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I grandi romanzi e i racconti
I grandi romanzi e i racconti
I grandi romanzi e i racconti
E-book3.297 pagine52 ore

I grandi romanzi e i racconti

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Il richiamo della foresta • Il lupo dei mari • Zanna bianca e altre storie di cani • Il Tallone di ferro • Martin Eden • I racconti del Grande Nord e della corsa all’oro • Racconti della pattuglia guardiapesca • La sfida e altre storie di boxe • I racconti del Pacifico e dei Mari del Sud

Saggio introduttivo generale di Mario Picchi
Introduzioni di Goffredo Fofi, Walter Mauro, Mario Picchi
Edizioni integrali

Nell’opera di Jack London, di cui questa raccolta ripercorre le tappe principali, si riflettono le sue pluriformi esperienze di vita: nel capolavoro Il richiamo della foresta e in Zanna bianca, come nei racconti dedicati alla corsa all’oro nelle desolate vastità del Grande Nord americano, risuonano tutti i temi e le atmosfere a lui cari, la lotta per la sopravvivenza, la legge dura e inflessibile della natura che accomuna esseri umani e animali, la solidarietà e il coraggio. E sono storie di sogni impossibili, di indiani e cercatori d’oro, di uomini soli con se stessi nel momento della prova più difficile. Quando poi le desolate distese ghiacciate cedono il posto alle calde correnti del Pacifico, London accoglie nei suoi racconti insoliti eroi provenienti da civiltà diverse, abitanti di isole incantate, portatori di nuovi valori, che affrontano le loro prove sfidando il mare. Ma c’è un’altra violenza, oltre quella senza soggetto della natura, contro cui bisogna lottare, stavolta dentro la società civile: London incita alla rivolta contro le convenzioni e le ingiustizie, alla ricerca di un’autenticità perduta e di un ideale sociale intuito attraverso l’esperienza della propria e altrui ribellione. È il tema di Martin Eden e del Tallone di ferro. Di London Mario Picchi scrive: «Americano fino al midollo, persino nella ricerca delle sue (nobili) origini, London resta ancor oggi, con Edgar A. Poe, il più universale degli scrittori americani, che mischia nella sua opera, con ugual potenza di energia e di speranza, la sua vita vera e idealizzata insieme con lo slancio per l’avvenire».


Jack London
pseudonimo di John Griffith Chaney, nacque nel 1876 a San Francisco. Viaggiò moltissimo ed esercitò i più svariati mestieri, da mozzo a cacciatore di foche, a lustrascarpe a commerciante. Riuscì tuttavia, da autodidatta, a crearsi una solida cultura con lo studio disordinato dei grandi autori europei. La lettura di Marx, il contatto con i vagabondi americani, la sua stessa vita spesso miserabile lo spinsero verso un socialismo istintivo. Esordì come scrittore pubblicando i suoi racconti su periodici locali. Morì, forse suicida, nel 1916. Di Jack London la Newton Compton ha pubblicato in questa collana Il richiamo della foresta, Zanna Bianca e altre storie di cani; Il Tallone di ferro; Il lupo dei mari e Racconti della pattuglia guardiapesca, Martin Eden e nella collana “I Mammut” I grandi romanzi e i racconti.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854141841
I grandi romanzi e i racconti
Autore

Jack London

Jack London (1876-1916) was an American novelist and journalist. Born in San Francisco to Florence Wellman, a spiritualist, and William Chaney, an astrologer, London was raised by his mother and her husband, John London, in Oakland. An intelligent boy, Jack went on to study at the University of California, Berkeley before leaving school to join the Klondike Gold Rush. His experiences in the Klondike—hard labor, life in a hostile environment, and bouts of scurvy—both shaped his sociopolitical outlook and served as powerful material for such works as “To Build a Fire” (1902), The Call of the Wild (1903), and White Fang (1906). When he returned to Oakland, London embarked on a career as a professional writer, finding success with novels and short fiction. In 1904, London worked as a war correspondent covering the Russo-Japanese War and was arrested several times by Japanese authorities. Upon returning to California, he joined the famous Bohemian Club, befriending such members as Ambrose Bierce and John Muir. London married Charmian Kittredge in 1905, the same year he purchased the thousand-acre Beauty Ranch in Sonoma County, California. London, who suffered from numerous illnesses throughout his life, died on his ranch at the age of 40. A lifelong advocate for socialism and animal rights, London is recognized as a pioneer of science fiction and an important figure in twentieth century American literature.

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    Anteprima del libro

    I grandi romanzi e i racconti - Jack London

    Indice

    Saggio intriduttivo

    Nota bibliografica

    Il richiamo della foresta

    Premessa di Mario Picchi

    Il lupo dei mari

    Zanna Bianca e altre storie di cani

    Premessa di Goffredo Fofi

    Il Tallone di ferro

    Martin Eden

    Premessa di Goffredo Fofi

    I racconti del Grande Nord e della corsa all'oro

    Premessa di Mario Picchi

    Racconti della pattuglia guardiapesca

    Premessa di Mario Picchi

    La sfida e altre storie di boxe

    Premessa di Walter Mauro

    I Racconti del Pacifico e dei Mari del Sud

    Premessa di Mario Picchi

    386

    Traduzioni di Annagrazia Bassi, P. Cabibbo, Luca Codignola, Gian Dàuli, Flaminio Di Biagi, L. Felici, Maria Eugenia Morin, Daniela Paladini, Piero Pieroni, Giulio Platone, Sandro Roffeni, Gino Scerrato, Elisabetta Valdré

    Prima edizione ebook: novembre 2012

    © 2009 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-4184-1

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Jack London

    I grandi romanzi

    e i racconti

    Il richiamo della foresta, Il lupo dei mari, Zanna Bianca

    e altre storie di cani, Il Tallone di ferro, Martin Eden,

    I racconti del Grande Nord e della corsa all’oro,

    Racconti della pattuglia guardiapesca,

    La sfida e altre storie di boxe, I racconti del Pacifico

    e dei Mari del Sud

    Saggio introduttivo di Mario Picchi

    Premesse di Goffredo Fofi, Walter Mauro, Mario Picchi

    Edizioni integrali

    Newton Compton editori

    Saggio introduttivo

    I.

    Amatissimo in Italia fin dal decennio successivo alla morte, Jack London è ancora vittima del mito che lo accompagnò in vita, un mito diffuso da lui stesso e poi dai suoi (moglie e figlia che ne scrissero la biografia), che si è sempre sovrapposto al suo volto impedendo di distinguere i suoi veri lineamenti da quelli dell’eroe emergente dalle pagine dei suoi libri. Quel biondo eroe che sfida il mondo intero, che sopporta durezze d’ogni specie dagli uomini e dalla natura, quella specie di Cristo verniciato da superuomo alla Nietzsche, che fa il pugile, il cercatore d’oro, il marinaio, l’ubriacone, sempre sconfitto e sempre trionfante grazie al suo indomito nucleo di purezza primigenia, in Italia lo abbiamo cominciato a conoscere a metà degli anni Venti, quando il fascismo, sepolto Matteotti, stava consolidando il suo potere. Eppure Jack London, il più popolare e meglio pagato scrittore americano del primo quindicennio del secolo, era, o voleva essere, un rivoluzionario, un autentico socialista marxista. Ma al fascismo andava bene il propagandista di Nietzsche, il narratore della violenza, il poeta delle solitudini selvagge e incontaminate.

    Le case editrici se lo disputavano, pubblicavano contemporaneamente le sue opere, la Sonzogno e la Barion («casa per edizioni popolari») avevano i cataloghi colmi non solo di Il richiamo della foresta, Zanna bianca, Il lupo dei mari, Martin Eden, ma anche di cose melodrammatiche e sentimentali come La piccola signora della grande casa. Quando il fascismo finì, i comunisti Editori Riuniti e la Feltrinelli non fecero altro che spostare l’attenzione sulle opere di denuncia sociale, come Il tallone di ferro, romanzo-profezia sulla lotta di classe, e Il popolo dell’abisso, inchiesta sui cinquecentomila diseredati degli slums di Londra. Del resto, in qualunque paese si volesse far credere che c’era una rivoluzione, si leggeva London, proprio lui che nelle sue lettere si firmava «vostro per la rivoluzione»; proprio lui di cui negli anni Quaranta, prima della caccia alle streghe, un critico non sospetto come Alfred Kazin, disse che in America «fu il prototipo, se mai ve ne fu uno, dell’intellettuale fascista adoratore della violenza». Come penetrazione, non c’è davvero male.

    Il London che abbiamo conosciuto in Italia fu colui che, assai prima degli Hemingway, dei Faulkner, degli Steinbeck, ci portò un gran soffio di freschezza dal nuovo mondo, un’insolita visione della vita, un’ansia di vagabondare dovunque, per terra e per mare; colui che scriveva libri intitolati The Road (La strada) e che teneva conferenze su uno dei suoi argomenti favoriti, «the Tramp», ossia il vagabondo; colui che, figlio illegittimo d’un astrologo ambulante, fu ladro di ostriche nei vivai della baia di San Francisco, marinaio a diciassette anni, studente, cercatore d’oro, vero eroe romantico da strada, dedito a ogni sregolatezza ma grandissimo lavoratore (cinquantuno volumi in sedici anni, dall’inizio del secolo alla morte, avvenuta nel 1916, in sospetto fra malattia e suicidio), giornalista straordinario, che seguì da inviato speciale la guerra russo-giapponese del 1904 e scrisse nel 1906 un memorabile resoconto del terremoto di San Francisco; colui che, confusamente imbevuto di darwinismo, di imperialismo alla Kipling, di naturalismo e di superuomismo, si identificò da vivo con la spinta progressista impressa alla vita americana dei primi anni del secolo da Theodore Roosevelt e diventò da morto preda di tutte le ideologie; colui infine che Trotskij giudicò con tanta simpatia, che Upton Sinclair, suo amico e compagno di strada, definì «una delle grandi figure rivoluzionarie della storia americana».

    II.

    Vi sono strane coincidenze in talune circostanze della vita e del destino di due scrittori apparentemente così diversi quanto Jack London e Guy de Maupassant. C’è intanto un elemento che li collega, per cui vale la pena di arrischiare un piccolo esperimento di letteratura comparata; ed è questo: ambedue popolarissimi in vita e dopo, non godono dei favori della critica secondo i loro meriti e sono spesso snobbati anche dai loro colleghi scrittori, restando poi veri oggetti di culto per gli altri che non possono non esser soggiogati dalla maestria e dalla verità artistica, oltre che dalla potenza, di molte loro rappresentazioni.

    Maupassant, ammiratissimo da To1stoj e Proust, non lo fu invece dal supercilioso André Gide che lo definì «operaio delle lettere», da Albert Camus, da Paul Claudel e da tanti altri più letterati che artisti, mentre un grande narratore come Georges Simenon lo poneva davanti a Victor Hugo e a Emile Zola. La prestigiosa collezione dell’editore Gallimard, «La Plèiade», che insieme ai grandi classici ha accolto tante mediocrità, non ha incluso Maupassant che a partire dal 1975.

    Quanto a London, tranne qualche eccezione, egli è stato ignorato, bistrattato, o considerato con sufficienza dalla critica ufficiale americana. Per fare un esempio illustre, Alfred Kazin, nella sua storia d’un cinquantennio di letteratura americana¹ si chiede, alla fine delle poche pagine dedicate a London:

    Fu London lo scrittore veramente grande quale alcuni lo ritengono, fu un talento possente nato fuori tempo, o fu uno di quegli artisti secondari la cui opera, grazie alla ricchezzavdella loro esperienza personale, dà solo una falsa impressione di arte? È difficile dirlo. Forse [...] egli sarà ricordato come uno degli ultimi avventurieri del West, come romanziere «pioniere del socialismo», [..] come amico di tutti quei ragazzi che vorrebbero scappare di casa.

    Il tono sussiegoso e benevolo di Kazin, la sua retorica domanda, che può essere applicata a qualsiasi scrittore o artista o anche a qualsiasi persona che per un merito o l’altro abbia acquistato un certo rilievo e sia quindi oggetto di ammirazione e denigrazione («visto da destra o da sinistra»: si può fare anche con Dante o con Garibaldi), non bastano a nascondere una realtà indiscutibile: che London, se non piace a certa critica, piace al pubblico; e come il suo connazionale Edgar Allan Poe e come il francese Guy de Maupassant, il suo vero pubblico non è quello della sua nazione, dove l’establishment culturale deve seguire le regole, ma del mondo intero, poiché con la sua opera egli tocca corde, chiamiamole pure primordiali, che risuonano nel cuore d’ogni uomo: la vita, la morte, l’amore, la paura, l’orrore, in rappresentazioni dirette e possenti.

    Tornando a London-Maupassant, dopo avere notato somiglianze nella loro vicenda come la vita breve (quarant’anni il primo, quarantatré il secondo), il faticoso apprendistato, la gloria repentina, la produzione a getto continuo, l’amore dell’acqua, la vigorosa vita sessuale - somiglianze che, seppure in numero tale, da uscire dalla semplice casualità, potrebbero comunque esser considerate coincidenze - si deve dire che la loro parentela forse più vistosa è nella visione del mondo. Diversa, ma non tanto, nell’uno e nell’altro, la loro Weltanschauung è a tinte forti e nette e risulta da esperienze personali spesso traumatiche su cui si sovrappongono, a guisa di corazza protettiva, cognizioni filosofico-scientifiche a formare una specie di sistema. Il quale, proprio per essere così personale, non ha né può avere altro valore se non di motivo propulsore e, in parte, di struttura portante che però non si deve scorgere, né deve soverchiare la materia narrativa, ma far tutt’uno con essa. Il torto dei critici è stato, nel caso di London, di prendere alla lettera certe affermazioni, senza considerare che esse, come spessissimo le professioni di fede (di ogni specie) hanno soprattutto un valore psicologico.

    Anche con Maupassant i critici si sono divertiti a rilevare una semplicità di pensiero che sa di semplicismo: scetticismo che copre mancanza d’amore, ammantato in seguito dalle geniali crudezze di Arthur Schopenhauer, adoratore e spregiatore della vita, e dalla filosofia evoluzionista di Herbert Spencer. Ma sbaglierebbe chi volesse giudicare in sé e per sé pensieri che non sono Pensiero.

    III.

    Nell’introduzione alla raccolta da lei curata di scritti e testimonianze su London², Jacqueline Tavernier-Courbin osserva, dopo avere chiamato in causa Ernest Hemingway:

    Mentre Hemingway è stato il beniamino dei critici letterari per mezzo secolo, London è stato da costoro spregiato e soltanto negli ultimi dieci o dodici anni [lo scritto è del 1983] alcuni studiosi hanno cercato di rivalutare seriamente la sua opera. Ed è sempre una sorpresa per gli studiosi scoprire che, da quando ha raggiunto la fama, London è stato il più venduto scrittore americano nel mondo, che le sue opere sono state tradotte in 68 lingue, che i suoi 50 libri sono fra i più venduti classici da 75 anni, che le vendite mondiali di libri come Il richiamo della foresta sono straordinarie (oltre 7 milioni di copie a partire dal 1903), e che si possono trovare collezioni delle sue opere complete nelle principali lingue (in Russia ve ne sono sette), mentre in inglese molti suoi libri non sono in commercio.

    Forse, si chiede la Tavernier-Courbin, «il motivo principale per cui London è stato accantonato sdegnosamente dalla critica letteraria del suo paese deve cercarsi nell’immagine mercenaria che egli ha dato di sé, proclamando a voce troppo alta che scriveva per denaro»: ma può bastare questo per giustificare un tale esilio? Anche con E. A. Poe è accaduto qualcosa di simile: per oltre un cinquantennio egli è stato messo al bando, e anche la sua fortuna successiva ne ha risentito, a causa della macchia gettata su di lui dal reverendo Rufus Griswold che costruì perfino falsificazioni per discreditarlo come uomo d’ingegno irregolare dedito all’alcolismo.

    Ma una cosa è l’alcolismo, in particolare nella società americana dell’Ottocento, una cosa è il guadagno, sacro nume il cui culto non è mai venuto meno negli Usa. Avrà contato, sì, l’averlo proclamato con tanta sicurezza e quasi con sfida; ma devono anche esserci altri motivi. E sono, probabilmente, insieme con la fede nel denaro, quella nel socialismo e le ripetute lezioni di vita e di filosofia che London si credeva in diritto di impartire continuamente a chiunque, perfino al presidente Theodore Roosevelt.

    Irruento, litigioso, assiomatico, ripetitivo, lo scrittore potrà anche avere urtato coi suoi vertiginosi guadagni (settantamila dollari l’anno erano la media: una somma enorme sperperata rapidamente), l’irritabile genus dei critici; ma è anche scritto nel destino di coloro che salgono troppo in alto nei cieli della fama e della ricchezza di subire dopo morti la vendetta dei posteri. Certo è che London non si seppe amministrare come Hemingway, tanto per citarne uno, fece troppo di tutto, incarnando generosamente nella sua vita ribelle e sfrenata l’ideale romantico mai compiutamente realizzato da nessuno scrittore americano. Ma, se nel troppo è la sua misura si deve dire che per pochi, come per lui, la lettura dell’opera completa (o quasi) può dare la misura della sua qualità. Egli certo non poté, su cinquanta libri, scrivere cinquanta capolavori. Eppure, nonostante il ritmo frenetico della sua produzione, i capolavori di London sono parecchi, anche quando, premuto dal pubblico, cede alla vena sentimentale. Hemingway, che pure incarnò nella vita e nell’opera il mito dello scrittore d’azione (assai meno genuino di London), parlò meno, scrisse meno, si amministrò meglio: ma a percorrere oggi la sua opera si torna con le braccia quasi vuote e col cuore quasi freddo.

    L’errore della critica bigotta americana è stato di avere preso alla lettera le affermazioni di London: quando proclamava il suo socialismo contraddicendolo poi con l’individualismo anche esagerato della vita e dell’opera; quando si atteggiava a filosofo, a sociologo, a propagatore di dottrine già esaurite o in via di ridefinizione. Con un certo tono di sufficienza, in un recentissimo libro dal titolo significativo, Dante reazionario³, Edoardo Sanguineti rimprovera al nostro massimo poeta di non essere andato con la mente oltre il suo tempo. Come quelle riguardanti London, sono affermazioni più che altro retoriche (oltre che inservibili) le quali si ritorcono contro chi le fa. Eppure si seguitano a fare.

    IV.

    Lo scrittore inglese Andrew Sinclair, che è forse il miglior biografo di London⁴, scrive a proposito della sua «personale visione del socialismo»:

    Jack credeva in un socialismo evoluzionista e rivoluzionario. Voleva che un’aristocrazia (bianca) dell’intelletto si assumesse il governo dello stato per il bene comune. [...] Jack era socialista soprattutto quand’era depresso e assillato dagli incubi. La teoria del socialismo proteggeva i deboli e i diseredati. Sembrava un buon sistema per garantire a tanta gente un lavoro e un nutrimento migliore. [...] Quando si sentì più fiducioso asserì che la sopravvivenza dell’individuo e della razza determinavano tutto il comportamento umano⁵.

    Ma, per biasimevole che fosse sul piano teorico e anche su quello della coerenza, da una critica tanto più agguerrita di lui, tutto questo gran discorrere e arzigogolare per puri scopi personali serviva soprattutto a due scopi: il primo, assicurare saldezze alla sua fragile interiorità, il secondo, a dargli slancio e grinta. Ancora Sinclair:

    La sua convinzione pessimista, la sua considerazione dello spirito umano in lotta contro forze inesorabili, gli conferiva tutta la sua potenza di pensatore e di scrittore⁶.

    In una lettera del 17 aprile 1899, appena emerso da quella specie di lungo incubo che fu la sua adolescenza e giovinezza, London scriveva:

    Siamo marionette cieche in balia di grandi forze irragionevoli; forze che generano l’altruismo nell’uomo. La razza che possiede il più elevato altruismo durerà; ma il più elevato altruismo va osservato dal punto di vista d’una impietosa legge naturale. [...] Le razze minori non possono resistere. [...] Non posso fare a meno di proclamare inevitabile la fine del nero e del bruno prima del bianco⁷.

    Sulla base di queste affermazioni London è stato condannato come fascista, nazista e peggio. E d’altronde, l’enorme diffusione della sua opera nei paesi socialisti non si deve, più che agli inesistenti meriti del «compagno di strada» Jack London al bisogno di quei paesi di costruirsi alibi e alleati dovunque? Per gli stessi falsi motivi per cui London fu scartato in patria fu accettato in Urss e nei satelliti. Sarebbe bastato uno sguardo appena serio e attento dall’una e dall’altra parte per capire la radice del socialismo di London e di tanto suo teorizzare e tenerne il debito conto. Ma dall’una e dall’altra parte faceva troppo comodo non tenerne conto.

    Diversi ma simili, London e Maupassant, ambedue colpiti da un male oscuro sofferto, subito dopo la nascita, lungo tutta l’infanzia e oltre, - la mancanza d’amore materno e paterno, - cercarono di medicare la loro incurabile ferita in tanti modi ma specialmente isolandolo ed ergendogli intorno muraglie di teorie apparentemente incrollabili e pronte a dissolversi alla minima bufera emotiva. Dopo la morte, quelle ferite che hanno fatto di loro i poeti del positivismo, sono divenute splendide perle in cui il dolore si è mutato in oggetto di bellezza. Eppure quei due pensatori sbagliati, proprio per essere soprattutto poeti, con la loro anima denudata sulla carta, possedevano facoltà profetiche che i professionisti del pensiero, necessariamente di corte vedute, non avranno mai. Tanto per restare a London, The Iron Heel (Il tallone di ferro) proibito in Italia durante il fascismo e dopo limitato a una lettura fuori del contesto culturale e finalizzata a interessi di partito, pur teoricamente sballato è vero d’una intuizione che nasce dall’esperienza proletaria di Jack nei bassifondi di Oakland e poi sulla strada e sul mare - intuizione che è stata confermata dalla significativa «rivoluzione» scoppiata nell’aprile-maggio 1992 a Los Angeles⁸, in un contesto che ricorda «la giungla moderna» in cui s’è trasformata la megalopoli Chicago nel romanzo londoniano, vista come l’anticamera dell’inferno. E un altro racconto del 1901, Il favorito di Mida (The Minions of Midas) che altro non è se non una prefigurazione, allora quasi imprevedibile oggi tanto più vicina, d’un avvenire di cui le gesta di terroristi come le Brigate rosse in Italia e la Rote Armee Fraktion in Germania, negli anni Settanta, non sono state che una rozza anticipazione? Il racconto di Hemingway, assai più famoso del suo valore, Gli assassini, che narra di due sicari in attesa della loro vittima in un bar notturno, ormai sbiadito dopo che tante sequenze cinematografiche gli si sono sovrapposte, non possiede più in nessuna sua parte la forza d’urto che - oggi - ci colpisce leggendo nel Favorito di Mida frasi come questa, nella quale gli assassini sociali di London si autodefiniscono.

    Siamo l’inevitabile. Siamo il culmine dell’errore industriale e sociale. Ci rivoltiamo contro la società che ci ha creato. Siamo l’insuccesso riuscito dell’epoca, le sferze d’una civiltà degradata. Siamo i figli d’una selezione sociale perversa. Rispondiamo con la forza alla forza. [...] Nella presente situazione sociale, chi di noi sopravviverà? Crediamo di essere i migliori.

    V.

    Prima ancora che dall’ingiustizia sociale, l’individualità del giovane London era stata colpita dall’ingiustizia personale. Come e più del suo confratello francese Maupassant egli sofferse nell’infanzia e poi retrospettivamente della mancanza della figura paterna. Guy la sostituì, tardi, con quella del suo padrino e tutore letterario Gustave Flaubert; Jack fece lo stesso col suo buon patrigno John, che gli diede nome e cognome e fu anche suo compagno di pesca ma non bastò: certe ferite, in certe anime, non guariscono mai. Da ragazzo Jack confuse la fame d’amore con la fame di carne. La famiglia era povera, ma la carne non mancava, eppure lui voleva sempre più carne e a scuola arrivava a rubarla, dal cestino d’una compagna. Quando andò nel 1911 a seguire per Collier’s la rivoluzione Messicana si nutrì prevalentemente di carne cruda, e due anni dopo il medico dovette intimargli di interrompere tale abitudine. Uno dei suoi racconti più toccanti del ciclo della boxe, Un pezzo di bistecca, è angosciosamente centrato sul desiderio d’un vecchio pugile, prima dell’incontro, di mangiare finalmente un pezzo di carne e ricavarne la forza necessaria per vincere.

    Nel 1900, nel periodo in cui cominciava a pubblicare i primi racconti su riviste di vasta diffusione, Jack si fabbricò di sana pianta una falsa genealogia, affermando che John London era suo padre, che i suoi due genitori provenivano da famiglie giunte in America prima della rivoluzione, e addirittura che era possibile rintracciare quattro generazioni di ascendenti, nei quali si mischiavano sangui inglesi, gallesi, olandesi, svizzeri e tedeschi - tutti nordici di pelo biondo. A un certo punto si inserì in questa genealogia persino il sospetto d’un flusso di sangue reale. La leggenda creata da Jack London durante la sua vita e sostenuta, anche dopo la sua morte, dai suoi familiari (la moglie Charmian e la figlia Joan) e da amici veri o presunti tali, fu lunga da chiarire e diede origine a molti equivoci.

    L’opera narrativa di London è attraversata da strane figure maschili; accanto al superuomo che gli altri dicevano nietzschiano e che lui si affannava a proclamare in polemica con Nietzsche, compare un gigante alto, buono e forte, che di volta in volta prende i lineamenti di Malemute Kid, di Charley della Pattuglia guardiapesca, di Smoke Bellew, di David Grief dei Figli del sole: probabilmente una idealizzazione dell’uomo incontrato a Kansas City quando, diciottenne, dovette scontare un mese di prigione per vagabondaggio, e che fu il suo patrono e «protettore». Il padre vero e proprio, quell’ignoto che lo abbandonò prima ancora di nascere, gravando poi con tutta la sua forza malefica su tutta la sua vita, lo troviamo invece nei lineamenti del crudele e assurdo dominatore d’una ciurma di incapaci qual è Il lupo dei mari (su cui si veda la nota introduttiva al quarto volume).

    VI.

    Disordine e rigenerazione: i due poli intorno a cui oscillò con alterna vicenda la vita fisica e psichica di Jack London. Il primo era la follia dell’alcol, già cominciata all’età di sette anni e proseguita quasi senza intermittenze, con apici come quello della crisi fra il 1911 e il ’12 (quando già era cominciata l’inarrestabile decadenza psico-fisica) a cui si aggiunse poi, sotto forma di medicina-sollievo, la droga, che gli toglieva ogni dolore dal corpo e dall’anima, da quel corpo tanto idoleggiato nei momenti magici e che tanto crudelmente si ammalava, portandogli sofferenze indicibili. Il secondo era il ripristino della primigenia purezza, simboleggiata dal culto dell’amore e della terra, dai tentativi che egli compì di riconquistare l’amore delle figlie nate dal primo matrimonio e di diventare proprietario di terre e allevatore di bestiame. Prigioniero del suo mito di scrittore del coraggio e dell’amore della vita, cercò di non discostarsene coi suoi scatti di energia, con la sua prodigiosa capacità lavorativa che gli consentì di mantenere un ritmo di produzione elevatissimo pur in mezzo ad agonie d’ogni specie. La cronaca dei suoi ultimi tre o quattro anni è una lotta continua per dare equilibrio (quella che lui chiamava la Logica Bianca) agli estremi del suo carattere e nello stesso tempo rispettare gli impegni assunti quale personalità pubblica di grande rilievo, seguita dalla stampa in ogni momento della giornata.

    Morto lui, spento il grande fascino della sua personalità che dava unità e coerenza a una produzione tanto vasta quanto eterogenea, scomparso quel colosso che aveva dominato il principio del secolo coi suoi sogni e con la sua sete di avventure, quei cinquanta volumi, quale più quale meno, seguitarono ad andare per il mondo come a nessun altro scrittore americano era mai accaduto, mentre la marea della reazione, in patria, cominciò ad appiattire la sua figura per sommergerla: e la critica newyorchese ebbe facile gioco a disfarsi d’una ideologia fondata su un superato darwinismo oppure su una specie di razzismo apocalittico, per di più d’uno scrittore californiano...

    Nella sua biografia, Andrew Sinclair così riassume l’effetto di London sulla letteratura americana, dopo la sua morte:

    Jack aveva creato l’immagine dell’eroico scrittore macho, il quale visse i suoi romanzi e fece della sua vita un romanzo. Si comportò come il Grande Romanziere Americano, anche se non aveva scritto il Grande Romanzo Americano. Quelli che seguirono il suo modo drammatico di vita e la sua maniera di scrivere nervosa e disadorna, come Ernest Hemingway, dimenticarono di attribuirgli il merito d’avere inventato uno stile che aveva più contatti con l’Alaska di London che con la Parigi di Gertrude Stein. Jack ricevette anche pochi ringraziamenti da John Dos Passos o da Steinbeck o Kerouac per avere precorso il romanzo «vagabondo» con The Road. Norman Mailer non ha mai lodato lo scrittore che, con estrema immediatezza, ha preso il pugilato come argomento di alcune delle sue cose migliori di giornalista e scrittore. Soltanto in una lettera privata del 1916 Henry Miller ammise che non esisteva negli Stati Uniti un altro scrittore di uguale coraggio e infuocata energia; più tardi, in pubblico, Miller dimenticò questo elogio. Fra i principali scrittori della generazione successiva a London, soltanto Eugene O’Neill fu tanto gentile da riconoscere che egli era stato una delle principali fonti della sua ispirazione.

    Americano fino al midollo, persino nella patetica ricerca delle sue (nobili) origini, London resta ancor oggi, con Edgar A. Poe,

    il più universale degli scrittori americani, che mischia nella sua opera, con ugual potenza di energia e di speranza, la sua vita vera e idealizzata insieme con lo slancio per l’avvenire. Alla sua morte nel 1916 furono trovati fra le sue carte oltre duecentocinquanta progetti per il futuro, insieme con un racconto, The Red One (Il rosso), uscito nel 1918 su Cosmopolitan: l’ultima gemma della sua produzione, in cui i miti della sua vita di uomo e di artista sembrano sciogliersi in una sovrumana intuizione.

    Un esploratore trascina i suoi ultimi giorni in una delle isole Salomone, conteso fra un’orrenda (eppur femminilissima) donna e lo stregone che vuole impossessarsi della sua testa per affumicarla e farsene ornamento. Finirà per cedere allo stregone, purché gli sia concesso di morire davanti al «rosso», una grande sfera musicale giunta dallo spazio a portare il messaggio d’un’altra civiltà e diventata insieme totem e gong dei selvaggi che ne cavano, inconsapevoli, suoni d’indicibile bellezza, in cui si sentono «parlare gli arcangeli», si percepisce l’intelligenza «dei superuomini abitanti pianeti di altri soli», si ascolta la voce stessa di Dio.

    Così, alla fine della sua vita, London ha chiuso il cerchio: il suo superuomo, di cui ha inutilmente tentato d’essere l’incarnazione, è stato da lui stesso sostituito con la divina voce venuta di lontano.

    MARIO PICCHI

    ¹ On Native Grounds, trad. it. La nuova terra, Milano, Longanesi, 1970, II, p. 153.

    ² Critical Essays on Jack London, Boston, G.K. Hall, 1983, pp. 1-2.

    ³ Roma, Editori Riuniti, 1992.

    Jack, New Jork, Harper e Row, 1977.

    Jack, p. 33.

    Ibid.

    ⁷ Ivi, p. 34.

    ⁸ Dopo l’assoluzione di alcuni poliziotti che avevano ingiustamente picchiato un negro (episodio filmato da un testimone), nei quartieri popolari di Los Angeles sono scoppiati disordini di tale violenza da richiedere per giorni e giorni l’intervento dell’esercito.

    Nota biobibliografica

    CRONOLOGIA DELLA VITA

    1876. 12 gennaio. A San Francisco (California) nasce John Griffith, figlio illegittimo dell’astrologo ambulante irlandese William H. Chaney e di Flora Wellman, cultrice di musica e spiritismo, di origine scozzese. Sette mesi prima del parto Flora aveva tentato due volte il suicidio, essendo stata scacciata dal suo convivente per avere rifiutato di abortire. 7 settembre. Flora sposa John London (conosciuto in una seduta spiritica), un vedovo che aveva avuto sette figli dal precedente matrimonio, di cui soltanto le due più piccole vivevano con lui. John London dà il suo nome al figlio di Flora, che sarà poi chiamato col diminutivo di Jack. La famiglia vive nella zona povera di San Francisco, ma comincia a spostarsi da una parte all’altra della baia per seguire John London che, dapprima muratore e falegname, fa successivamente il droghiere, l’ortolano, l’allevatore di polli. Jack cresce privo dell’affetto materno («non ho mai avuto infanzia», scriverà poi), ma curato dalla sua nutrice negra, Mammie Jenny, e dalla sorellastra Eliza, che ha nove anni più di lui. A sei anni sua madre Flora lo conduce a una seduta spiritica. Frequenta le scuole, come può, secondo i vari traslochi, ma è considerato un allievo difficile. Nel 1886, dopo un decennio di vagabondaggi e di fallimenti, John London torna a stabilirsi a Oakland, di fronte a San Francisco, dove Flora apre una pensione. 1886-89. Jack frequenta la Cole School dove si diploma nel 1889. Alla Oakland Public Library scopre il mondo dei libri e legge soprattutto narrazioni di viaggi e avventure ma la bibliotecaria Ina Coolbrith, poetessa, gli presta anche, dalla sua collezione privata, Anna Karenina e Madame Bovary. Intanto il ragazzo si dedica a mille piccoli lavoretti per contribuire alle spese familiari e raggranellare i due dollari per acquistare una barchetta con cui esplora in lungo e in largo la baia di San Francisco, sfogando la sua passione per il mare. 1890. Non ancora quindicenne Jack si dà alla piccola delinquenza, specialmente al saccheggio dei banchi di ostriche, beve, frequenta i bassifondi di Oakland facendosi coinvolgere in violente risse. Procurandosi non si sa bene come 300 dollari acquista uno sloop e diventa «il principe dei pirati di ostriche», arrivando a guadagnare fino a cento dollari per notte. Ma, dopo che la sua imbarcazione viene bruciata dai suoi rivali, Jack si ingaggia per un anno proprio nella squadriglia di scialuppe che combattono i pirati di ostriche (esperienza da cui nascono i racconti della Fish Patrol del 1905). Successivamente si dedica al vagabondaggio capeggiando, col soprannome di Frisco Kid (il ragazzo di San Francisco), una piccola banda con cui compie ruberie sui treni merci. 1893. 20 gennaio. Si arruola per una stagione di caccia alla foca nel mare di Bering e sulle coste del Giappone. Ispirato a questa vita e alla figura del capitano Alexander Mac Lean sarà il romanzo Il lupo dei mari (1904). 26 agosto. Ritornato a Oakland, ricomincia la ricerca di lavoro, passando dall’uno all’altro senza successo. 12 novembre. Col racconto Storia di un tifone al largo delle coste del Giappone vince un concorso indetto dal San Francisco Call: è la sua prima opera pubblicata. 1894. Dopo aver lavorato come fuochista, in aprile Jack si unisce a un piccolo esercito di disoccupati che con ogni mezzo si dirigono verso Washington per chiedere al presidente di finanziare un programma di lavori pubblici. Ma dopo un mese e mezzo abbandona la marcia e comincia a vagabondare per gli Stati Uniti, tenendo un diario dal quale uscirà poi The Road (1907). Alla fine di giugno, dopo aver visitato le cascate del Niagara, è arrestato per vagabondaggio a Buffalo e condannato a trenta giorni di prigione, dove per sopravvivere è costretto ad accettare la protezione di uno dei tredici detenuti che comandano nella prigione e ad avere rapporti omosessuali con lui. Nell’autunno Jack torna a Oakland convertito al socialismo, legge Il manifesto comunista, Proudhon e Saint-Simon e, per meglio comprendere Marx e Spencer decide di entrare all’università e quindi di completare gli studi secondari, che si paga facendo la pulizia delle aule: sul giornale della scuola escono dieci suoi racconti e cronache: i suoi modelli sono R.L. Stevenson e Rudyard Kipling. Frequenta il circolo Henry Clay dove partecipa a dibattiti. Conosce Edward e Mabel Applegarth, figli di emigrati inglesi, frequenta la loro casa e si innamora di Mabel, che sarà poi Ruth Morse del romanzo autobiografico Martin Eden (1909). 1896. In aprile Jack si iscrive al partito socialista di Oakland; in settembre si iscrive all’università di Berkeley, comincia a scrivere infuocate lettere ai giornali sulla lotta di classe, tiene comizi agli angoli delle strade, sogna la rivoluzione, è più che mai convinto nella sopravvivenza e nel dominio del più forte sul più debole. 1897. Abbandona gli studi per dedicarsi alla letteratura, ma i suoi scritti sono rifiutati dagli editori. L’idillio con Mabel langue perché lei lo stimola a cercarsi una sistemazione. 14 luglio. Arrivano a San Francisco le notizie sulla scoperta di ricchi giacimenti d’oro nella valle del fiume Klondike, al confine tra Canada e Alaska. Il 25 luglio Jack e suo cognato Shepard si imbarcano sull’ Umatilla. Shepard ha impegnato la casa per pagare le spese. Fra i bagagli di Jack c’è il Capitale di Marx. A metà agosto, sfinito e malato, Shepard è costretto a rientrare, mentre Jack, costruite due barche, scende lo Yukon con due tonnellate di bagagli e attrezzature fino a Dawson City, «capitale dell’oro», assistendo a innumerevoli episodi di violenza e di crudeltà, e sperimentando sulla sua persona le tremende fatiche fisiche, che diventeranno un leitmotiv e un’ossessione della sua narrativa. 18 ottobre-3 dicembre. Jack è a Dawson City. In una capanna di amici incontra il cane Jack, incrocio di San Bernardo e scozzese che diventerà Buck nel Richiamo della foresta. Durante l’inverno che trascorre in un’isola del fiume Stewart legge intensamente i libri che saranno la base del suo pensiero: opere di Darwin, Spencer, Kipling, Il Paradiso perduto di Milton, l’ Inferno di Dante. 1898. Al principio di agosto, dopo avere percorso per terra e per mare migliaia di chilometri, Jack torna sfinito a San Francisco portando come tutta preda un sacchetto di polvere d’oro che gli viene pagato quattro dollari e mezzo. Durante la sua assenza il patrigno è morto e Jack decide di rimettersi a lavorare, ma anche di scrivere racconti che spedisce a giornali e riviste. Fra l’agosto 1898 e il maggio 1900 gli vengono accettati 15 dei suoi invii, contro 88 respinti ben 400 volte! 1899. Nel fascicolo di gennaio della rivista The Overland Monthly esce Il grande silenzio bianco, primo dei racconti del Klondike (poi raccolto in The Son of the Wolf). Altri sette racconti seguono nei mesi successivi. 1900. Gennaio. L’Atlantic Monthly pubblica Un’odissea del Nord, altri racconti escono su diversi giornali e riviste. La casa editrice Houghton Mifflin gli offre di pubblicare un volume di racconti. 7 aprile. Esce The Son of the Wolf e ottiene grande successo. Jack è definito il «Kipling del Klondike». In questo stesso giorno egli si sposa con Elizabeth Maddern, un’amica della sua ex fiamma Mabel Applegarth, dalla quale avrà due figlie. Ma poco prima, in un raduno socialista, aveva conosciuto la diciassettenne Anna Strunsky, una ebrea russa che sarà poi il primo grande amore della sua vita: con lei, sua confidente privilegiata, scriverà un romanzo epistolare uscito anonimo nel 1903. 1901-02. Jack abita in una villa di stile italiano, si trasferisce poi in un bungalow a Piedmont Hills, nella parte alta di Oakland. Frequenta una cerchia (detta The Crowd, la folla) di nuovi amici, fra cui il poeta George Sterling, col quale ha un’intensa relazione intellettuale e cameratesca (Jack è «Lupo» e Sterling «Greco»). Escono altre due raccolte di novelle (The God of His Fathers e Children of the Frost) e due romanzi, A Daughter of the Snows e The Cruise of the Dazzler. 1902. Fine luglio. L’American Press Association propone a Jack di andare nel Sudafrica per una serie di reportage sulla guerra anglo-boera appena finita. A Londra il progetto viene annullato. Jack trascorre i mesi di agosto e settembre vivendo nei bassifondi della capitale. Gli articoli che scrive, rifiutati dai grandi quotidiani, usciranno l’anno seguente nel volume The People of the Abyss. 1903. Tornato dal viaggio in Inghilterra Jack scrive di getto The Call of the Wild che esce su The Saturday Evening Post dal 20 giugno al 18 luglio. L’autore riceve come compenso settecento dollari e, premuto (come sarà sempre) dal bisogno di denaro, cede per mille dollari all’editore Macmillan i diritti per la pubblicazione in volume (che sarà venduto per la sola lingua inglese in 6.500.000 esemplari). Coi mille dollari Jack acquista un’imbarcazione, lo Spray, su cui ricomincia a percorrere la baia di San Francisco. Nel mese di luglio si separa dalla moglie. 1904. Il 7 gennaio parte verso la Corea a seguire la guerra russo-giapponese per conto della catena di giornali Hearst. In giugno viene arrestato dai giapponesi ed espulso. Tornato in patria tiene numerose conferenze filosocialiste. Esce il romanzo The Sea-Wolf. 1905. La stampa lo attacca per le sue conferenze a favore della rivoluzione russa. Escono The War of Classes (polemica sociale), Tales of the Fish Patrol (racconti), The Game (romanzo). 19 novembre. Si sposa con Charmian Kittredge (con cui aveva già una relazione), e acquista un ranch a Glen Ellen nella «Valle della luna» (California) progettando di diventare agricoltore. 1906. In febbraio Jack comincia a farsi costruire uno yacht, lo Snark, per fare un giro del mondo della durata di sette anni. 18 aprile. Un violentissimo terremoto sconvolge la baia di San Francisco. La città è distrutta dall’incendio. Jack scrive un memorabile reportage per la rivista Collier’s. In ottobre esce White Fang. 1907. In febbraio esce il romanzo di avventure preistoriche Before Adam per il quale viene accusato di plagio da Stanley Waterloo. 20 aprile. Finalmente lo Snark può partire, destinazione le Hawaii. Ma Jack è gravemente indebitato: i costi a causa del terremoto sono saliti da 7000 a 30.000 dollari. Durante il viaggio comincia a scrivere Martin Eden. 19 maggio-7 ottobre. Soggiorno alle Hawaii. 26 dicembre. Arrivo a Papeete. In settembre e dicembre escono Love of Life, giudicato il migliore fra i suoi sette volumi di storie del Grande Nord e The Road, una sorta di breviario del vagabondaggio. 1908. Dopo una rapida incursione con Charmian negli Stati Uniti per avere un anticipo su Martin Eden viaggia nelle isole della Società, Samoa, Figi, Salomone. Il 3 novembre Jack, malato di malaria e febbre gialla sbarca e dal 15 novembre al 22 dicembre si fa curare a Sydney (Australia). Sospetta che alla sua antica gonorrea dei tempi di Oakland si sia sovrapposta la sifilide. In febbraio esce The Iron Heel, un romanzo di propaganda socialista («omaggio a Marx» lo ha definito London), che conosce per oltre sessantanni un continuo successo nei paesi dominati dal comunismo, mentre in altri paesi, come l’Italia e la Francia, la sua pubblicazione è curata da case editrici simpatizzanti a uso dei militanti. 1909. Dopo la convalescenza in Tasmania e a Sydney, lo Snark viene venduto a tremila dollari, un decimo del costo. 28 luglio. Ritorno a Glen Ellen. A settembre esce Martin Eden, il capolavoro autobiografico di Jack London, accolto male dalla critica, ma con entusiasmo dal pubblico. 1910. Quasi per contrastare il rovinoso insuccesso dello Snark, Jack acquista terreni e inizia lavori per ingrandire il ranch, che dovrà diventare «la casa del lupo». Escono, in marzo Lost Face, sesta raccolta sul Klondike, e Revolution (saggi socialisti); in ottobre Burning Daylight, decimo romanzo di Jack. 1911. Giugno-agosto. Viaggi in automobile attraverso California e Oregon. In gennaio esce When God Laughs (racconti), in marzo Adventure (romanzo), in giugno The Cruise of the «Snark» (i reportage della crociera fallita), in ottobre South Sea Tales (racconti). 1912. Febbraio. Jack e Charmian si imbarcano per una crociera intorno al Capo Horn. Scopo del viaggio è anche il completamento del romanzo The Valley of the Moon e una cura di disintossicazione alcolica. In marzo escono The House of Pride (racconti hawaiani), in maggio A Son of the Sun (mari del Sud), Smoke Bellew (settima e ultima raccolta del Klondike). 1913. Jack, che aveva cercato di trasformarsi in agricoltore e allevatore di cavalli, ingrandendo il suo terreno fino a oltre cento ettari più altri duecento di vigne, spendendo fra terreni e casa nuova centomila dollari, continua a conoscere insuccessi e accidenti. E l’anno delle catastrofi: cattiva salute, operazione chirurgica, raccolti distrutti, processi, dissesti finanziari, aborto di Charmian che mette fine al sogno di Jack di avere un figlio maschio e infine, il 19 agosto, alla vigilia dell’inaugurazione della sontuosa «casa del lupo», un incendio che la distrugge completamente. Nell’estate Jack comincia a scrivere alla sua primogenita Joan per tentar di riavvicinarsi a lei. Poco dopo è operato di appendicite e il medico lo ammonisce che si farà scoppiare il fegato se non smetterà di bere, di mangiare carne e pesce crudi e di ingrassare. Jack non soltanto ignora questi consigli ma aggiunge all’alcol e agli analgesici quale rimedio contro l’insonnia la morfina e l’eroina. Escono in febbraio The Night-Born (racconti), in marzo John Barleycorn (memorie di un bevitore), in maggio The Abysmal Brute (romanzo breve sulla boxe), in ottobre The Valley of the Moon. 1914. In aprile viene inviato dal settimanale Collier’s a seguire la guerra fra gli Usa e il Messico. A metà giugno è di ritorno al ranch. A maggio escono i racconti The Strenght of the Strong, a settembre il romanzo marinaresco The Mutiny of the «Elsinore». 1915. Tra febbraio e ottobre esce a puntate sul Los Angeles Examiner il romanzo utopistico-spiritualista The Star Rover. Da marzo a luglio soggiorno alle Hawaii per preparare due romanzi che usciranno postumi nel 1917. 1916. Fino alla fine di luglio soggiorna alle Hawaii a completare il romanzo postumo Hearts of Three (1918) e a preparare i racconti di On the Makaloa Mat (1919). Il 7 marzo Jack annuncia di essersi dimesso dal partito socialista che incolpa di inerzia. In aprile esce The Little Lady of the Big House. In settembre escono i racconti di The Turtles of Tasman. Tra agosto e novembre Jack lavora al romanzo Cherry, completato da Charmian e uscito nel 1926. Il 22 novembre alle 19,45 muore nella Beauty House. Poco prima dell’alba s’era iniettato una dose di 121/2 grani di solfato di morfina misto con solfato di atropina. Alle sette il domestico l’aveva sentito rantolare ed era stato chiamato il medico, ma ogni cura si era dimostrata inutile. Il bollettino mandato alla stampa da Charmian London indicò la causa della morte in «uremia gastro-intestinale». Da allora i sostenitori del suicidio e dell’avvelenamento interno hanno discusso senza esito, fra testimonianze e smentite.

    OPERE

    Romanzi e racconti

    A Daughter of the Snows, 1902

    The Cruise of the Dazzler, 1902

    The Call of the Wild, 1903

    The Sea-Wolf, 1904

    The Game, 1905

    White Fang, 1906

    Before Adam, 1907

    The Iron Heel, 1908

    Martin Eden, 1909

    Burning Daylight, 1910

    Adventure, 1910

    John Barleycorn, 1913

    The Abysmal Brute, 1913

    The Valley of the Moon, 1913

    The Mutiny of the «Elsinore», 1914

    The Scarlet Plague, 1915

    The Star Rover, 1915

    The Little Lady of the Big House, 1916

    Jerry of the Islands, 1917

    Michael, Brother of Jerry, 1917

    Hearts of Three, 1918

    Cherry [The Eyes of Asia], 1926

    The Son of the Wolf, 1900

    The God of His Fathers, 1901

    Children of the Frost, 1902

    The Faith of Men, 1904

    Tales of the Fish Patrol, 1905

    Moon Face, 1906

    Love of Life, 1907

    Lost Face, 1910

    When God Laughs, 1911

    The Cruise of the «Snark», 1911

    South Sea Tales, 1911

    The House of Pride, 1912

    A Son of the Sun, 1912

    Smoke Bellew, 1912

    The Night-Born, 1913

    The Strength of the Strong, 1914

    The Turtles of Tasman, 1916

    The Red One, 1918

    On the Makaloa Mat, 1919

    Dutch Courage, 1922

    Altre opere

    The People of the Abyss, 1903

    War of the Classes, 1905

    The Road, 1907

    Revolution, 1910

    The Human Drift, 1917

    Letters from Jack London, 1965

    Curious Fragments, 1975

    The Letters of Jack London, 1988

    Le opere complete di London sono raccolte nella Fitzroy Edition of the Works of Jack London, New York, 18 voll., 1962 ss.; a questa si deve aggiungere, seppur non completa, la Bodley Head Jack London, 4 voll., 1963. Merita pure d’essere menzionata, per l’abbondanza delle notizie e della scelta (c’è quasi tutto!), il Jack London in francese a cura di Francis Lacassin, in sei grossi voll., Parigi 1983-90.

    Fra le biografie, The Book of Jack London della moglie Charmian K. London (due voll., New York 1921) è considerato la principale fonte di informazioni, ma spesso confuso e malsicuro. La biografia romanzata di Irving Stone, Sailor on Horseback (Cambridge 1938), tradotto in italiano con London. L’avventura di uno scrittore (Roma 1979) cede troppo alla fantasia; mentre più equilibrato è Jack London and His Times (New York 1939) della figlia Joan. Ma la migliore biografia e insieme approfondito studio critico è Jack, di Andrew Sinclair (New York 1977).

    Quanto agli studi critici indichiamo, fra quelli in italiano, M. Geismar, Ribelli e antenati (Milano 1963) e M. Muffi, La giungla e il grattacielo (Bari 1981).

    In Italia, London ha sempre avuto grande fortuna di pubblico (ma non di critica) a partire dagli anni Venti: è stato edito soprattutto da: Modernissima (un progetto di opere complete con una ventina di volumi usciti a cura di Gian Dauli a partire dal 1929), Sonzogno, fra il 1930 e il ’40, Bietti, a partire dal 1930, Barion, a partire dal 1936. Di Martin Eden fra il 1933 e il ’52 sono state fatte cinque traduzioni; di Radiosa aurora quattro (1926-48), del Richiamo della foresta dodici (1928-55) e così pure di Zanna bianca (1925-57); mentre Il tallone di ferro è stato tradotto nel 1925, nel ’28 e nel ’45.

    Oggi sul mercato si trovano numerose traduzioni delle principali opere di London, ma nessuna raccolta organica a eccezione di Romanzi d’amore e d’avventura (Mursia, 1974); del Richiamo della foresta esistono ventotto edizioni, di Zanna bianca ventidue. Ed ecco le altre opere: Accendere un fuoco. L’amore della vita (L’obliquo, 1987); Assassini S.p.A. (Rizzoli, 1974); Avventura (Casa del Libro, 1989); La boxe (Tranchida, 1984); La crociera dello Snark (Einaudi, 1987); Fumo Bellew (Janus, 1991); In un paese lontano (SugarCo, 1987); Jerry delle isole (Mursia, 1965); Martin Eden (Editori Riuniti, 1979; Garzanti, 1989); Michael fratello di Jerry (Mursia, 1965); Il popolo dell’abisso (Mondadori, 1987); Prima di Adamo (Janus, 1988); Racconti del Pacifico (Guanda, 1990); Racconti dello Yukon e dei mari del Sud (Mondadori, 1989); Radiosa aurora (Rizzoli, 1987); Il richiamo della notte (Feltrinelli, 1983); Il Rosso (Mursia, 1974; SugarCo, 1985); La strada (Guanda, 1976); Il tallone di ferro (Editori Riuniti, 1982); Il vagabondo delle stelle (Sansoni, 1982).

    M.P.

    Aggiornamento bibliografico

    Traduzioni: Il viaggiatore delle stelle (Edimond, 2001); Gli equivoci delle donne (Passigli, 2004); John Barleycorn: ricordi alcolici (Utet, 2008); Smoke Bellew, storia di un soprannome nel Klondike (Robin, 2008); L’invasione della Cina e altri racconti (Robin, 2010); Sulla stuoia di makaloa (Editori Riuniti, 2011).

    Saggi: A. e F. Quilici, Jack London, cercatore d’oro e d’avventura (Piemme, 2000); R. Bosio, Il richiamo degli ultimi: la straordinaria vita di Jack London (Bradipolibri, 2007); L. Charpentier e E. Vibart, Jack London, l’avventuriero dei mari, a cura di S. Casalini (Archinto 2008).

    Il richiamo della foresta

    Premessa

    Sul settimanale Collier’s del 5 settembre 1908, Jack London pubblicò un articolo di veemente polemica contro i rimproveri che gli erano stati mossi a proposito di due suoi libri che avevano per protagonisti dei cani. L’articolo, scritto nel mese di marzo da Papetee (Tahiti), s’intitolava Il cane, questo fratello detto «inferiore» e se la prendeva con due persone, una delle quali era nientemeno che il presidente americano Theodore Roosevelt (1858-1919), appassionato cacciatore. Ma Roosevelt veniva liquidato ben presto. Nell’articolo da lui scritto per una rivista, il presidente «pretendeva» di condannare London per queste due accuse: «1. Aveva fatto perdere a un cane lupo la lotta contro un bulldog. 2. Aveva permesso a una lince di uccidere in battaglia un cane lupo». Quanto alla prima accusa, per London si trattava «d’una semplice divergenza di opinione», su cui non meritava soffermarsi. Quanto alla seconda, si sbrigava alla svelta: «Il presidente ha sbagliato, deve avere letto troppo in fretta perché nel mio libro il cane lupo prevale sulla lince; e non soltanto la uccide, ma la mangia». In conclusione, «il presidente Roosevelt non è altro che un dilettante. Senza dubbio sa qualcosa di politica e di caccia grossa», ma per quanto riguarda l’analisi della vita animale e i metodi e gli scopi dell’evoluzione, bisogna dire «che non ne capisce niente e non si è neppure dato molto da fare per capire».

    Al secondo avversario, John Burroughs, «che si proclama completo evoluzionista», London dedicava assai più spazio e considerazione, pur non risparmiandogli unghiate («è duro per un giovane prendersela con un vecchio»). L’argomento di Burroughs e di Roosevelt contro London era lo stesso: gli animali non ragionano, a loro basta l’istinto. Ma, come si è visto, senza nessun rispetto né per la persona né per la carica, London liquidava Roosevelt con quattro parole, riservando la confutazione vera e propria a quello dei due che ne sapeva di più. E avanti a ribattere gli esempi da costui addotti e a proporre i suoi propri esempi, fondati sull’esperienza personale.

    A parte la vivacità del tono, bisogna dire che, oggi, gli argomenti di London non appaiono più convincenti di quelli dei suoi contendenti. Lo stesso titolo dell’articolo, che rifletteva una sua convinzione sempre più radicata con gli anni avrebbe fatto orrore all’etologo Konrad Lorenz, il quale nel suo libro E l’uomo incontrò il cane ha scritto: «Mi rattrista sempre sentire quella frase malvagia e totalmente falsa: le bestie sono migliori degli uomini. Non lo sono affatto!»; aggiungendo poi: «Anche il cane più fedele è amorale, secondo il significato umano della responsabilit໹.

    L’abbiamo visto, l’ideologia di London è quello che è: di poco o nessun interesse in sé e per sé; degna di considerazione in quanto è spesso il movente e il supporto della sua opera. E, spesso, quanto slancio essa dà alla sua fantasia allucinata, quella fantasia di cui egli non aveva quasi alcun controllo. L’accanita difesa della sua «veridicità» naturalista in questo e in altri casi ci dà la misura di quanto poco London fosse consapevole dell’essenza mitica e visionaria della sua narrativa.

    Tornato negli Stati Uniti nell’ottobre 1902, dopo un soggiorno di due mesi a Londra, trascorsi travestito da vagabondo a esplorare i bassifondi di Londra per scrivere il drammatico reportage The People of the Abyss (Il popolo dell’abisso), London per riposarsi scrisse di getto quello che è unanimemente considerato il suo capolavoro, uno dei libri più venduti e ammirati in ogni paese del mondo, entrato a far parte del ristretto patrimonio delle grandi opere letterarie: The Call of the Wild (Il richiamo della foresta), che uscì a puntate sulla Saturday Evening Post nell’estate 1903 e poi in volume da Macmillan. A George Brett, direttore editoriale della Macmillan, London scrisse il 10 marzo 1903:

    Tutta la genesi di questo romanzo è stata assai rapida. Tornando dall’Inghilterra, mi sono seduto per scriverla in una dozzina di pagine, ma mi è sfuggita di mano e sono stato costretto a farla della attuale lunghezza. [Non mi piace il titolo Il richiamo della foresta. Mi sono lambiccato il cervello per trovarne un altro. Ho proposto: Il lupo che dorme.]

    Uno dei migliori biografi di Jack London, Andrew Sinclair, ha scritto a proposito del Richiamo della foresta che «non si tratta tanto della storia di un cane che diventa lupo quanto d’una allegoria della vita, della morte e della natura». Eppure, secondo una testimonianza della figlia Joan, più tardi lo scrittore negò d’avere avuto alcuna intenzione allegorica: «Allora non ne sapevo nulla. Non intendevo affatto così». Ma non si deve dimenticare che, già nella combriccola di amici chiamata The Crowd (la folla), Jack era soprannominato «il lupo», contrapposto a George Sterling che era «il greco» e la sua casa nel ranch di Glenn Ellen, nella Valle della luna, era denominata «la casa del lupo». E ancora: a partire dal 1903 le lettere agli intimissimi erano firmate «Lupo», chiamò Lupo bruno un cane husky, il suo ex libris raffigurava un lupo... Probabilmente, nell’inconscio di London, il titolo da lui proposto, ma non accettato dall’editore, per Il richiamo della foresta, conteneva, mischiato e confuso col riferimento parascientifico all’evoluzione-involuzione dell’animale, quello, assai più profondo e vero, a se stesso identificato col cane lupo del libro, che, dopo essere stato costretto a reprimere la sua vera natura, poteva finalmente esprimere il suo destino nella solitudine selvaggia.

    Ma, allegorie e interpretazioni messe da parte, bisogna ancora una volta ripetere quanta forza e novità si ritrovino in questo breve e densissimo libro dove tutto, il mito personale, la pretesa di entrare nella psicologia canina e di fornire addirittura ricordi del passato ancestrale di Buck, si fonde nell’esaltante e tesa rappresentazione della ricerca di amore e di libertà. Sia pure sbagliata, la descrizione del mondo e degli uomini attraverso un diverso punto di vista, quello del cane (espediente tanto usato in seguito da London), è talmente forte da colpire sempre. E quante splendide scene, dall’inseguimento della lepre (bianca sulla bianca neve) fino all’incontro col rivale Spitz, la scommessa della slitta (perfettamente sceneggiata), la corsa finale verso la nuova vita, in cui si sublima il grande tema londoniano (e tanto americano) della sopravvivenza. Inutile recriminare sulla errata catalogazione di questo, tra i libri per ragazzi, com’è accaduto per I viaggi di Gulliver e Robinson Crusoe: i grandi libri non hanno limitazione nell’età dei lettori ma soltanto nella capacità di capirli e gustarli.

    Fra gli altri racconti, tutti notevoli, c’è uno dei vertici dell’arte di London: Farsi un fuoco, il racconto di London più spesso riprodotto nelle antologie (soltanto per l’inglese una quarantina di volte). Nei suoi Ricordi della guerra rivoluzionaria, Ernesto Guevara ricorda uno dei più drammatici momenti della sua vita: il 5 settembre 1956, quando era ferito e circondato dalle truppe del dittatore Batista:

    Mi misi a pensare al modo migliore di morire in quel momento in cui tutto sembrava perduto. Mi tornò in mente un vecchio racconto di Jack London, in cui il personaggio, appoggiato contro un tronco d’albero, si prepara a finire la vita con dignità, sapendo d’essere condannato a morte per congelamento nelle gelide regioni dell’Alaska. È l’unica immagine di cui mi ricordi.

    MARIO PICCHI

    ¹ Edizione italiana Adelphi, Milano, 19901, p. 55. Ma bisogna osservare che, quanto a psicologia canina (a parte l’infatuazione evoluzionista), London dà dei punti a Lorenz, il quale peraltro non dimostra di conoscerlo, e nel suo libro non lo cita mai.

    1.Verso il mondo primitivo

    L’antico desiderio del nomade

    risorge ribellandosi

    alla catena delle abitudini;

    l’istinto animale si ridesta dal suo letargo.

    JOHN MEYERS O'HARA, Atavism

    Buck non leggeva i giornali, altrimenti avrebbe saputo quali guai si stavano preparando, dallo stretto di Puget a San Diego, per lui e per ogni cane di grossa taglia, con muscoli forti e una pelliccia calda e spessa. Infatti, da quando le compagnie di navigazione e di trasporto avevano diffuso la notizia che, a forza di girovagare nelle tenebre dell’Artico, si era trovato un prezioso metallo giallo, migliaia di uomini si precipitavano senza sosta nelle regioni del Nord. Uomini che avevano bisogno di cani robusti e dal pelo lungo, che fossero resistenti alla fatica e protetti dal gran freddo.

    Buck viveva nella valle assolata di Santa Clara, in una grande casa chiamata «la tenuta del giudice Miller». Era un po’ lontana dalla strada, mezzo nascosta fra gli alberi, attraverso i quali si poteva intravedere la veranda fresca e spaziosa che correva intorno ai quattro lati dell’edificio. Vi si giungeva percorrendo viali ghiaiosi serpeggianti attraverso vasti prati e sotto l’intrico dei rami di alti pioppi. Il retro era ancora più spazioso; vi erano grandi stalle cui accudivano una dozzina di mozzi e stallieri, file di casette per la servitù coperte di rampicanti, una schiera interminabile e ordinata di dipendenze, lunghi pergolati, pascoli verdi, frutteti e aiuole di fragole. C’era anche l’impianto di pompe del pozzo artesiano e la grande vasca di cemento, dove i figli del giudice Miller si tuffavano al mattino e prendevano il fresco nelle ore calde del pomeriggio.

    Buck regnava su questa vasta proprietà; qui era nato e qui aveva vissuto i quattro anni della sua vita. C’erano, è vero, altri cani - non potevano mancare in una proprietà così vasta - ma non contavano niente. Andavano e venivano, abitavano nei popolosi canili o vivevano oscuramente nei recessi della casa come Toots, il cagnolino giapponese, o Ysabel, la messicana a pelle nuda, strani esseri che di rado mettevano il naso fuori della portao poggiavano le zampe sul terreno. Vi erano poi i fox terrier, almeno una ventina; urlavano minacce terribili a Toots e Ysabel che li guardavano dalla finestra, protetti da una schiera di domestiche armate di scope e spazzoloni.

    Ma Buck non era cane di compagnia né di canile. Era un re nel suo regno: si tuffava nella piscina o andava a caccia con i figli del giudice; vegliava su Mollie e Alice, le figlie del giudice, nelle lunghe passeggiate al crepuscolo o di primo mattino; nelle serate invernali stava sdraiato ai piedi del giudice davanti alla fiamma scoppiettante del camino della biblioteca; portava sulla schiena i nipotini del giudice o li faceva ruzzolare sull’erba e scortava i loro passi quando si avventuravano audacemente fino alla fontana nel cortile delle scuderie e anche più in là, dove erano i prati e le aiuole di fragole. Incedeva in mezzo ai terrier con fare altero e ignorava completamente Toots e Ysabel, perché era un re, e regnava su tutti gli esseri che camminavano a quattro zampe, strisciavano o volavano nella tenuta del giudice Miller, esseri umani compresi.

    Suo padre, Elmo, un enorme San Bernardo, era stato il compagno inseparabile del giudice e Buck prometteva di seguirne le orme. Non era altrettanto grosso - pesava solamente sessantatré chili - perché aveva preso dalla madre, Shep, un pastore scozzese. Tuttavia i suoi sessantatré chili, uniti all’aria dignitosa che deriva da un buon tenore di vita e dal rispetto generale, gli permettevano di comportarsi in modo veramente regale. Nei quattro anni trascorsi dal tempo in cui era un cucciolo aveva vissuto la vita di un aristocratico soddisfatto, molto orgoglioso di sé e anche un tantino egoista, come diventano talvolta i gentiluomini di campagna a forza di starsene per conto loro. Ma aveva scampato il pericolo di diventare un cane viziato. La caccia e altri divertimenti simili all’aria aperta gli avevano impedito di ingrassare e sviluppato una forte muscolatura; l’amore per l’acqua era per lui, come per tutte le razze allenate al freddo, un tonico e una protezione per la salute.

    Questa era la situazione del cane Buck nell’autunno del 1897, quando la scoperta dei giacimenti d’oro del Klondyke aveva attirato uomini da tutte le parti del mondo nel gelido Nord. Ma Buck non leggeva i giornali e non sapeva che Manuel, un aiuto-giardiniere, era un tipo poco raccomandabile, che aveva il vizio inveterato di giocare alla lotteria cinese. Inoltre, nel gioco d’azzardo aveva una debolezza ancor più pericolosa: credeva in un sistema. Questo rendeva inevitabile la sua rovina: per seguire un sistema ci vogliono soldi e la paga di un aiuto-giardiniere bastava a mala pena alle necessità di una moglie e di una numerosa prole.

    La sera memorabile del tradimento di Manuel il giudice era a una riunione dell’Associazione dei Produttori di uva passa e i ragazzi si davano da fare per organizzare un nuovo circolo di atletica. Nessuno lo vide uscire con Buck dalla parte del frutteto, per quella che Buck credeva una semplice passeggiatina. E nessuno, a eccezione di un solo uomo, li vide arrivare alla piccola stazione secondaria chiamata College Park; quest’uomo parlò con Manuel e si udì un tintinnio di monete.

    «Potevi legare la merce prima di consegnarla», disse sgarbatamente lo sconosciuto, e Manuel passò una corda robusta intorno al collo di Buck, sotto il collare.

    «Torcila e lo stringi quanto vuoi», disse Manuel e lo sconosciuto bofonchiò in risposta un sì.

    Buck aveva accettato la corda con tranquilla dignità; certo era un modo di fare insolito, ma aveva imparato ad avere fiducia negli uomini che conosceva e ad attribuire loro una saggezza superiore alla propria. Quando però i capi della fune passarono nelle mani dello sconosciuto, cacciò un ringhio minaccioso di fastidio, sicuro nella sua superbia che questo equivalesse a un ordine: ma con sua sorpresa sentì la corda stringergli il collo e mozzargli il fiato. Pieno di rabbia si buttò allora addosso allo sconosciuto, ma questi lo fermò a mezz’aria e, afferratolo saldamente per la gola, con un abile movimento lo scagliò riverso al suolo; la fune si strinse senza pietà, malgrado Buck si divincolasse con tutte le forze, ansimante e la lingua penzoloni. Mai era stato trattato in modo così infame in vita sua e mai si era sentito così furioso. Ma gli si velarono gli occhi e le forze lo abbandonarono così che quando gli uomini, fatto cenno al treno di arrestarsi, lo gettarono nel bagagliaio, era del tutto incosciente. Quando riprese i sensi aveva un gran dolore alla lingua e si rese vagamente conto di trovarsi su qualcosa in movimento, sballottato qua e là. Il fischio roco di una locomotiva a un passaggio a livello gli fece capire dove si trovava: aveva viaggiato troppo spesso in compagnia del giudice per non accorgersi di essere in un bagagliaio. Aprì gli occhi e in essi balenò la collera violenta di un monarca rapito. L’uomo scattò per afferrarlo alla gola, ma Buck fu più pronto di lui: gli addentò la mano e non lasciò la presa finché non perse di nuovo i sensi.

    «Sì, ha le convulsioni», disse l’uomo nascondendo la mano straziata alla vista dell’addetto al bagagliaio richiamato dal rumore della lotta. «Lo porto a Frisco per incarico del padrone. C’è un veterinario molto in gamba laggiù e pensa di poterlo curare.»

    Su quel viaggio notturno l’uomo fu molto loquace in un piccolo ripostiglio sul retro di una bettola del porto di San Francisco.

    «Ci rimedio in tutto cinquanta dollari», si lamentava, «e non lo rifarei per mille, uno sull’altro.»

    Aveva la mano avvolta in un fazzoletto insanguinato e il calzone destro strappato dal ginocchio alla caviglia.

    «E l’altro quanto ci ha fatto?», domandò il taverniere.

    «Cento, non un soldo di meno, e mi prenda un accidenti se non è vero.»

    «Così fanno centocinquanta», calcolò il taverniere, «e se non li vale io sono un cretino.»

    Il

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