Scrittori del'900 e dintorni
Di Dario Lodi
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L'AUTORE
Dario Lodi, milanese, autodidatta, è autore di poesie, romanzi, racconti, saggi, con spirito originale, e capacità sintetica notevole per quanto riguarda i saggi. È presidente di ACADA, Associazione Culturale Amici delle Arti di Vignate, in provincia di Milano. Collabora con diverse riviste culturali (in particolare con “Noncredo”) e col sito “Homolaicus”. Ha pubblicato vari libri. Nel 2012 ha vinto il Premio Nabokov per poesia inedita con la raccolta Poesie innate, poi editate. Nel 2015 ha vinto il Premio Interrete per il saggio Umanesimo e nuovo Umanesimo. È direttore della storica rivista Logos dal 1994.
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Anteprima del libro
Scrittori del'900 e dintorni - Dario Lodi
DARIO LODI
SCRITTORI DEL ’900 E DINTORNI
AmicoLibro
Dario Lodi
Scrittori del ’900 (e dintorni)
Proprietà letteraria riservata
l’opera è frutto dell’ingegno dell’autore
© 2018 AmicoLibro
Vico II S. Barbara, 4
09012 Capoterra (CA)
www.amicolibro.eu
info@amicolibro.eu
Prima Edizione
settembre 2018
DARIO LODI
SCRITTORI DEL ’900 E DINTORNI
L’AUTORE
L’AUTORE
PREFAZIONE
La bohème di Peter Altenberg
Il rigore di Corrado Alvaro
L’ardore di Guillaume Apollinaire
Il male di Hannah Arendt
Gli affronti ad Antonin Artaud
Il paternalismo di Riccardo Bacchelli
L’importanza di Michail Bachtin
Il contributo di Georges Bataille
La verve di Isaiah Berlin
Gli stupori di Thomas Bernhard
Il male di Giuseppe Berto
La rabbia di Luciano Bianciardi
L’originalità di Giovanni Boine
La magia di Massimo Bontempelli
La fantasia di Jorge Luis Borges
L’umanità di Bertolt Brecht
L’equilibrio di Vitaliano Brancati
Il mare di Raffaello Brignetti
La delusione di Hermann Broch
I deliri di Charles Bukowski
La profondità di Aldo Buzzi
Le invenzioni di Italo Calvino
La bonomia di Andrea Camilleri
La diversità di Dino Campana
La lunarità di Achille Campanile
L’acribia di Cristina Campo
L’esistenzialismo di Albert Camus
La parola di Elias Canetti
Il dandismo di Truman Capote
L’intensità di Giorgio Caproni
Il ritmo di Vincenzo Cardarelli
La retorica di Giosuè Carducci
La personalità di Emanuel Carnevali
La freschezza di Raymond Carver
La tragedia di Paul Celan
La nausea di Louis-Ferdinand Cèline
Il brio di Blaise Cendrars
La sensibilità di Guido Ceronetti
La dignità di Noam Chomsky
Il nulla di Emile Cioran
Le rivelazioni di Carlo M. Cipolla
L’estetismo di Jean Cocteau
L’etica di Benedetto Croce
La focosità di Gabriele D’Annunzio
La ricchezza di Stefano D’Arrigo
La casa di Silvio D’Arzo
Il mondo di Edmondo De Amicis
Il candore di Antonio Delfini
La concretezza di Galvano Della Volpe
La scoperta di Filippo De Pisis
Gli arabeschi di Jacques Derrida
La chiarezza di Francesco De Sanctis
La visione di Alfred Döblin
L’uno e due di Thomas Stearns Eliot
L’ingenuità di Hans Fallada
Il temperamento di William Faulkner
Il coraggio di Jerzy Ficowski
La fragilità di Francis Scott Fitzgerald
La diversità di Ennio Flaiano
Il tocco di Erich Fried
La cordialità di Giancarlo Fusco
Il sorprendente Carlo Emilio Gadda
Il Gruppo 63 contro tutti
Il fuoco di Federico Garcia Lorca
La coerenza di Leone Ginzburg
L’indignazione di Nadine Gordimer
L’impegno di Antonio Gramsci
La scienza di Georg Groddeck
La lezione di Guareschi
Il magnetismo di Georges I. Gurdjieff
Il realismo di Thomas Hardy
Lo spirito di Jaroslav Hasek
Le visioni di Seamus Heaney
L’esuberanza di Ernest Hemingway
La personalità di Hermann Hesse
La storia di Eric Hobsbawm
La preveggenza di Ibsen
I ghirigori di Eugène Ionesco
La fisica di Alfred Jarry
Le sperimentazioni di James Joyce
Le difficoltà di Attila Jozsef
L’angoscia di Franz Kafka
Il cammino di Jack Kerouac
La delusione di Arthur Koestler
La catarsi di Tommaso Landolfi
Il garbo di Valery Larbaud
Il pioniere Lautréaumont
I tramonti di Edgar Lee Masters
La tragedia di Primo Levi
La condizione di Lyotard
La passione di Vladimir Majakovskij
La vitalità di Curzio Malaparte
I geroglifici di Mallarmé
Il contributo di Thomas Mann
La bontà di Alberto Manzi
La modernità di Alessandro Manzoni
La simpatia per Karl Marx
La gnosi di Fosco Maraini
Gli schiaffi di Marinetti
La fantasia di Gabriel Garcìa Màrquez
La disperazione di Lucio Mastronardi
Le delusioni di Czeslaw Milosz
Il rigore di Theodor Mommsen
Le imprese di Eugenio Montale
La forza di Giuseppe Montesano
Il sacrificio di Elsa Morante
Le provocazioni di Moravia
L’analisi di Robert Musil
Lo sguardo di Vladimir Nabokov
La delicatezza di Pablo Neruda
Il superuomo di Friedrich Nietzsche
L’incubo di George Orwell
Gli umori di Giovanni Papini
L’ambiguità di Pier Paolo Pasolini
Il salvacondotto di Boris Pasternak
Il dolore di Cesare Pavese
La finezza di Fernando Pessoa
Il sogno di Luciana Peverelli
Le verità di Pinocchio
La logica di Luigi Pirandello
Il passato di Giuseppe Pitrè
La vigilanza di Alfred Polgar
Il fenomeno Marcel Proust
I labirinti di Thomas Pynchon
Il carattere di Giuseppe Prezzolini
La nostalgia di Salvatore Quasimodo
Le magie di Gianni Rodari
Le pene di Amelia Rosselli
La pietas di Umberto Saba
Il fado di Màrio de Sà-Carneiro
La fragilità di Emilio Salgari
La morale di Jerome David Salinger
Le intermittenze di Josè Saramago
La schiettezza di Virgilio Scapin
La mitezza di Bruno Schulz
La combattività di Leonardo Sciascia
La singolarità di Vittorio Sereni
Lo scavo di Isaac Bashevis Singer
La semplicità di Sergio Solmi
L’indipendenza di Aleksandr Solženicyn
Le stravaganze di Gertrude Stein
L’oro di August Strindberg
La coscienza di Svevo
La soavità della Szymborska
Il dubbio di Antonio Tabucchi
Le analisi di Junichiro Tanizaki
I tormenti di Giovanni Testori
La ribellione di Dylan Thomas
La scelta di Lev Nikolaievič Tolstoj
I tramonti di Tomasi di Lampedusa
La durezza di Federigo Tozzi
Le introspezioni di Miguel de Unamuno
Il vigore di Giuseppe Ungaretti
Il protagonismo di Paul Valery
La solarità di Giovanni Verga
La diversità di Emilio Villa
Vittorini vs Togliatti
Il realismo di Paolo Volponi
Il mondo fatato di Robert Walser
La denuncia di Peter Weiss
La verità di Rodolfo Wilcock
L’irruenza di Tennessee Williams
Il paradiso di William Carlos Williams
Il logos di Wittgenstein
Il contributo di Virginia Woolf
La promessa di Paolo Zanotti
Il poetare di Andrea Zanzotto e di Mario Luzi
La fuga di Stefan Zweig
L’AUTORE
Dario Lodi, milanese, autodidatta, è autore di poesie, romanzi, racconti, saggi, con spirito originale, e capacità sintetica notevole per quanto riguarda i saggi. È presidente di ACADA, Associazione Culturale Amici delle Arti di Vignate, in provincia di Milano. Collabora con diverse riviste culturali (in particolare con Noncredo
) e col sito Homolaicus
. Ha pubblicato vari libri. Nel 2012 ha vinto il Premio Nabokov per poesia inedita con la raccolta Poesie innate, poi editate. Nel 2015 ha vinto il Premio Interrete per il saggio Umanesimo e nuovo Umanesimo. È direttore della storica rivista Logos dal 1994.
PREFAZIONE
In quest’opera Dario Lodi non si limita a esporre un secolo di letteratura, va oltre la descrizione, oltre le informazioni, attraversa la storia, mosso da una passione profonda per la cultura.
Gli scrittori del ‘900 ci hanno lasciato messaggi che vanno ascoltati e compresi, apprezzati per la loro bellezza, ma anche valorizzati per i concetti, per la cultura oltre l’erudizione. Per fare questo occorre indagare a fondo, con piglio rigoroso e di largo respiro. È ciò che fa Dario Lodi vestendo anche i panni dello storico e del filosofo. Acribica è la sua documentazione, articolate e suggestive sono le sue interpretazioni, nuova la sua ricerca di essenzialità. L’approccio di Dario Lodi non è assolutamente tradizionale. Quest’opera non è un trattato ma un testo che appassiona, incuriosisce, a volte fa sorridere o intristisce, o tutte queste cose insieme.
Carmen Salis
La bohème di Peter Altenberg
Viennese, nato nel 1859 e morto nel 1919, Peter Altenberg è stato un personaggio veramente insolito, un autentico bohèmien. Figlio di un ricco commerciante, Altenberg si sentì dire dal padre di essere orgoglioso d’avere un figlio così. Il suo Peter viveva con la testa fra le nuvole, non aveva ambizioni borghesi e passava le giornate nei caffè della città austriaca, fra cui quello centrale era la sua tana (si faceva mandare lì anche la posta).
Nato Richard Englãnder, cambiò il nome in Altenberg dal nome di una cittadina poco lontana da Vienna, probabilmente per il suono altisonante. In quanto a Peter, così lo aveva soprannominato una ragazza, della quale si era follemente e inutilmente innamorato. Gran conversatore, persona di compagnia, viveva con nonchalance sulle spalle di amici facoltosi che gli pagavano pure la pigione. In cambio li deliziava con brevi racconti di cose viste e talune vissute nel suo peregrinare per Vienna, alla ricerca di curiosità e originalità. Non si lasciò mai condizionare da pretese letterarie tradizionali. Per questo ebbe poco successo in vita, pur godendo di grande considerazione presso il mondo intellettuale austriaco.
Altenberg ha scritto molto in tedesco, con lo stile dell’abbozzo immediato e vivo. In Italia è noto soprattutto per due titoli Ciò che mi porta il giorno, trad. Paola Di Gioia, editore L’Argonauta, la cui dedica è molto simpatica:
Dedico questo libro a mio fratello Georg. Stando nel mezzo della vita difficile ed opprimente, lavorando, lottando, egli ha avuto tuttavia la più profonda e delicata comprensione per uno che sognando, pensando, osservando, ha avuto la perfidia di sottrarsi alla legge del duro giorno.
Lo scrittore amava dire che gli occhi sono il patrimonio Rothschild dell’uomo. Il volume è concettualmente disordinato, Altenberg non pone filtri al suo pensiero, mentre è rispettoso della gente alla quale riserva un’ironia che non è mai pungente, che mai cade nel sarcasmo. Pulsa una gran voglia di vita nella sua prosa, un desiderio di dire tutto e anche di più, in parte mitigato da una bonomia che sembra impetrare misericordia e comprensione per gli uomini e le loro piccole vicende. Il secondo scritto è Favole della vita a cura di Giuseppe Farese, Adelphi Edizioni. Sono pezzi ancora più brevi, caratterizzati da tentativi moralistici educatamente tenuti sottotraccia. Geniali i suoi aforismi. Eccone uno:
Educare una persona significa poter trasformare le sue cose sessuali in faccende spirituali! La ri-trasformazione avviene poi da sé. (pag. 160)
Altenberg visse libero come pochi e come pochi mise la sua capacità di scrittura al servizio delle cose, non della retorica palese o nascosta. Amava la vita dalla quale era riamato. Considerava la bellezza femminile, il mistero della donna, la massima creazione divina (e magari, se possibile, oltre). Un piccolo gigante dalla modestia esemplare.
Il rigore di Corrado Alvaro
La letteratura a sfondo sociale è solitamente noiosa, va detto. Troppa retorica. Si leggano, ad esempio, le composizioni irredentiste, specialmente quelle appartenenti alla Polonia e le nostre, soprattutto con Giosuè Carducci: per lo più si tratta di cose monotone, enfatiche all’inverosimile, anche se vere sul piano umano. È un’eredità romantica, portata verso il compatimento e, fieramente, verso la pietas intesa razionalmente. È l’amore per la morale classica.
Corrado Alvaro (1895-1956) entra a pieno diritto in questo mondo che tuttavia arricchisce con costruzioni letterarie di grande impatto umanistico generale. Il suo Gente in Aspromonte non è una sorta di canto dolente sulla storia dei cafoni
calabresi (suoi compaesani), ma una vibrata e intelligente protesta contro le ingiustizie sociali causate da un sistema latifondistico - medievale - che apparenta i contadini alle bestie. La reazione di un cafone
alle angherie di un signorotto appartiene alla matrice delle jacqueries, cioè alle storiche, e sfortunate, lotte contadine contro il potere, maledette dallo stesso Martin Lutero (oltre centomila si calcolano le vittime provocate dalla risposta dei principi tedeschi alle istanze dei loro sottoposti con il placet del Riformatore).
L’unificazione italiana (1861) portò in dote la speranza di un cambiamento delle condizioni di vita nel Sud dell’’Italia, ovvero il miglioramento della vita sociale. Il nostro scrittore fornisce un quadro della situazione, alla pari dei grandi meridionalisti, fra cui l’indimenticabile Gaetano Salvemini. Ma Gente in Aspromonte non si ferma alla descrizione, va oltre: chiama in causa il regime (allora fascista, il libro è del 1930) e fa diventare simpatico il protagonista. Arresosi alle forze dell’ordine, costui afferma: Finalmente potrò parlare con la Giustizia; che c’è voluto per poterla incontrare e dirle il fatto mio. Dunque il protagonista non è più un cafone
ma un uomo.
C’è analogia fra quest’opera e Fontamara di Ignazio Silone, con la differenza che nella seconda, per il sacrificio del protagonista, avviene il risveglio di un’intera popolazione. Siamo sempre in una realtà deformata dal desiderio che qualcosa accada negli uomini affinché avvenga un certo equilibrio sociale. Il comunismo di Silone si espone maggiormente, in senso formale, del giustizialismo di Alvaro, ma certo è quest’ultimo a incidere maggiormente nell’animo umano.
La scrittura di Corrado Alvaro, nel suo romanzo più noto, è limpida, essenziale e allo stesso tempo pittoresca, incalzante, colma di una rabbia che mai deborda, che rende continuamente viva la narrazione. Nel fondo, vigila un’intelligenza acuta, una passione profonda per il suo Paese, per gli uomini, gli animali, le cose, la Natura, quasi fosse un presepe, purtroppo però grondante di dolore. Ed è un dolore cosmico causato da una grande, intollerabile, ingiustizia. L’ingiustizia sociale è tema per eccellenza nelle opere di Corrado Alvaro. Lo scrittore calabrese visse sino in fondo il dramma della povertà del Sud, la tragedia dell’emigrazione, la protervia del regime mussoliniano, incapace di risolvere i problemi della gente e capace, invece, di fare guerre: si veda quella coloniale, vergognosa e particolarmente cruenta (ma era in arrivo di peggio!). Il nostro scrittore già aveva conosciuto la Grande Guerra, ci aveva combattuto suo malgrado. Poesie in grigio verde fu la sua prima opera. Vi sono composizioni cupe, amare.
Alvaro, dopo l’esperienza bellica, prese a collaborare con vari giornali fra cui il Corriere della sera, Il resto del Carlino e con Il Mondo di Giovanni Amendola. Nel 1927 lasciò l’Italia fascista e si rifugiò nella Germania di Weimar. Fece, quindi, l’inviato speciale di grandi quotidiani: nascono così pubblicazioni molto interessanti, fra cui un Viaggio nella Russia sovietica in qualche modo premonitore dei danni morali staliniani. Tornato in Italia, nel 1938 esce il suo libro civile più importante. L’uomo è forte: una ferma condanna alle dittature di ogni colore. Non lo stanno ad ascoltare e così il Nostro riprende le vicende calabresi, ma da Roma, dove va a vivere gli ultimi anni. Prende forma una trilogia molto incisiva. Il nostro scrittore riesce a pubblicare, in vita, solo L’età breve (seguiranno postumi Mastrangelina e Tutto è accaduto). Egli scrive poi un’opera teatrale: Lunga notte di Medea. S’interessa, per la riduzione teatrale, ai Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Tiene contemporaneamente critiche teatrali e cinematografiche. Accetta un pur cauto imborghesimento. Entra coscientemente nel sistema, lui che aborriva i sistemi. Non è una resa incondizionata. Alvaro tenta, o prova a farlo (è esclusa la finzione), di portare il suo contributo all’abbattimento del potere verticale da dentro.
La cosa ha un che di patetico che tuttavia non contempla esattamente l’impegno del nostro scrittore. La parola è sempre limata, il concetto non è convenzionale, lo scritto non è di bottega. È sempre un piacere leggere Corrado Alvaro. I segni di stanchezza appaiono trascurabili. Si può e si deve sorvolare sulla forse voluta ingenuità.
Esatta appare l’opinione di Giancarlo Vigorelli presente nel Supplemento al bollettino del sindacato nazionale scrittori, Roma 1957, p. 25:
In tutta la sua carriera di scrittore Alvaro portò senza tregua l’impegno, ed anche il peso, di voler essere, e restare, prima di tutto un uomo e un uomo vivo nel vivo (in quel po’ di vivo) nella società.
L’ardore di Guillaume Apollinaire
Gli artisti sono soprattutto uomini che vogliono diventare inumani.
L’aforisma riportato è attribuito a Guillaume Apollinaire (1880-1918, morto di febbre spagnola): rispecchia il carattere di molti artisti di fine ‘900, raggruppabili sotto la bandiera del Simbolismo. Il Simbolismo può essere visto come una difesa a oltranza del sentimento, evidentemente trascurato dal mondo borghese. La difesa si allarga alla sensibilità intellettuale che, costretta all’emarginazione, si rifugia nell’ermetismo: l’artista diventa una specie di guru che salva classicismo e romanticismo dalle pretese di una cultura solo mercantile. Chi è prigioniero del pragmatismo meccanico non amerà mai questi artisti, li taccerà di fumismi, li vedrà come degli esaltati. Chi tenta di sottrarsi, almeno in parte, alla mentalità strettamente utilitaristica, si renderà conto di aver a che fare con una sorta di disperazione sotterranea, sollecitata a uscire allo scoperto in vari modi, confluenti in quella cosa che viene chiamata sperimentazione. La sperimentazione è in realtà una via complessa che spinge a più prove espressive, alla ricerca di quelle più incisive. L’incisività non è razionale, bensì emozionale, intendendo questo termine in tutta la sua ampiezza e profondità.
Quella di Apollinaire è sperimentazione pura basata sull’incantamento della parola. Il poeta non segue una traccia concettuale, sembra improvvisare sul momento e sulla scorta di percezioni incontrate nella sua personale visione delle cose. Queste ultime, alla fine, prevalgono sulla sua volontà. Apollinaire si lascia guidare volentieri dal suono delle parole, autentiche chiavi ermetiche, si lascia dondolare da quella musica, per lui straordinaria, che le parole unite fra loro sanno creare. L’ermetismo è la fortuna e la sfortuna della sua espressione, così com’era stato per il campione di quest’antica disciplina impastata di sacro, di religioso, cioè Mallarmé. Rimbaud e Verlaine appaiono più spericolati
, detto in estrema sintesi, maggiormente coinvolti nelle loro formule espressive. Mallarmé è criptico ed etereo. È imprendibile.
Anche Apollinaire è spesso molto, troppo personale. Ma nei meandri delle sue lunghe poesie, si avverte uno stupore quasi fanciullesco che lo rende simpatico. Apollinaire è sincero, è spontaneo. È affamato di vita piena. Fra le numerose raccolte di poesie (Alcool, Calligrammi, le più note) spicca Gli amori, a cura di Renzo Paris (poeta anche lui), edito da Oscar Mondadori. I testi si riferiscono all’amore passionale, ardente per le cinque donne della sua vita: una governante inglese, Anne Payden, la contessa Louise de Coligny-Châtillon, la professoressa maghrebina Madeleine Pagès, la pittrice infermiera Jacqueline Kolb e soprattutto Marie Laurencin (pittrice ritrattista che sarà molto richiesta nella Parigi degli anni Venti). Va detto che quest’ultima detestava le paginate del poeta, le riteneva manierate. In effetti, le poesie a lei dedicate sono le più tortuose e leziose.
Apollinaire fu amico di Picasso e di Breton (padre del Surrealismo, termine coniato, pare, proprio dal nostro poeta). Fu interventista nella Grande Guerra, ma se ne pentì presto. Rimase ferito alla testa e fu sottoposto a una delicata operazione chirurgica che lo debilitò. Il clima del Bateau Lavoire
(luogo di raduno e di riparo di numerosi artisti dell’epoca) influì senz’altro sulla fantasia di Apollinaire, ma non la condizionò più di tanto. Apollinaire non s’ispirò a nessuno in particolare, ma certo fece tesoro delle varie espressioni dei poeti maledetti
. Pure fece tesoro della nuova cultura espressa (o con volontà di esprimerla) dalle arti figurative coeve, in particolar modo il Cubismo (i suoi concetti sono come angolari che sorreggono l’immagine, elementi semplici ma robusti).
Apollinaire punta all’essenzialità, ma attraverso un lungo giro di parole che descrivono il momento emotivo particolare intervenuto nel corso di una ricerca sostanziale. L’abbandono a un lirismo incontrato per strada
rende appassionante la lettura delle sue cose. La fa molto suggestiva. Apollinaire vara, in certo qual modo, un modo nuovo di esprimersi: non impone le proprie idee, non le chiude entro una qualche tesi, bensì le lascia aperte, spalancate ai quattro venti, da rivivere e riesplorare all’infinito.
Il male di Hannah Arendt
Hannah Arendt (1906-1975), filosofa scrittrice e storica tedesca, poi naturalizzata statunitense (1951), era corrispondente per il New Yorker
al processo di Eichmann in Israele nel 1960-1961. Il criminale nazista era stato catturato con un blitz dei servizi segreti israeliani in Argentina per volere di Ben Gurion, fondatore e primo ministro del nuovo stato ebraico, ipotizzato a suo tempo da Theodor Herzl (sionismo). La risoluzione Balfour (1917, gli Inglesi amministravano il territorio su mandato internazionale) consentiva la vendita della regione palestinese preferibilmente agli ebrei. Dopo la Seconda guerra mondiale, l’esodo verso la Palestina fu deciso perché i figli d’Israele
avessero finalmente un preciso punto di riferimento proprio. Era, psicologicamente, il ricongiungimento con gli ebrei già residenti laggiù.
Ma torniamo a Eichmann: il 15 dicembre 1961 fu giustiziato. La Arendt due anni dopo licenziò un saggio, divenuto famosissimo, il cui titolo originale è: Eichmann in Jerusalem - A Report on the Banality of Evil. Ovvero, Eichmann a Gerusalemme - un rapporto sulla banalità del male. L’editore italiano (Feltrinelli) invertì le parole, anteponendo il concetto di banalità del male
. In effetti, l’autrice si concentra su quest’ultimo, mettendo in discussione, lei di origine ebraica, l’impianto accusatorio, subito orientato verso la promulgazione di una condanna esemplare. Il principio di Simon Wiesenthal (giustizia non vendetta) fu disatteso, agli occhi della filosofa, da una forzatura che in ultima analisi sapeva di ritorsione.
La Arendt sostiene che Eichmann non è un criminale così come lo si intende comunemente. Sarebbe comodo individuare l’assassino, come in un romanzo giallo, e mettersi a posto la coscienza affermando che i cattivi stanno solo da una parte. È nota la posizione di molti tedeschi comuni, contrari alla persecuzione e quindi esecutori controvoglia di delitti disumani. Un’assurdità, a ben vedere. Ci furono anche tedeschi che si opposero seriamente al disegno razzista dei nazisti (pagando con la vita la disobbedienza): sarebbero bastate più persone coraggiose per cancellarlo del tutto. Non dimentichiamo gli esempi di Danimarca e Bulgaria e neanche quello dell’Italia fascista (va detto, gli italiani, sino alla nascita della Repubblica di Salò, si opposero sempre, e con successo, alle pretese tedesche di dar loro gli ebrei). La Arendt considerava più corretto consegnare Eichmann a un tribunale internazionale: il processo di Norimberga, seppur formalmente discutibile, era stato efficace nei confronti dei diritti umani, compatibilmente con il clima politico del momento (stava iniziando la guerra fredda
), ma non esitando di fronte alla criminalità nazista (tuttavia enucleata, per opportunismo, da una realtà ben più grave che vedeva coinvolta l’intera società tedesca). La Arendt pretendeva da un tribunale sopra le parti una più corretta valutazione dei delitti commessi da Eichmann, una valutazione dalla quale, secondo lei, sarebbe emerso che l’imputato non era un assassino cosciente, ma un funzionario zelante al servizio della macchina infernale messa in moto dai suoi capi. Il suo zelo si era spinto sino alla requisizione di treni per mandare più ebrei possibile a morire ad Auschwitz: Eichmann si aspettava da questo zelo avanzamenti di carriera. La filosofa sperava utopicamente di togliere alla Shoah le solite figure di aguzzini e sostituirle con quelle di persone normali, dedite a un lavoro come un altro. Senza le persone normali, la Shoah (e tutte le altre uccisioni di civili disarmati) non sarebbe potuta avvenire. La tesi è amaramente sostenuta dalla Arendt e da lei affidata al saggio citato, come sfogo personale, come chiarimento necessario, come abbattimento dell’ipocrisia. Ragioni irrazionali, legate alle leggi di natura sono alla base dei comportamenti brutali e rispondono alla domanda Come elimino il concorrente?
: se lo Stato me ne dà addirittura la possibilità legale, ucciderò un mio simile, o contribuirò a farlo, senza provare alcun senso di colpa. Ma questa è una condizione preistorica, quando il concetto di civiltà umana non era neppure pensabile. La ragione, una volta entrati nella storia, fu chiamata a eliminare la brutalità fra gli uomini, per motivi di convenienza. Se elimino il vicino, i suoi parenti faranno di tutto per eliminare me: meglio non provarci, meglio cercare di convivere. Intorno a questa consapevolezza, sorsero istituzioni apposta per salvaguardare la convivenza pacifica.
L’istituzione più rispondente allo scopo è stata quella religiosa, posta a salvaguardia della società attraverso la cura verso l’individuo. Per farla breve, se pensiamo alle prime comunità cristiane e alle regole dei conventi, caratterizzate da effettive ispirazioni evangeliche, capiremo l’importanza del cambiamento fra gli uomini rispetto al passato. Se però riflettiamo sul seguito, a partire dalla costituzione del Sacro Romano Impero, ebbene avremo la realtà di una Chiesa secolarizzata e quella di un Dio punitivo come un tiranno qualunque (personaggio mutuato dall’Antico Testamento, quanto travisato). L’abbassamento ecclesiastico alla relatività della vita quotidiana è prova d’incapacità da parte dell’istituto religioso di formare l’uomo nuovo, meno materiale del precedente, così com’è nella sua missione. La scienza del ’600, figlia di un lungo processo di affermazioni oggettive, ha ricalcato le orme della religione, martire a parole e complice sostanziale del sistema pratico: un sistema complessivo fatto di vittime e di assassini a turno. Lutero aveva creato il Protestantesimo grazie a un cospicuo appoggio materiale da parte dei prìncipi tedeschi. Quello spirituale fu lasciato ai fanatici (altro travisamento). Senza l’intermediazione ecclesiastica, secolare, il protestante (generalmente di capacità speculative modeste) si ritrovò in balia di se stesso e, sempre generalizzando, pensò e agì in due modi diversi. Il secondo, eminentemente pratico, fondato sulla vecchia legge naturale della contrapposizione fisica, necessariamente metaforizzata, come prassi normale, e simile a quella preistorica a metafora superflua e con possibile sfogo dei propri istinti. In ultima analisi, quindi, è la missione religiosa fallita la causa della banalità del male reiterata sino a noi, tranne qualche umano ravvedimento, sollecitato dalla vergogna, come avvenne inventando il boia Eichmann.
Ma ha ragione la Arendt: purtroppo Eichmann era un uomo qualunque. Qualunque. Punendolo sotto questa veste, per il vile aiuto dato al nazismo, la civiltà avrebbe tratto maggior vantaggio che voler punire a forza un personaggio malefico assoluto che tale, il tedesco, non era al pari di altri suoi colleghi e complici.
Gli affronti ad Antonin Artaud
Nelle Lettere da Rodez (incluse nel volume Scritti di Rodez), Antonin Artaud (1896-1948) esprime tutta la sua rabbia contro la religione, usata malissimo, secondo lui, da una Chiesa impicciona e ottusa. Ecco cosa scrive a Henri Parisot, uno dei suoi editori, il 7 settembre 1945: … Le ho scritto due lettere almeno tre settimane fa per dirle di pubblicare il Viaggio al paese dei Tarahumara
, ma aggiungendo una lettera da mettere al posto del supplemento al Viaggio, dove ho avuto l’imbecillità di dire di essermi convertito a Gesù Cristo, mentre Cristo è quel che ho sempre maggiormente aborrito, e questa conversione è stata solo il risultato di uno spaventoso affatturamento che aveva fatto dimenticare a me stesso la mia natura e qui a Rodez mi ha fatto ingoiare, con il pretesto della comunione, un numero spaventoso di ostie destinate a tenermi per il maggior tempo possibile, e se possibile eternamente, in un essere che non è il mio…
Antonin Artaud, padre del teatro moderno (si pensi almeno al Living Theatre e al teatro di Carmelo Bene) è stato uno dei più interessanti intellettuali del secolo scorso. Da Rodez, a sud della Francia, messo a forza in un manicomio per sospetta schizofrenia, lo scrittore marsigliese confessa tutta la propria delusione per una società bloccata su schemi poco razionali e poco rispettosi dell’essere umano. Artaud non va certo libero per la piccola città, ma è costretto a stare in un manicomio alla mercé di un brav’uomo di scarsa capacità scientifica (com’era ai tempi in generale): il dottor Gaston Ferdière lo sottopone alla cura dell’elettrochoc in misura considerevole e, ritenendosi un pioniere della psicanalisi, lo incita a praticare l’arte che più aggrada al presunto malato. Ovviamente per Artaud è la scrittura. Ma lo scrittore non ha più la lucidità di prima. Aveva esordito con poesie disperate e confuse. Jacques Rivière, responsabile della Nouvelle Revue Franćaise
, lo prese in simpatia e qualcosa finì col pubblicargli (la loro corrispondenza, che è uno spaccato intellettuale di rara suggestione).
A quattro anni il nostro personaggio soffrì di meningite: a essa si fa risalirla sua instabilità mentale. Il libro Al paese dei Tarahumara a cura di H. J. Maxwell e C. Rugafiori, Adelphi editore, è formato da diversi scritti di Artaud, la cui lettura dà bene l’idea di una personalità tormentata, nemica di ogni frase fatta e agguerrito oppositore del semplicismo, che vedeva nel comportamento generale del tempo (forse oggi è addirittura peggiore). La sofferenza dello scrittore marsigliese è soprattutto di carattere esistenziale: è ovvio che con simili turbamenti dell’animo, Artaud non potesse accettare la consolazione penosa imposta dalla Chiesa. Per la verità, il suo atteggiamento nei suoi confronti fu variegato nel tempo: ora fedele, ora infedele. Ora propenso all’ubbidienza, ora del tutto opposto a essa. Vedeva nei riti l’assenza della sostanza spirituale e quindi predicava l’inaffidabilità del dettato religioso istituzionalizzato. Questa inaffidabilità religiosa non gli era di certo sfuggita neppure nel complesso cerimoniale del popolo dei Tarahumara stanziato a nord del Messico (ancora è là, esso sarebbe composto da circa 70.000 individui), presso i quali soggiornò per qualche tempo, imparando l’uso del peyotl
, un allucinogeno con poteri liberatori, meglio del laudano che da anni Artaud consumava largamente su invito del medico curante (sic!). Lo scrittore descrive con ammirazione le abitudini sacre di questo popolo, ne sposa in parte l’esoterismo (che è in qualche modo costruttivo), ma non dimostra sicuramente entusiasmo per le attribuzioni risolutive date irrazionalmente alla cerimonia. Il fascino della semplicità dell’apparato scenico e una certa profondità insita nella fenomenologia del rito, diretto dall’esuberanza derivata dall’oppiaceo, unita alla naturalezza del tutto, danno ad Artaud la visione di un mondo più puro.
Così come assistendo a una danza di Bali, nel 1931 durante un’esposizione coloniale, lo scrittore troverà lo spunto per rivoluzionare il teatro, cercando di dare più consistenza alla rappresentazione delle scene attraverso recitazioni che vedono coinvolto l’intero corpo. Ogni parte di esso deve avere importanza, ogni parte di esso esprime qualcosa. La scena diventa una serie di quadri fissi che cambiano più o meno rapidamente, rappresentando, ciascun quadro, uno stato d’animo specifico e significativo. La fissità serve per far cogliere il senso della rappresentazione. Né manca l’invito al pubblico all’interazione. Tutto questo si distacca nettamente dalla consuetudine espressiva, proponendo, e anzi imponendo, una maggiore partecipazione alle vicende e alla loro invenzione. Il distacco dal mondo convenzionale è totale ed è sollecitato da una volontà prometeica determinata dalla ragione: è ormai una ragione che sa fare a meno dei confini convenzionali testimoniati da un sapere codificato e da una spiritualità cristallizzata in formule esangui.
Antonin Artaud è fra i disperati del ’900 che hanno perso riferimenti assoluti e che ne cercano frettolosamente di nuovi. Lo fanno da soli, con poca storia in aiuto alle spalle, con tanto senso d’inadeguatezza, ma anche con immenso orgoglio, un orgoglio giustificato dal valore che essi hanno scoperto nella personalità umana. Il sistema non capì Artaud, lo emarginò e lo trattò con brutalità. Sentì d’aver toccato il fondo con l’internamento nel manicomio di Rodez.
Ma il peggio doveva ancora arrivare. L’amico Gide gli fece trovare un posto nella clinica psichiatrica di Ivry sur Seine: dunque Artaud era proprio pazzo, un pazzo pericoloso? Non era un’anima tormentata da prendere in considerazione? Tanta intelligenza intorno a lui si faceva prigioniera di altro? Poco dopo, un tumore al colon mise fine alle tribolazioni del presunto pazzo. Antonin Artaud è tuttora considerato un irregolare, al pari di Van Gogh (di cui il Nostro scrisse, difendendolo), non un innovatore. Non tanto lo fu, va detto, da un punto di vista letterario, lo fu da un punto di vista umano. Dimostrò, pur con qualche confusione, che l’uomo può riflettere anche sull’impensabile, sul cosiddetto ineffabile. La sua straordinaria sensibilità fu ferita da gente da poco che, laicamente e religiosamente, non andò mai oltre il protocollo (scarsissime le eccezioni). Grave fu il comportamento della Chiesa che cercò di imbottirlo di sacralità a buon mercato, trattandolo come un demente bisognoso di compassione. Artaud era in potenza un rivoluzionario nel nome della dignità umana, che vedeva calpestata.
Il paternalismo di Riccardo Bacchelli
Una produzione fiume quella di Riccardo Bacchelli (1891-1985), bolognese, morto a Monza nella totale indigenza (per lenirla, in particolare e in generale per i cittadini illustri non abbienti, il filologo Maurizio Vitale, sollecitò la promulgazione di una legge, che fu la 440 dell’otto agosto 1985: per ironia della sorte Bacchelli non fece in tempo a usufruirne). Fra i molti suoi scritti, veramente famosi divennero due romanzi storici: Il diavolo a Pontelungo (rievocazione dei moti anarchici ottocenteschi con la presenza del grande, e visionario, agitatore popolare Bakunin, personaggio che piaceva molto a Mussolini) e Il mulino del Po, ovvero una lunga saga familiare di mugnai ferraresi (dal periodo napoleonico alla prima guerra mondiale), tradotta in film da Alberto Lattuada nel 1949 e in sceneggiato televisivo da Sandro Bolchi nel 1963. Il mulino del Po consta di circa duemila pagine, suddivise in un primo tempo in tre libri (1938-1940): Dio ti salvi (da cui Bolchi trasse il primo sceneggiato televisivo), La miseria viene in barca e Mondo vecchio sempre nuovo, riuniti in uno solo nel 1957. A differenza di opere consimili europee, questa di Bacchelli, insolita nel panorama letterario italiano, ha il dono di un paternalismo illuminato ed è attraversato da una sottile ironia, se vogliamo tipica del modo di fare italiano, poco propenso alla tragedia per una certa diffidenza verso gli estremi. Non per niente l’Italia è il paese del melodramma che, ben interpretato, mostra un preciso distacco dall’impegno a rappresentare la nuda realtà. Bacchelli si fa invadere da un desiderio narrativo in onore di personaggi la cui apparizione è già di per sé fonte di meraviglia. L’autore rispetta ogni individuo e lo immette, con decisione, ma anche con delicatezza, nel fluire delle cose, nel passare del tempo, come dire qui c’è stato un passaggio, ecco un’orma. La malinconia, controllata, ma senza eccessiva razionalità, palpita serenamente, pur non sottraendosi agli alti e ai bassi dei moti dell’animo. Gli occhi vedono, la coscienza registra: ne vengono nuovi sguardi e nuove interpretazioni, nuove comprensioni. Il paternalismo ha la veste della provvidenza manzoniana e questo evita speculazioni filosofiche dedicate a parentesi esistenziali. Bacchelli crede in un’umanità armonica, dove l’armonia è determinata dal fluire del tutto. L’uomo può solo tentare di corromperla, non è in grado di crearne una sua. Così ragionando, Bacchelli ci riporta un po’ all’800, a quel conservatorismo che recita prudenza e sottomissione alle regole. La cosa è interessante come monito alla riflessione ben prima dell’azione. Il richiamo al fiume, al Po, con la sua lenta maestosità in marcia, è ideale ai fini di un principio che vuole le cose proseguire anche senza l’intervento umano. In fondo, dice, Bacchelli, l’uomo è poca cosa in avere, ma è tanto in essere.
Bacchelli fu interventista nella prima guerra mondiale e fu un fascista tiepido, a quanto pare dando retta a Benedetto Croce per quanto riguarda l’iscrizione al partito (da cui il Croce non si fece alla fine incantare). Non fu molto amico di onorificenze. Scherzava sulle sue candidature al Premio Nobel, forse cosciente dei suoi limiti: una notevole capacità narrativa, descrittiva, senza altre ambizioni (se non sotterranee, captabili con fatica, accennate).
L’importanza di Michail Bachtin
Per quanto fosse un formalista e uno strutturalista, Michail Bachtin (1895-1975) fu capace di suggestioni aperte agli sviluppi più vari. Ci sono, magari nascoste, nelle sue opere. Ecco quelle ritenute principali: Problemi della poetica di Dostoevskij, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale (il suo testo più complesso), Domande sulla letteratura e il fondamentale Estetica e romanzo. In quest’ultimo testo, Bachtin sostiene la tesi per cui il romanzo è la forma d’arte più convincente, per quanto riguarda la verità della natura umana. Il romanziere, per lui, apre, con la sua opera, un dialogo con un lettore immaginario e ideale, al quale si confessa senza reticenze, come fosse una liberazione e una richiesta di assoluzione.
Certamente, per Bachtin, più una liberazione dei sentimenti, favorita da una razionalità speculativa resa acuta e aguzza dall’abile uso delle parole, dalla loro esperta manipolazione. L’attenzione dello studioso va a posarsi sull’abilità nell’imprigionare un concetto, abilità che definisce l’autore preso in esame in un modo preciso. C’è, insomma, lo studio dell’uso delle lettere con cui si fa letteratura, nelle pagine di Bachtin, e questo in barba, per così dire, all’ispirazione e al sentimento. La richiesta di assoluzione si muove all’interno del mezzo, ovvero dello stile.
Ma, poi, Bachtin è un puntiglioso e quindi è portato a cercare il pelo nell’uovo, affidandosi a operazioni chirurgiche sulla parola che fanno bene alla virtù dell’indagare, anche se talvolta, con conseguenze retoriche che creano involuzione concettuale. Il fatto è che lo strutturalismo, di là dalla sua enorme erudizione interna (di cui è spesso prigioniero) induce a una rigidità strumentale a monte che tende, involontariamente, a frenare l’evoluzione del pensiero, lo depriva, innocentemente, della libertà di espandersi. Il pensiero, per lo strutturalista, deve stare in una gabbia: è una gabbia dorata, in quanto formata da mille cristalli di sapere e di immaginare a dovere. Gli studi relativi alla costituzione di tutto questo sono patrimonio accademico ritenuto d’importanza primaria. In buona sostanza, questo patrimonio poggia (lo si dice volgarmente e se ne chiede scusa) su una convinzione basilare per cui qualsivoglia espressione deve rendere conto a un filo rosso
che dipanandosi porterà al risultato per eccellenza, a una certezza assoluta.
Ma se il filo sta raggomitolato su se stesso, è dura che potrà dipanarsi. La tesi continua a girare intorno a se stessa e si congratula con se stessa per questi giri e rigiri. È il caso anche di Bachtin? Studiosi del suo calibro creano soggezione, ma non ci si deve far incantare dalle parole grandi e grosse costruite meticolosamente a tavolino. D’altra parte questa grandezza e grossezza corrispondono a una forma di difesa istintiva nei confronti del nuovo (lo strutturalismo allora aveva pochi anni): è come alzare delle mura contro possibili obiezioni, intraviste in anticipo come indebite. Lo strutturalismo è una scoperta epocale (e per Peirce, per De Saussure, i suoi primi cantori, la cosa era più dialettica che sentenziale) e dunque non va criticato. Ma, ovviamente, non andrebbe neanche divinizzato. Bachtin, intendiamoci, non lo divinizza, ma certe sue considerazioni sanno di dialogo forzato da un metodo di fondo che è considerato infallibile. Il filosofo, per esempio, lega la capacità espressiva del romanziere, dell’intellettuale, all’epoca in cui vive. Sarebbe la contingenza storica, ambientale, a prevalere sulla sensibilità dell’artista. Una specie di genius loci che trova, quasi casualmente, un portavoce ideale. Le cose, in Bachtin, sono molto più complicate di queste personali licenze interpretative del suo pensiero.
Le questioni inerenti alla necessità della contestualizzazione, nel valutare qualsivoglia opera, sono vecchie come il mondo. È una vexata quaestio che ha al suo interno desideri di giustificazione di questo o quell’autore e di questa o quella opera. Però anche un intellettuale modesto sa che il vero artista - vero artista - è sì legato ai suoi tempi, ma è anche in grado di parlare una lingua atemporale. Dostoevskij e Rabelais non sono certo morti, così come Dante, Shakespeare, Tolstoj, Goethe, Bach, Beethoven, Vermeer, Caravaggio, Leonardo, Michelangelo e via dicendo (per fortuna ce ne sono parecchi, relativamente parlando: questa fortuna
fornisce la chiave della cultura e della civiltà). La sicurezza nel sostenere la tesi della contestualizzazione fa acqua se distolta dalle argomentazioni forbite: al sodo, regge come curiosità espositiva e può stimolare intellettualmente, com’è avvenuto in questo piccolo scritto. Il miglior Bachtin non è quello che cerca di imporre il suo punto di vista, ma quello che, con molto acume e sensibilità, propone (forse a sua parziale insaputa) vie laterali, per lo meno come curiosità aggiuntiva e magari meritevole di approfondimenti.
Il relativismo del ’900 porterà all’ipotesi decostruzionista (non c’è un’idea