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Racconti scelti. 1
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E-book465 pagine5 ore

Racconti scelti. 1

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Info su questo ebook

Marmilia Gatti Galasi ha esordito nel 1948 con il doppio romanzo per ragazzi dedicato alla vita di padre Damiano de Veuster (canonizzato nel 2009), cui seguirono numerosi altri titoli, tutti editi dalle Edizioni Paoline.
Dopo aver interrotto l'attività letteraria per dedicarsi a tempo pieno al lavoro di direttrice didattica e di madre, nel 1993 riprese la passione per la scrittura, diventando la cantrice della memoria collettiva di Robecco d'Oglio (suo borgo natio) e Pandino (il "paese del cuore" come lei stessa lo chiama).
Sempre al passo coi tempi, dopo le esperienze sul blog della nipote Silvia Tozzi e sulla sua pagina Facebook, oggi approda anche nel formato ebook, per raggiungere anche gli amici più lontani.
LinguaItaliano
Data di uscita24 lug 2017
ISBN9788892657083
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    Anteprima del libro

    Racconti scelti. 1 - Marmilia Gatti Galasi

    Indice

    PRESENTAZIONE

    PAESE MIO…

    STORIA DI UN MONSIGNORE

    IL DOTTOR AGOSTINO BOZZETTI

    LUCIO: UN GIOCO MORTALE

    DOMENICO INVERNIZZI

    DON LUIGI POLLASTRI, UN PARROCO MAI DIMENTICATO

    I CONTI CAMILLA ED AIMO MAGGI DI GRADELLA

    E’ successo a Pandino: AUGURI, DOTTORE

    DANIO E ROBERTO

    RICCARDO GILLI

    PEPPINO FERLA

    GABRIELLA, O DELL’AMICIZIA

    SILVIA

    RICORDO DI DON PEPPINO

    GIANNI E PIERO, PANDINESI IN… MISSIONE!

    E’ successo a Pandino: IL MALOCCHIO

    LA SIGNORA GINA

    IL CORREDINO ROSA Una storia vera

    HAI DEL TEMPO LIBERO?

    QUANDO DON PIRRO TORNO’ A PANDINO

    ENZO CENTI E GIANCARLO PAVESI

    VITTORINO AGOSTI, DETTO IL VECIO

    MONSIGNOR FRANCO FOLLO

    E’ successo a Pandino: QUI POLIZIA…

    UN NIDO CALDO CALDO

    LEANDRO BERINZAGHI E LA SCUOLA MEDIA PANDINESE

    FAUSTO, L’ORGANISTA

    BRUNO ROSA, IL MARATONETA

    ERMINIO MERICI PITTORE

    LE CLASSI DELLA NEVE

    E’ successo a Pandino: INCIDENTE CON BEFFA

    TRE STORIE DI RAGAZZI ALL’OMBRA DEL V.A.R.T.

    … E IL MIO GENERALE VENNE A CERCARMI

    BATTISTINO BONIZZI

    SERENELLO DEVIZZI E IL PEDALE NOSADELLESE

    LA FABBRICA DEL GHIACCIO

    IL BOTTEGHINO CHE NON C’E’ PIU’

    E’ successo a Pandino: DALLA SVEZIA…CON SORPRESA!

    C’ERA UNA VOLTA UNA RADIO…

    IL VIGILE BERTONI

    POSTO TELEFONICO PUBBLICO

    LA MULINARA

    SEVERINO VILLA

    IL LAVATOIO

    E’ successo a Pandino: UNA SIRENA A MEZZODI’

    FERIE D’AGOSTO

    IL PROFESSOR MANSTRETTA E LA SCUOLA CASEARIA

    GINETTO

    ROMANO BUZZONI E IL PALIO DEL CASTELLO

    LE MONDINE

    UN GIORNO TRISTE PER PANDINO

    CARLO MANZONI CAVALIERE DEL SANTO SEPOLCRO

    IL MERCATO DEL LUNEDI’

    IL DONO DEL SANGUE

    E’ successo a Pandino: LA SCARPA… DEL LADRO!

    DIVERTIMENTI VARI, LIRE QUATTROCENTO

    MARIO TUTI

    LA VITA IN RINASCENTE

    DANTE GROPPELLI, L’AMERICANO

    PANDINO… IN MUSICA

    ALLA RICERCA DEL TEMPO PASSATO

    IL CONVENTO DEI SERVIZI DI MARIA

    BICICLETTA, CHE PASSIONE!

    LA LUISIANA

    UN PANDINESE IN VIAGGIO PER L’EUROPA

    L’AVVENTURA ROMANA

    C’era una volta… BREVE STORIA DEL SANTUARIO DELLA MADONNA DEL RIPOSO

    LETTERA AI LETTORI

    QUASI UN RACCONTO… COME PREFAZIONE

    LE CALZE DI GESU’ BAMBINO

    LA VIGILIA COL ‘BISETT’

    LA DELUSIONE DI NATALE

    DAVANTI ALLA VETRINA PER SOGNARE

    MIA CUGINA NATALINA

    UN NATALE A SANTA MARIA SICHE’

    QUEL TORRONE SACRIFICATO

    NATALE 1940

    UN PICCOLO PRESEPIO DI CARTONE

    NATALE NEL RIFUGIO

    IL CEPPO DI NATALE

    NATALE IN CASTELLO

    PROPRIO A NATALE…

    UN NATALE… DIMENTICATO

    SARA’ UNA BEFANA…

    NATALE A SCUOLA

    UN NATALE DI POVERTA’

    E’ NATO UN BIMBO… IN SACRESTIA!

    CAMPANELLE E CARILLONS

    IL MIO PRESEPIO VIVENTE

    UN PRESEPIO DI SPINE

    NATALE OLTRE CONFINE

    LA PIVA SOTTO CASA

    NATALE A SCICLI

    NATALE ALL’EQUATORE

    UN CUCCIOLO DI NOME BELLA

    PER CONCLUDERE…

    IL CLOWN, O DELLO STUPORE

    Marmilia Gatti Galasi

    Racconti scelti

    Volume 1

    Youcanprint Self-Publishing

    PRESENTAZIONE

    Care amiche e cari amici, invecchiare in salute è certamente un privilegio, ma anche un onere: tanti affetti ci lasciano, il mondo cambia, la nostra vita rallenta e il rischio di restare indietro è notevole.

    Per questo, dopo aver imparato a scrivere con il computer a oltre settantanni, a più di novanta sono approdata su Facebook e ho accettato la sfida di scrivere per il blog di mia nipote Silvia, perché la memoria è materia viva,  che cresce e cambia con noi e chi vuole preservarla deve saper stare al passo coi tempi.

    Così ho accolto di buon grado anche l'idea di riproporre in ebook alcuni dei miei libri, non più reperibili in edizione cartacea.

    L'idea è quella di raggiungere i miei lettori ovunque, compresi quelli che mi hanno scoperto sul web, con un libro scaricabile gratuitamente su qualsiasi ereader.

    Sono curiosa di vedere quale sarà la riuscita di questo esperimento e ringrazio fin da ora tutti i lettori, vecchi e nuovi, che saranno con me in questa avventura!

    Con affetto,

    MARMILIA GATTI GALASI

    PAESE MIO…

    Che cosa tu avessi di bello, tranne l’imponente Castello messo lì, al centro del paese, quasi per sbaglio, proprio non avrei saputo dirlo allora.

    Quando ti vidi per la prima volta, con quelle strade disastrate, tra nuvole di polvere, con gente che mi pareva lontana e ostile tutta presa dai propri affari, ebbi molti dubbi su di te, paese mio.

    Quella corriera gremita e traballante che veniva da Crema, mi aveva messo lo stomaco in subbuglio, sicchè, scendendo davanti alla chiesa, ebbi improvvisamente voglia di piangere.

    Erano i primi giorni di aprile del 1946 ed io avevo poco più di vent’anni.

    Venivo da lontano, dopo un viaggio durato ore: prima in bicicletta fino ad una stazioncina solitaria dove passava, in ora mattutina, il treno per Crema.

    Poi quei vagoni scassati e fragorosi con mille spifferi e coi vetri così sporchi che non riuscivo a vedere la campagna in fuga.

    Infine la corriera, dove salire sembrava un’impresa impossibile, tanta era la gente che spingeva per accaparrarsi un posto: gente stipata, in piedi, aggrappata ad ogni appiglio per non cadere ai sobbalzi delle ruote, quando affondavano nelle buche profonde lasciate dagli ancora recenti mitragliamenti.

    E, inoltre, un linguaggio incomprensibile, dai toni che mi sembrarono duri e sgradevoli, così diversi dalla dolce cadenza del mio dialetto cremonese.

    Non trovai alcuno, quel giorno, che mi facesse un sorriso, che mi rivolgesse una parola gentile. Pareva che nessuno mi vedesse, che a nessuno interessasse chi fossi, da dove venissi, dove andassi, con gente frettolosa che a malapena mi rispose quando chiesi dove fossero le scuole. Questo fu il primo impatto, ma poi, a scuola, fu tutta un’altra cosa: trovai subito il sorriso schietto di Attilio e Maria Marzagalli, i bidelli, e il benvenuto cordiale delle prime colleghe che vidi, in gruppo, in corridoio: la signorina Cazzulani, la signora Lazzaroni, la maestra Castagnola e la Bianca Carinelli.

    In seguito, un po’ per volta, conobbi il negozio del fornaio, quello del lattaio e quel botteghino sotto i portici dove compravo, di tanto in tanto, un vasetto di marmellata per le mie cene frugali.

    Poi imparai a comprendere il dialetto parlato dai bambini.

    Mi avevano assegnata una classe quinta maschile. Ricordo ancora l’aula a pianterreno e quei bambini che non mi diedero mai problemi, ai quali volli bene subito: Luigi, Giuseppe, Pio, Antonio, Gianni, Pino e così via.

    Avevano avuto, prima che io arrivassi, un ottimo maestro, Vanni Groppelli, con l’hobby della musica e del canto. Quanti cori sono usciti ogni giorno dalle nostre finestre spalancate!

    Ecco, paese mio, come ho fatto ad affezionarmi a te!

    Mi piacque, poi, scoprire i tuoi angoli più caratteristici, le tue viette tortuose, tra stalle e cortili, tra case antiche e ritagli di orti.

    Dopo le lezioni giravo qua e là con la giovane collega Ida Caizzi che veniva da molto, molto lontano e che aveva, più di me, motivo per rimpiangere il suo passato: era profuga da Zara, dove aveva lasciato, per non tornarci più, oltre all’incanto del suo mare, la sua giovinezza, la scuola, gli amici, i ricordi.

    E poi la gente cominciò a sorridermi, tanto che giunsi a pensare che sarebbe stato bello ricominciare qui una nuova vita.

    E così avvenne.

    Dopo di allora, durante anni e decenni, tu, Pandino, sei diventato per me, veramente il paese del cuore!

    STORIA DI UN MONSIGNORE

    Quando nacque, il 16 giugno di tanti anni fa, gli diedero il nome di Luigi, non so se per ricordare qualche parente, come di usava una volta nelle famiglie patriarcali quale era la sua, o per affidarlo alla protezione di San Luigi Gonzaga, di cui ricorreva la festa cinque giorni dopo.

    Poi, siccome era il più piccolo della nidiata, divenne Luigino e più tardi, crescendo, il suo nome, abbreviato, fu Gino. E tale rimase per tutta la vita, anche quando, già coi capelli grigi, lo fecero Monsignore. E non pareva adatto quel nome così confidenziale al titolo onorifico concessogli addirittura dal Papa. Un monsignor Gino non sembrava adeguato, ma, piuttosto che perdere quel Gino, ci scommetto, egli avrebbe preferito non essere Monsignore.

    E così fu: quasi nessuno, dopo qualche tempo, ricordò che quel prete semplice e cordiale, alto, robusto, sorridente, che preferiva il suo dialetto bergamasco alle frasi ricercate in lingua, era proprio un Monsignore. Sicché quando la gente lo vide fotografato sul giornale, in una giornata memorabile, tra Papa e Vescovo, a Roma, in Piazza San Pietro, con fascia e bottoni della tonaca d’un rosso scarlatto, quasi trasecolò: Ma guarda che figurone il nostro don Gino!

    E si sentì anch’essa importante, poiché era la prima volta che un Parroco del paese diventava Monsignore.

    Un Monsignore pieno di pensieri, di preoccupazioni, con cifre e cifre che gli ballavano nella mente giorno e notte. Per forza! Con quello che si era messo in mente di fare! Seguendo una Voce che arrivava da secoli addietro, aveva iniziato a costruire un Santuario per Maria.

    Ma questa è storia dei nostri giorni e la conoscono tutti.

    Io voglio invece parlare di quel ragazzino di tanti anni fa, nato e cresciuto in campagna, in una grande famiglia ricca di terre e di parenti, tutti, per tradizione, agricoltori.

    La cascina dove abitava era grande, tutta chiusa come una fortezza, col portone che dava sui campi, con le case dei contadini, (tanti), tutte uguali, col pozzo, il forno per il pane, la legnaia, l’abbeveratoio per le bestie, la grande aia in cemento su cui si stendeva il grano ad essiccare al sole.

    E poi le stalle enormi, che si affacciavano sotto il porticato ad archi, con le grandi colonne tutte in mattoni a vista: quelle colonne che sono rimaste nel cuore di Monsignore fin da quei tempi lontani, sicché le ha poi volute, uguali, a completare il porticato del suo Santuario, luminose, calde di sole, robuste, adatte a superare decenni e forse secoli.

    Adiacenti alla grande aia c’erano, poi, le cantine immense, scure, con le grandi botti in rovere e il torchio altissimo in cui fermentava il vino, frutto del vigneto che si allargava a dismisura coi suoi lunghissimi filari, tutti di viti scelte, selezionate con cura, potate ogni anno con amore, sorvegliate e guardate a vista dal padrone che ne conosceva, si può dire, ogni tralcio, nonostante le enormi dimensioni.

    Ecco, qui è vissuto il ragazzetto che oggi mi piace ricordare: lo immagino magro, scurito da sole, bruno di occhi e di capelli, coi piedi nudi nei sandali, i calzoncini corti sulle gambe sempre piene di graffi e di botte, come si conviene a bambini in continuo movimento.

    Eccolo sulla sua bicicletta mentre, sotto la calura del mezzodì, pedala velocemente verso la campagna con la sporta infilata nel manubrio, per portare il pranzo ai contadini che stanno falciando il fieno. Con lui ci sarà stato, sicuramente, qualche altro ragazzino, magari scalzo tra la polvere dei viottoli, gareggiando a chi faceva prima, col cane di casa che abbaiava allegramente.

    Più tardi, però, quella vita beata finì. Per Gino venne l’ora degli studi e fu portato in collegio, un collegio importante, tenuto dai Gesuiti, un ordine colto e severo.

    Chissà come saranno stati quei giorni per il ragazzetto appena decenne, tra corridoi in penombra, aule cariche di libri, grandi dormitori coi lettini bianchi tutti in fila.

    Certo ne avrà sofferto, avrà forse scritto, tra le lacrime, a sua madre e a suo padre di andarlo a riprendere, perché gli mancava tanto la sua grande casa sull’aia sotto il sole.

    Poi la vita del collegio avrà imposto il suo tran-tran: campanella all’alba per la sveglia, sosta in Cappella per la preghiera in comune, il refettorio col caffelatte fumante, le ore di studio con tanto latino da imparare.

    Al ritorno a casa, durante i mesi estivi, il ragazzo, fattosi di anno in anno più grande e serio, avrà vissuto ancora, forse, ore spensierate tra i filari delle viti su cui si coloravano, pian piano, i grappoli gonfi di succo, tra i viottoli polverosi, bevendo ai fontanili di cui era ricca la zona, ascoltando i passeri sugli alberi e i canti dei contadini sull’aia mentre spannocchiavano il granoturco, e i muggiti delle bestie nelle stalle, e il fragore dei carri che andavano e venivano, tra il profumo del fieno che si accatastava sui grandi fienili.

    Poi la vocazione.

    C’era una bianca Madonna in una grotta, nell’angolo del giardino di casa. Il ragazzo vi faceva una sosta, di tanto in tanto, sempre più pensoso.

    A quella bianca Madonna in preghiera col rosario tra le mani, egli si affezionò sempre più. E quando aveva un cruccio, un dubbio, un desiderio irrisolto andava là, in quell’angolo di giardino e pregava.

    Sua madre lo seguiva con gli occhi, quasi presaga. Già il fratello maggiore, Agostino, era entrato il Seminario, tra i Salesiani.

    Dopo tanti anni, tornando davanti a quella statua bianca, sistemata, ora, in una piazzetta raccolta e ombrosa, Monsignore ha pianto di commozione.

    Forse fu l’educazione ricevuta in famiglia, forse fu la preparazione impartita dai Gesuiti, o forse ambedue le cose e in più il disegno di Dio, al quale, in fondo in fondo, non si può mai sfuggire: così avvenne che anche Gino entrò in Seminario, già adulto, al termine degli studi.

    E fu prete.

    Ancora oggi, ogni mattina ed ogni sera (lo confessa candidamente) egli ringrazia il Signore d’averlo fatto Sacerdote, e Sacerdote in eterno. Poi l’han fatto Monsignore: Monsignor Gino Alberti.

    Ma questa, come ho già detto, è storia di oggi. Tutti la vediamo e la viviamo, in comunità di intenti e di affetti.

    Ed allora è inutile scriverne: lasciamo parlare le opere di ogni giorno. Questa è storia vera.

    IL DOTTOR AGOSTINO BOZZETTI

    (anni 1920)

    Da dieci anni ormai, il dottor Bozzetti vive a Milano insieme alla moglie signora Rosy.

    Ha voluto spostarsi, col pensionamento, accanto alla figlia Cesy e ai molti nipoti. Voglio godere un po’ di più degli affetti familiari, ha detto.

    Ma penso che, lasciando Pandino, abbia sofferto.

    Era in mezzo a noi dal 1971, ma le famiglie pandinesi lo conoscevano già da molto prima.

    Infatti, fin dai primissimi anni ’50, mentre era medico condotto a Palazzo Pignano, era diventato il pediatra ufficiale di tutti i bambini del circondario.

    Egli, come dice spesso, li ha visti nascere, i nostri bambini, li ha controllati e curati regolarmente, li ha visti crescere, e poi ha visto nascere e ha curato i loro figli e, qualche volta, anche i loro nipoti. Più di così!

    Era una figura familiare a tutti. Alto, bello, distinto, a volte, soprattutto nei primi tempi, un po’ scorbutico (ma il fatto non guastava), era sempre guardato con rispetto e ammirazione.

    Quanti episodi avrebbe da raccontare nel rifare la sua storia di medico di campagna. Già, perché il dottor Bozzetti ama definirsi proprio così, un medico di campagna e se ne vanta.

    A quei tempi il medico condotto doveva saper fare tutto: l’ostetrico nei casi di parti difficili, il dentista, se il mal di denti metteva in crisi grandi o piccini, e anche il chirurgo nei casi urgenti.

    Egli aveva sempre avuto, fin da ragazzo, una grande ammirazione per la figura del dottore del suo paese ed ha sempre coltivato il desiderio di imitarlo.

    Era figlio del Segretario comunale di Paderno Ponchielli, mentre sua madre faceva la maestra elementare: un ragazzino come tanti altri, ma con un sogno nel cuore mai cancellato, diventare medico.

    A ventiquattro anni si laurea a Pavia, a ventotto si specializza in Pediatria e, qualche anno dopo, in Medicina interna e in Igiene.

    Diventa medico condotto di Genivolta già nel 1945, un anno difficile per le vicende della guerra e del dopoguerra.

    Quasi nessuno, a quei tempi, aveva l’automobile e allora quante volte il buon dottore di campagna si caricava il paziente in macchina e lo portava lui stesso direttamente in ospedale!

    Quante alzatacce notturne quando qualcuno suonava il campanello in piena notte, perché aveva un parente che stava male!

    Mi racconta, con una sorta di tenerezza, di quella anziana contadina che, avendo appena ottenuto il libretto sanitario, che le garantiva l’assistenza medica gratuita, volle subito approfittarne. Entrò in ambulatorio e quando il dottore la invitò a sistemarsi sul lettino, ella vi salì in piedi perché, come disse, voleva che la visitasse bene, davanti e dietro.

    Oppure di quella mondina in attesa di un bimbo, che lo accusò di favorire le donne belle, perché egli aveva dato parere negativo al suo impiego nelle risaie. Il medico, infatti, doveva accertarsi che le aspiranti mondariso non fossero in stato di gravidanza, poiché avrebbero potuto essere danneggiate da un lavoro così pesante.

    Era talmente grande, allora, la povertà in campagna, che si accettava tutto, pur di guadagnare qualcosa.

    L’attività che il dottor Bozzetti, però, ricorda con più piacere, è quella svolta collaborando con l’O.N.M.I. ( Opera Nazionale Maternità e Infanzia).

    Iniziò subito, nel 1949, prima a Casalbuttano e a Robecco, più tardi a Pandino, Rivolta, Spino d’Adda, Agnadello, Torlino e Trescore: una collaborazione durata vent’anni, che gli fece guadagnare, oltre alla stima di tutti, anche una medaglia al merito.

    Quando arriva nel Cremasco è il 1951: diventa medico condotto e Ufficiale Sanitario di Palazzo Pignano e Torlino.

    Allora abitava a Cascine Gandini e i pandinesi andavano spesso a bussare alla sua porta appena un bambino aveva qualche malessere.

    E’ stato così che il dottor Bozzetti li ha visti crescere di anno in anno, con una particolare attenzione per ciascuno di loro.

    Lo ricordo anch’io, sempre sollecito, anche se a me bastava un nonnulla per mettermi in agitazione.

    Era diventato quasi un amico di famiglia, orgoglioso dei nostri figli, quando crescevano bene, come fossero stati figli suoi.

    In questo periodo, tra il ’68 e il’69, ebbe l’incarico di tenere lezioni di igiene presso la Scuola di specializzazione universitaria di Milano. Pubblicò anche due volumi su l’Unità Sanitaria e sulla Vaccinazione antirosolia.

    Ora dice con orgoglio:

    Le prime vaccinazioni antirosolia in Italia , le ho praticate io, a Torlino.

    Nel 1971 assunse anche la Direzione Sanitaria della nostra Casa di Riposo. Ancora adesso ricorda con affetto e riconoscenza, oltre il dottor Greco, che lo aveva preceduto, le ottime Suore Adoratrici, che lavorarono accanto a lui, in silenzio e con generosità.

    Desidera anche rivolgere un pensiero affettuoso e grato alle sue due più strette collaboratrici di quegli anni: l’ostetrica Elsa Fiorani e l’impareggiabile signorina Luisa Taffurelli, allora Assistente sanitaria e Direttrice del nostro Asilo Nido. Esse lavorarono, dice, pressoché gratuitamente, sempre pronte ad accorrere ad ogni chiamata del medico e per ogni intervento presso le famiglie.

    Nel 1987, quando decide di ritirarsi, anche per lasciare il posto ai giovani, è Presidente del Comitato Sanitario locale, è ricco di esperienza e di affetti e gli piange il cuore abbandonare i suoi amici, come chiama, abitualmente, i suoi pazienti.

    E allora sapete cosa fa?

    Non comunica a nessuno la sua decisione; finge di partire per le ferie, come ogni anno. Andrà in montagna, tra le sue adorate montagne del Trentino, per riposarsi un po’.

    Agli amici, a tutti i suoi amici, scrive una lettera che tra la gente suscita stupore e dolore.

    La fa imbucare il giorno dopo la sua partenza. Cari amici, quando riceverete questa mia… Una lettera commossa, che ci ha commossi.

    Ma anche ora, da Milano, non smette di interessarsi ai suoi pandinesi.

    Ogni volta che torna in paese (e torna spesso) chiede notizie, incarica di portare i suoi saluti, si rattrista per i lutti, si rallegra per i successi. Perché è così che si fa tra amici, vero dottore?

    Per questo Le siamo grati e le auguriamo tanti e tanti anni di vita serena.

    LUCIO: UN GIOCO MORTALE

    (anno 1962)

    E’ un caldo e luminoso pomeriggio di giugno.

    I ragazzini sono in vacanza da pochi giorni. Non ce n’è uno in casa: chi non è all’oratorio è in giro per le strade in cerca di compagni, oppure è tra i campi, a pescare lungo il Tormo o a caccia di nidi, come Lucio Chiappa, otto anni, scolaretto di terza elementare nella classe del maestro Franco Tubertini.

    Ad un tratto un grido corre di bocca in bocca, attraversando tutte le strade di Pandino, entrando in ogni casa, turbando la serena atmosfera pomeridiana:

    Un bambino è stato raccolto ferito sotto un traliccio dell’alta tensione, nei campi al di là del Roggetto. Una macchina di passaggio l’ha portato all’ospedale di Rivolta…

    L’allarme semina ansie e paure.

    Ogni madre corre a cercare il proprio figlio col cuore in gola e quando lo ritrova finisce un incubo:

    Non è mio figlio…Non è mio figlio…!

    Ma allora chi è il piccolo ferito raccolto nei campi?

    E’ un bambino biondo…no, è bruno coi ricci… ha la maglietta rossa…macché, è una maglietta a righe…

    E subito dopo:

    Non è di Pandino, è uno dei nomadi che sono accampati attorno al Castello…

    E’ vero; ci sono alcune carovane, da giorni, appena oltre le antiche mura della cinta. Sicuramente è uno di quelli. Noi, ai nostri figli ci stiamo attenti, a noi non possono capitare certe cose…

    Ma in paese l’atmosfera si fa sempre più tesa, un’ombra di dubbio cala su tutti. Chissà… qualche bambino manca ancora all’appello, ma certo sarà in campagna, sarà al campo di calcio, sarà a casa di un amico…

    Soltanto lui, un prete arrivato da poco in paese, prende, con decisione, la strada giusta.

    Per lui, Parroco, non c’è differenza tra questo o quel bambino, tra il piccolo pandinese, o lo zingarello della carovana.

    Quel prete è don Rino Stellardi, da poco più d’un anno Parroco a Pandino. Egli prende la sua 600 e vola all’Ospedale di Rivolta d’Adda.

    I medici lo portano in una stanzetta dove un piccino, irriconoscibile per le gravi ustioni al volto, giace quasi privo di vita, in coma. Si ferma per un’ora al suo lettino, spera che riapra gli occhi, che gli dica il suo nome, che qualcosa gli permetta di riconoscerlo. Inutilmente.

    Allora si fa consegnare i suoi sandali, i suoi calzoncini, la sua maglietta e corre di nuovo a Pandino.

    Sul sagrato della chiesa c’è un folto gruppo di bambini che sta giocando ; tra pochi giorni ci saranno le Cresime, in chiesa il curato li aspetta per la preparazione. Don Rino scende dalla macchina con i poveri indumenti in mano e li mostra ai ragazzini:

    Guardate, riconoscete questa maglietta, questi calzoncini? Non ci sono esitazioni:

    E’ la maglietta di Lucio!

    Ecco svelato il mistero, purtroppo.

    Ed ora tocca a lui, povero prete, andare a casa di Lucio a portare la triste notizia, con quale cuore lo si può solo immaginare.

    Lucio era un bambino delle mie scuole, quindi era un mio bambino. Ne ho sofferto terribilmente. Che strazio quei trentanove giorni di agonia! Rifare quel calvario, oggi, dopo tanti anni mi provoca ancora una stretta al cuore.

    Eppure, allora, vivemmo anche giorni di speranza. Pregammo molto, a scuola, a casa, in chiesa: volevamo proprio strappare al Signore la grazia. Anche i medici ci invitavano ad aver fede.

    Lucio non parlava, ma un giorno lo vedemmo socchiudere gli occhi, e un’altra volta gli scorgemmo una lacrima tra le ciglia e lo sentimmo anche rispondere con un lamento mentre don Rino lo chiamava:

    Lucio, sono il Parroco, qui c’è don Attilio, c’è anche il tuo maestro, c’è la direttrice… Da Rivolta, con maggiori speranze, lo vedemmo trasportato al Policlinico di Milano.

    I bambini hanno tante risorse…Speriamo…, ci dissero i medici.

    Intanto i giorni passavano, sempre uguali. Ogni volta, allontanandoci dal suo lettino, pensavamo:

    Chissà, forse la prossima volta lo troveremo meglio.

    Ma quando dal Policlinico lo trasportarono a Niguarda per sopravvenute complicazioni, la speranza si fece sempre più esile.

    Poi Lucio tornò.

    Tornò a casa con l’autoambulanza e tutti capimmo che era la fine. Ha poche ore di vita ci dissero.

    Povero Lucio! Era, invece, l’inizio di un altro Calvario, più doloroso, più tragico.

    Lo vedemmo morire un poco per volta, giorno per giorno, durante tre lunghe settimane. E sempre, a vegliarlo, suo padre e sua madre. A scrutarlo, a indovinare i suoi desideri per rendergli meno penosa l’agonia.

    Ad ogni tocco di campana il cuore ci si stringeva: Che suoni a morto…? Che sia per Lucio…?

    E quando la morte venne a sciogliere i lacci dolorosi che lo tenevano ancora avvinto alla vita, ne ringraziammo, piangendo, il Signore.

    A scuola tenemmo vivo per anni il ricordo di Lucio istituendo il Premio Lucio Chiappa per alunni meritevoli delle classi quinte. Con ciò abbiamo sperato anche di inculcare nei nostri bambini l’attenzione verso certi giochi pericolosi, verso certe imprudenze che dovevano essere evitate a tutti i costi, anche ricordando Lucio. Nessuno, da allora, è più salito su un traliccio; i nostri scolaretti di quegli anni impararono ad averne terrore. Ogni volta si diceva: Pensate a Lucio…Lucio è morto per un gioco simile…

    Dopo Lucio Chiappa ricordammo, con altrettanti Premi scolastici annuali, anche Mariolino Arrighetti, alunno di quinta elementare, investito e ucciso da un’automobile al crocicchio del cimitero nel 1964, e Agostino Balletto, anch’egli scolaro di quinta elementare, annegato a Spino, nell’Adda, nel.1967, in un giorno di vacanza, ed Emanuele Oliani della classe terza, morto anch’egli nel 1967 per una grave malattia.

    Tutti questi nomi hanno accompagnato, nel ricordo, durante gli anni della scuola elementare, tanti e tanti ragazzini degli anni ’60 e ’70.

    DOMENICO INVERNIZZI

    (anno 1998)

    Non so se Domenico Invernizzi, o meglio, il Sindaco Invernizzi, mi guarderà ancora con simpatia dopo aver visto questo libro: gli avevo promesso, in seguito ai suoi energici dinieghi, che non avrei scritto niente di lui.

    Ma ho mentito, sapendo di mentire.

    Egli è ancora amareggiato per la forzata interruzione della sua ultima tornata amministrativa in quel lontano 1987, che egli chiama l’anno dei veleni.

    Tuttavia tra i ritratti dei personaggi pandinesi che io vado raccogliendo in questo libro, egli non poteva proprio mancare.

    Così mi sono data da fare per cercare qua e là notizie di fatti di cui non ero a conoscenza, nonostante per vent’anni abbia vissuto quasi a contatto di gomito con lui, nella scuola.

    Ma per me, allora, Domenico Invernizzi era il Maestro, non il Sindaco.

    Eppure cominciò a fare il Sindaco nello stesso periodo in cui io iniziai a fare la Direttrice: io nel ’59, lui nel ’60.

    Ma mentre egli, come mio stretto collaboratore, sapeva tutto del mio lavoro e delle iniziative che di volta in volta prendevo, io di lui, Sindaco, conoscevo pochissimo.

    Sicché qualche tempo fa, mentre con amici visitavo il Castello in sua compagnia, restai meravigliata nel sentirgli dire, con gli occhi lucidi di commozione:

    "Nel primi anni del mio impegno politico, uscivo su questa loggia e lasciavo spaziare lo sguardo; mi sentivo come Lorenzo il Magnifico, signore della cosa più bella che il

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