mondo. Chissà poi chi aveva ragione?

    Alla fine, fra i due, che ormai non si salutavano quasi più, c’è stato persino un poco simpatico strascico giudiziario presso il tribunale di Camerino, ove l’anziano professore di liceo, imbufalito, ha citato in giudizio il più giovane ed esuberante principe del foro per averlo – a suo parere – ingiuriato con derisione sull’innocuo foglio locale, La voce del Beato Marziale, un giornaletto parrocchiale stampato in sole cinquecento copie e a cui collaboro con una mia rubrica, celandomi sotto lo pseudonimo de Il gatto nero.

    L’ingiuria consisteva, poi, nell’aver apostrofato con arguzia l’esimio professore, nonché poeta, scrittore ed esperto di tradizioni matergane, Giuliano Malipiero come quel triste poeta dialettale, il quale blatera sempre con la bocca appena decadente, ironizzando sul fatto, ma chissà quanti lo hanno compreso, che nella sua bocca sfatta di ottantaduenne erano rimasti soltanto dieci denti traballanti. Innocua ironia di provincia, direte voi, ed è quello che ho pensato anch’io. Invece l’altro non l’ha presa affatto bene, anzi si è proprio irritato ed ha chiesto come risarcimento una somma cospicua, da devolvere però alla Croce rossa. A Materga ha sempre funzionato così.

    Solo su una cosa i due informatissimi storici matergani restarono sempre d’accordo: «Ah, su questo non ci piove!» affermavano entrambi con espressione colorita. La bella fontana monumentale nel mezzo di Piazza del Popolo, che sempre è stata chiamata Piazza Grande, citata da ogni guida turistica che si rispetti, quella per intenderci voluta e commissionata da Sua Santità Chierico Bartolomeo Felice Peretti, il sommo pontefice originario di queste parti che salì al soglio di Pietro con il nome di Sisto V e che il popolino chiamava affettuosamente il Papa biondo, è stata realizzata dal maestro Bevilacqua. Su tale questione i due sono stati sempre concordi.

    Quella è sicuramente opera pregevole, raffinata ed incontestabile dell’architetto Antonio Lattanzio Bevilacqua, conosciuto come il maestro umbro. Un folignate,

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