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I grandi romanzi
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E-book3.222 pagine49 ore

I grandi romanzi

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Info su questo ebook

L’americano - Washington Square - Le bostoniane - Ritratto di signora - Le ali della colomba - Giro di vite

Introduzione generale di Filippo La Porta
Introduzioni di Guido Fink, Agostino Lombardo e Stefania Piccinato
Edizioni integrali

Scrittore assai prolifico, Henry James pose al centro delle proprie opere il dramma psicologico dell’individuo, il conflitto interiore e con l’ambiente sociale, insieme con il sotteso contrasto tra vecchio e nuovo mondo. Contrasto che lui per primo, americano naturalizzato inglese, aveva vissuto e che in un certo senso gli diede la concreta percezione del fatto che nessun luogo è neutro. La stessa tensione tra appartenenza ed estraneità è al centro di Ritratto di signora, in cui una giovane e ricca donna americana cerca di inserirsi nella (decadente) società europea. La raffinata indagine psicologica sui personaggi, sui loro desideri che spesso stridono contro i vincoli e le rigide norme sociali, portò l’autore a cimentarsi con diversi generi narrativi. Ecco dunque il melodramma di L’americano; la tragicomica storia di Washington Square; l’affresco storico-sociale di Le bostoniane; la vicenda dell’ereditiera Milly Theale in Le ali della colomba; quel gioiello della letteratura fantastica che è Il giro di vite.
Henry James
(New York 1843-Rye 1916), uno dei più importanti e originali scrittori contemporanei, trascorse l’infanzia e l’adolescenza tra Europa e Stati Uniti, per stabilirsi poi a Londra (prima di morire prese la cittadinanza britannica). Ottenuta la fama con i suoi romanzi e racconti, volle cimentarsi con il teatro, ma l’insuccesso del suo esordio fu quasi traumatico. Ebbe allora inizio la fase “sperimentale” della sua attività letteraria, con opere intense ma di difficile comprensione.
LinguaItaliano
Data di uscita28 lug 2016
ISBN9788854198784
I grandi romanzi
Autore

Henry James

«No había nada que James hiciera como un inglés, ni tampoco como un norteamericano –ha escrito Gore Vidal -. Él mismo era su gran realidad, un nuevo mundo, una tierra incógnita cuyo mapa tardaría el resto de sus días en trazar para todos nosotros.» Henry James nació en Nueva York en 1843, en el seno de una rica y culta familia de origen irlandés. Recibió una educación ecléctica y cosmopolita, que se desarrolló en gran parte en Europa¬. En 1875, se estableció en Inglaterra, después de publicar en Estados Unidos sus primeros relatos. El conflicto entre la cultura europea y la norteamericana está en el centro de muchas de sus obras, desde sus primera novelas, Roderick Hudson (1875), Washington Square (1880; ALBA CLÁSICA núm. CXII) o El americano (1876-1877; ALBA CLÁSICA núm. XXXIII; ALBA MINUS núm.), hasta El Eco (1888; ALBA CLÁSICA núm. LI; ALBA MINUS núm.) o La otra casa (1896; ALBA CLÁSICA núm. LXIV) y la trilogía que culmina su carrera: Las alas de la paloma (1902), Los embajadores (1903) y La copa dorada (1904; ALBA CLÁSICA MAIOR núm. II). Maestro de la novela breve y el relato, algunos de sus logros más celebrados se cuentan entre este género: Los papeles de Aspern (1888; ALBA CLÁSICA núm. CVII; ALBA MINUS núm. ), Otra vuelta de tuerca (1898), En la jaula (1898; ALBA CLÁSICA núm. III; ALBA MINUS núm. 40), Los periódicos (1903; ALBA CLÁSICA núm. XVIII) o las narraciones reunidas en Lo más selecto (ALBA CLÁSICA MAIOR núm. XXVII). Fue asimismo un brillante crítico y teórico, como atestiguan los textos reunidos en La imaginación literaria (ALBA PENSAMIENTO/CLÁSICOS núm. 8). Nacionalizado británico, murió en Londres en 1916.

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    Anteprima del libro

    I grandi romanzi - Henry James

    Introduzione a Henry James

    Ci dà la parola

    Secondo il grande critico Harold Bloom, Shakespeare non solo è uno dei vertici della letteratura mondiale ma avrebbe inventato l’uomo, o almeno l’uomo occidentale, con la sua psicologia e i suoi conflitti interiori. Non tanto siamo noi a leggerlo quanto lui, paradossalmente, a leggere noi, a darci la parola e a farci esistere. In un certo senso si potrebbe dire lo stesso – con le debite proporzioni – di Henry James, che nella sua multiforme opera dà un’impronta decisiva alla soggettività e alla vita interiore dell’uomo (e della donna) del Novecento, alla sua irriducibile ambiguità, alla liquidità (moderna e postmoderna) che pervade ogni cosa. Tutto nei suoi romanzi e racconti è liquido, dunque friabile, continuamente cangiante, fantasmatico. L’amore trapassa nella corruzione, l’interesse economico non esclude l’amore, l’amicizia può convertirsi nell’inganno, l’ideologia non impedisce la vita sentimentale, la rinuncia è anche una forma – per quanto estrema – della libertà, l’umiltà confina con la più alta superbia, le rovine simulano l’eternità, l’arte si confonde con la vita. Eppure James non può essere considerato in alcun modo un esteta o uno stilista, un degustatore squisito della forma, un vizioso, devoto cultore della bellezza. Non somiglia a un D’Annunzio anglosassone (che infatti detestava e giudicò volgare, in un saggio del 1902, avvertendo subito tra rose, gigli, melograni ed essenze un cattivo odore…). Ben radicato nel New England puritano – e benché il severo puritanesimo sia in lui temperato da Emerson e dall’ottimismo trascendentalista – non perde mai di vista il conflitto tra bene e male, tra luce e tenebre, anche se lo declina in termini personalissimi. D’altra parte questo è l’aspetto della cultura americana che probabilmente non capiremo mai. Perfino nelle storie noir di Raymond Chandler il bene è intrecciato al male ma il bene resta bene e il male male. E così accade nella migliore fiction televisiva americana di questi anni, da Breaking Bad a True Detectives, o anche nel cinema più splatter di Tarantino, che prova comunque a riformulare l’eterno dilemma teologico-morale su bene e male.

    Il tema di James

    Qual è il tema di James? Se ne potrebbero naturalmente indicare molti: anzitutto il contrasto tra Nuovo e Vecchio Mondo, di cui era diventato il massimo esperto (nato New York nel 1945 da famiglia di origine irlandese aveva trascorso l’adolescenza in Europa, poi aveva sperimentato un continuo pendolarismo tra le due sponde, fino all’ultimo viaggio americano nel 1904, il ritorno a Londra e infine la cittadinanza inglese), tra Europa (colta, aristocratica, cinica, esausta, corrotta) e America (ingenua, vitale, innocente, mercantile, fiduciosa, autentica), un contrasto che attraversa tutti i romanzi e che resta un cliché della cultura americana (pensiamo solo al film postumo di Kubrick Eyes Wide Shut del 1999, con la contrapposizione tra la coppia americana – sono belli, ricchi e candidi – e i molti simboli della corruzione e ambiguità, tutti europei); poi la centralità del denaro e dell’interesse materiale, l’ambivalenza di ogni sentimento, la banalità e volgarità (che sempre insidia la raffinatezza esibita), la qualità segretamente mortifera della bellezza, l’amore per l’arte classica, la satira del conformismo ideologico… Tutti motivi largamente presenti nella sua opera, suggestioni, sottotemi e maschere dell’unico vero tema centrale: la realtà. Si è detto che il realismo jamesiano è soprattutto psicologico, non sociale, come quello del maestro e modello Balzac. Ma la definizione appare riduttiva. Non solo perché la società nell’opera di James appare in tutta la sua densa, nitida, complessa stratificazione, ed è sia la società americana che quella londinese, parigina e financo italiana. Ma perché il realismo di James è quasi una strategia di emergenza, una filosofia dell’esistenza, il disperato tentativo di far esistere qualcosa oltre se stessi. Lo scrittore di fronte all’enigma di un mondo che sempre gli sfugge, e al quale forse non riesce a credere davvero, si impegna a creare attraverso la scrittura una realtà fittissima, a volte impalpabile, ottusa, allucinata, ma sufficientemente solida nella luce della sua quotidianità, e soprattutto riconoscibile da parte dei lettori. Non si tratta di riproduzione oggettiva della realtà oggettiva, secondo la celebre formula lukacsiana. Qui di oggettivo non c’è proprio nulla. La realtà che James racconta consiste in una relazione provvisoria, cangiante tra cose e persone e luoghi, in una rete capillare, invisibile, che sembra avvolgere tutti i personaggi. Se non ci fosse chi la racconta questa realtà non esisterebbe. I suoi molti personaggi, come le particelle della fisica quantistica, se qualcuno non li facesse cozzare tra loro non esisterebbero. Però, e qui occorre aggiungere un tassello importante del nostro ragionamento, questa stessa realtà, di cui pure non si può mai essere troppo certi, e che qualche volta si annuncia nella penombra e nei vuoti dell’esistere, è anche – paradossalmente – qualcosa che dobbiamo saper riconoscere, altrimenti si è perduti. Forse la Belva nella giungla, il celebre racconto del 1883 (che Elio Vittorini volle includere nella sua antologia Americana del 1941 come l’opera più significativa di James, ribattezzandola però La tigre nella giungla), contiene in modo esemplare il nucleo della filosofia jamesiana. Il protagonista John Marcher ha aspettato tutta la vita che la belva – un’occasione unica, il compiersi di una vocazione, il manifestarsi di qualcosa di prodigioso o magari di catastrofico – balzasse all’improvviso su di lui e lo afferrasse per sopraffarlo, ma quando questa si presenta concretamente, nell’incontro con la fedele amica May Bartram, lui non sa riconoscerla. O meglio la riconosce solo alla fine, osservando al cimitero il viso di uno sconosciuto invece toccato dalla belva, e cioè devastato dal dolore intollerabile di chi ha amato intensamente qualcuno che non c’è più. Così Marcher capisce che quell’estraneo esprimeva qualcosa – una devastazione – che lui non possedeva: nessuna passione l’aveva mai sfiorato. E dunque resta pietrificato dentro il suo egoismo e la sua aridità.

    Il pallone dell’esperienza

    Per James l’arte non si contrappone alla vita, ma anzi rappresenta il punto di convergenza dell’esperienza, la sua preziosa sintesi, lo strumento che ci permette di esprimerla (introduzione di Franco Cordelli a La bestia nella giungla e altri racconti, Garzanti, 1984). C’è un passo straordinario di James, citato da Agostino Lombardo nella Introduzione a Henry James. Le Prefazioni (Neri Pozza, 1956, ovvero le prefazioni alla New York edition del 1909, riedizione selettiva della sua opera), che vale la pena di riprodurre estesamente: «Il pallone dell’esperienza è, naturalmente, legato alla terra, e sotto tale necessità ci muoviamo, grazie ad una fune di notevole lunghezza, nel carro più o meno comodo della fantasia; ma è in virtù della fune che sappiamo dove siamo, e dal momento che il cavo sia tagliato siamo al largo e senza rapporti…». Mai tagliare la fune che collega l’immaginazione letteraria all’esperienza che la sottende. Ora, questo punto in cui converge l’esperienza dove si trova? Ecco un altro paradosso jamesiano, perché si trova dentro e fuori l’esperienza, e consiste nella vita che non è stata vissuta, e che avrebbe potuto essere vissuta, tutta quella vita di cui – colpevolmente – non ci siamo accorti: la quale è un’assenza che proietta la sua continua ombra sulla vita vissuta. Questa la realtà per l’illusionista e moralista James. Certo, la letteratura di ogni epoca e tutti i libri parlano proprio di questo, della vita non vissuta, di ciò che alla vita manca. Però il vecchio Touchett dirà fieramente alla nipote Isabel, cresciuta dentro una esperienza intensiva di letture, che dei libri non ne sa molto: «Io ho voluto sempre rendermi conto da me delle cose, informarmi per via naturale».

    Ora, proviamo a considerare i personaggi di questi romanzi. Nessuno di loro ha saputo vedere la belva nella giungla – per parafrasare il già citato Kubrick, hanno occhi chiusi spalancati –, e perciò ci appaiono tutti in qualche modo stupidi o ciechi, e involontariamente comici (James è scrittore tragico ma pochi come James hanno saputo cogliere il comico nella tragedia). Una stupidità che riguarda preferibilmente i personaggi maschili. Ha notato Sergio Perosa (in Henry James e Shakespeare, Bulzoni, 2010) che nella sua vasta opera – venti romanzi lunghi, dodici romanzi brevi e un centinaio di racconti – i personaggi principali si riducono essenzialmente a due tipologie: donne solitarie e ribelli, a volte intriganti e calcolatrici, sempre intense, eroine romantiche o fanatiche di un’idea, e appunto uomini remissivi, insensibili, rinunciatari, incerti, superflui.

    I romanzi compresi in questo volume

    Ripassiamo allora, in ordine cronologico, i romanzi del volume, alla luce della nostra ipotesi di lettura. Nell’Americano (1877), forse ispirato al Nido di nobili dell’amato Turgenev, Chistopher Newman non vede Claire de Cintré benché ne sia sinceramente innamorato: non capisce la sua ritirata, la scelta di farsi monaca ed entrare in un convento di clausura. Pensa positivo e ritiene che tutti i conflitti si possano risolvere: nel proprio vissuto di ricco uomo di affari (commercia in vasche da bagno) e di bel quarantenne, non trova niente che possa aiutarlo a sentire le lacerazioni e le sofferenze di lei («Il sapore del successo era sempre stato gradevolissimo per lui»). In Washington Square (1880) – espunto chissà perché dalla New Work edition, ideata e composta dallo stesso James, anche se a noi appare come il romanzo più concentrato e ispirato – Morris Townsend nel finale, quando incautamente decide di andare a ritrovare Catherine Sloper, la donna che lo aveva tanto amato, non capisce perché lei, dopo la brusca interruzione del loro legame sentimentale, non si sia mai voluta unire in matrimonio con nessuno Perché non vi siete mai sposata?, domandò improvvisamente»), non la vede, è estraneo alle ragioni che lei espone: «Non posso ricominciare. Tutto è morto e sepolto. Fu una cosa seria che cambiò tutta la mia vita». Ecco, Morris, come John Archer, non ha mai sperimentato qualcosa di lacerante che, come il balzo della belva, poteva cambiare tutta la sua vita, non ha mai vissuto una cosa seria. Mentre il padre di lei non riesce mai a capirla, prigioniero dei suoi granitici pregiudizi. Nel Ritratto di signora (stesso anno: 1880) Isabel Archer si accorge troppo tardi che sarebbe stata felice con il suo primo – fedele e ostinato – corteggiatore e così accetta stoicamente il proprio destino, rifiutando di divorziare dall’odioso Gilbert Osmond. Nei Bostoniani (o Bostoniane, come a volte viene tradotto, 1886) forse il romanzo più dickensiano, sia la cugina Olivia Chancellor, fanatica protofemminista, sia l’avvocato Basil, gentiluomo ed ex possidente del Sud, non capiscono cosa avviene nel cuore di Verena Tarrant, restano catafratti nelle loro (simmetriche) ideologie. E alla fine Basil non può far altro che rapirla (benché lei consenziente) e trascinarla via dalla conferenza dove era in trepidante attesa e dall’abbraccio morboso di Olivia. Nel Giro di vite (1898), una classica ghost story quasi ripensata per il Novecento imminente – con i fantasmi che abitano dentro la coscienza – la governante viene irretita nell’immaginazione dei due bambini, e però da quel momento cessa di vederli (abbiamo già citato Kubrick: certamente questo romanzo non è estraneo a Shining). In Le ali della colomba, parziale riscrittura di Ritratto di signora (1902), il giornalista Merton Densher, che corteggia la sventurata, ricchissima e lunare Milly Theale per ragioni di calcolo (perversamente alleato di Kate Croy, novella Lady Macbeth), a un certo punto dubita dei propri stessi sentimenti, ma forse riconosce che durante lo svolgimento di quel piano diabolico si è innamorato di lei e, con un finale beffardo (forse poco credibile), rinuncia alla sua eredità per una tacita promessa. Ecco, lui riesce a vederla, la colomba con le sue ali dispiegate. E certamente non è un caso che, come è stato notato, nelle Ali della colomba il verbo vedere è sinonimo di capire, intendere, sentire… (vedi introduzione di Viola Papetti a Le ali della colomba, bur, 1997).

    La prosa rallentata

    La complessità, sottigliezza, tortuosità e oscurità della prosa jamesiana è proverbiale (anche se nei primi romanzi è ancora relativamente semplice e piana) e ha originato perfino un tentativo parodistico da parte di H.G. Wells. Eppure questa prosa che si potrebbe definire eufuistica, in riferimento allo stile inglese cinquecentesco – manieristico, sintatticamente elaborato, digressivo, ripieno di figure retoriche – non dà mai una sensazione di artificiosità e di effetto gratuito, e anche perciò non ha mai tenuto lontano il lettore comune, come invece molta letteratura aggressivamente modernista. Allo scrittore non sta a cuore esibire la propria abilità tecnica, il proprio dominio sul periodo, la spirale della sintassi, o quella che è stata definita la psicosi degli incisi. La sua oscurità è il riflesso della vita della coscienza, che è complessa, sottile e tortuosa. Proviamo a riflettere su generi letterari diversi. Un conto infatti è raccontare la realtà intesa come cronaca, e dunque eventi – più o meno criminosi –, delitti, naufragi, traffici, guerre, rivoluzioni, colpi di stato ecc., ed è la via del grande reportage narrativo, e della sua prosa limpida, diretta, referenziale. Un altro conto è raccontare il groviglio o garbuglio o congegno (sommerso) che sta dietro gli eventi, li collega in qualche modo e li spiega, e dunque la coscienza, l’interiorità delle persone che partecipano agli eventi. James ci offre un reportage dell’anima, una cronaca veridica della vita interiore. Qualche volta si è parlato di una femminilità di James, anche in modo maliziosamente ironico («la più gentile anziana signora che abbia mai conosciuto», Faulkner). Ma si tratta di una modalità di rappresentazione delle cose. Potrebbe aiutarci in tal senso una annotazione di Barbara Lanati: «C’è una passione, in Henry James, per il dettaglio, per il passo lento della frase che si snoda, per il percorso di uno sguardo che non conosce fretta» (Introduzione a Ritratto di signora, Einaudi, 1993). Questa mancanza di fretta, questo rallentamento dell’andatura, hanno a che fare con una passività altamente ricettiva. Uno sguardo sulle cose che non aspira a possederle, a dominarle, ma ad avvolgerle e a farsene avvolgere (forse solo Proust, nella letteratura novecentesca, può essere accostato a questa modalità). Nelle Ore italiane, taccuino di viaggio pubblicato nel 1909, James aveva osservato che solo a chi indugia un poco si possono rivelare le bellezze di Venezia, come di qualsiasi cosa. Dunque una estetica dell’indugio, dell’esitazione e dell’attesa paziente. Certo pochi scrittori come lui hanno saputo registrare i più impercettibili mutamenti degli umori. Solo un esempio tra mille, tratto dalle Ali della colomba. Quando nella sala della National Gallery Milly incontra tre donne sue connazionali, una madre e due figlie che indossano soprabitini sormontati da cappucci scozzesi: la madre con un’aria «quasi chimicamente linda e asciutta», le due ragazze – badate bene alla esattezza della notazione – con «un aspetto vagamente risentito reso umano dalla stanchezza». Bisogna aggiungere che James ha un orecchio finissimo per i gerghi, i modi di dire, i tic della lingua, che a volte possono rivelare una mentalità o un intero ceto sociale. Si pensi solo alla svenevole contessa Gemini, la sorella di Osmond in Ritratto di signora, con il suo naso a becco d’uccello, incapace di avere la benché minima profondità. Ci viene riferito che spesso si annoiava all’estremo, e anzi «si annoiava, come diceva lei, fino allo sterminio…».

    Gusto e moralità

    Centrale in James è la categoria di gusto (taste), e quella simmetrica di volgarità. Lo scrittore non sopporta le persone prive di gusto, come ad esempio il protagonista dell’Americano, che al Louvre preferisce le copie agli originali e che, soprattutto, è incapace di discriminare: «Gli piaceva tutto…». Nelle Ali della colomba niente è detto in modo diretto. Una morbida, delicata reticenza avvolge il dramma, tutto è appena evocato, alluso e intessuto di segreti: il fidanzamento di Kate con Densher, la causa del disonore di suo padre, la malattia di Milly, la sua reticenza sulla malattia, i silenzi… Alcune scene-madre vengono omesse, possiamo solo immaginarle. E così dell’aspetto fisico dei protagonisti ci viene svelato pochissimo. Prevale la penombra, lo sfumato, l’omissione, un elegante riserbo. Come la vita non vissuta incombe su quella vissuta, e le dà una forma, così i fatti non nominati risultano in genere più importanti di quelli nominati. Eppure anche qui, come abbiamo accennato, non dobbiamo pensare solo alla estenuata sensibilità di un dandy dal gusto antiquario e decadente, innamorato della bellezza e dell’art pour l’art. Paolo Milano, nel saggio più completo e penetrante che sia stato scritto in lingua italiana su James, denuncia la contraddittorietà dell’essere un esteta della virtù, e dunque una certa confusione che si ritrova nella sua opera tra grazia esteriore, fedeltà a uno stile e qualità morale, come se il possesso delle cose belle di per sé potesse nobilitare (in Henry James e il proscritto volontario, Mondadori, 1948). Però nella categoria jamesiana di gusto vi è certamente una connotazione morale, come sottolineano Barbara e Giorgio Melchiori (Il gusto di Henry James, Einaudi, 1974), che ha a che fare con la discrezione, che è coscienza di gusto, come scrive James in un saggio su Zola del 1903. Il senso etico, per lo scrittore, implica dunque non solo il decoro ma una consapevolezza, una attenzione della mente, una serietà intellettuale (vedi A. Lombardo, Il diavolo nel manoscritto, Rizzoli, 1974). E pur essendo il male – in questi romanzi – sempre sottile, insinuante, seduttivo, è invece nella bontà che si raccoglie la nostra verità più decisiva. Nell’incontro a Roma tra Isabel e il cugino malato Ralph Touchett, e innamorato di lei come tutti, James ha un accento quasi dostoevskijano: «C’era qualcosa nelle parole di Ralph, nel suo sorriso… che rendeva più spazioso il maledetto circolo chiuso nel quale lei si aggirava. Lui le faceva sentire il bene del mondo; le faceva sentire ciò che avrebbe potuto essere…». Mentre nelle pagine iniziali di Washington Square si fa balenare al lettore, parlando dell’educazione della protagonista, un legame indissolubile tra bontà e intelligenza.

    Una piccola eternità

    A Isabel Archer di Ritratto di signora James sembra imprestare volentieri la propria visione del mondo. Nel dialogo con il marito Osmond, americano italianizzato, quando lui la esorta a fare ciò che le piace, a prendere tutto dalla vita, a essere felice, trionfante lei obietta: «Trionfare, dunque, mi pare, significa fallire! Far tutte le cose che ci piacciono è spesso molto faticoso». Se, come abbiamo visto, la vita assente, di cui non ci siamo accorti anche se scorreva accanto a noi, rappresenta la nostra impronunciabile e radiosa verità, allora è nei vuoti e nei silenzi, nei fallimenti e nelle pause, che si rivela il significato autentico delle cose. L’incipit di Ritratto di signora descrive la cerimonia del tè del pomeriggio, in una campagna vicino Londra e al culmine di una giornata di mezz’estate. Ci si sofferma su «un senso riposante di attesa» – quando si indugia e si resta un po’ sospesi – e soprattutto si nota che «dalle cinque alle otto corre in certe occasioni una piccola eternità»; aggiungendo: «non poteva essere altro che un’eternità di piacere». Ecco, il mentale, labirintico, frigido Henry James ci mostra l’utopia tangibile di quella piccola eternità su un prato inglese dove già si allungano le ombre del tramonto. In quello spazio erboso, lontano dal successo commerciale e dalla autorealizzazione sociale, dagli ipocriti salotti ottocenteschi e dall’ossessione dell’arricchimento, potrebbe infine accadere il balzo improvviso della belva nella nostra esistenza. E, come abbiamo detto, dobbiamo tenere gli occhi ben spalancati e avere l’intelligenza di riconoscerla. Da ciò dipende la nostra felicità, la possibilità di una vita delle emozioni e delle passioni. Uno scrittore considerato – spesso a torto – involuto ed elusivo («solo la complessità lo ispira», osserva Milano) ci rivolge in fondo un invito assai poco complicato: non essere stupidi.

    Filippo La Porta

    Nota biobibliografica

    la vita e le opere

    Nato a New York nel 1843, ma portato quasi subito in Europa dai genitori, Henry James viene educato, più che altro privatamente, in parte a Ginevra, Londra, Parigi, in parte a New York e Albany. Suo padre, Henry senior, è un intellettuale bostoniano, amico di Emerson e di Carlyle, allevato in clima calvinista ma presto ribelle nei confronti di ogni religione rivelata (sposatosi solo civilmente, non dà ai figli alcuna istruzione religiosa): i suoi interessi, piuttosto vaghi, l’avevano portato ad abbracciare le utopie sociali di Fourier e poi il misticismo swedenborghiano. Dalla monumentale biografia di Leon Edel (1953) emerge che nessuno dei ragazzi James avvertì veramente l’influenza del padre, uomo inadatto alla vita pratica, che aveva subìto l’amputazione di una gamba ancora giovane in seguito a un incidente, e aveva delegato ogni autorità alla discreta e silenziosa efficienza della moglie, Mary Walsh.

    La storia dell’infanzia e dell’adolescenza di James è una storia di precoci esperienze intellettuali: le letture a voce alta che avvengono nel salotto di casa sua e che ascolta di nascosto quando gli adulti lo credono a letto, la passione per il teatro mista a un senso di esclusione quando lo immagina grazie ai racconti dei genitori e del fratello maggiore, William. C’è poi la misteriosa vicenda dell’incubo del Louvre: la sensazione (vera? sognata?) che qualcuno stia cercando di penetrare nella galleria dell’Apollon, dove si trova solo e indifeso; la decisione disperata di rovesciare la situazione, aprendo violentemente quella porta e cercando di spaventare a sua volta l’essere orrendo e indistinto che lo minaccia: così, vedremo, Spencer Brydon inseguirà il fantasma in The Jolly Corner (L’angolo ameno, 1906), e così in un certo senso si comporta anche la governante che racconta The Turn of the Screw (Giro di vite, 1898), quando mettendosi al posto del fantasma di Miss Jessel spaventa la povera Mrs. Grose. Ancora più oscura e misteriosa – e a lungo dibattuta da studiosi e analisti dilettanti – la vicenda della orribile ferita alla schiena che, in seguito all’aiuto volontario prestato durante un incendio a Newport, dove allora viveva, doveva subire all’età di diciassette anni, non potendo più in seguito partecipare alla Guerra Civile e continuando a soffrire di non precisati dolori: c’è chi ha voluto identificare questa ferita con una sorta di castrazione, o comunque le ha voluto attribuire un peso determinante, anche se magari su un piano più che altro psicopatologico, nelle future inibizioni e paure che avrebbero caratterizzato la vita dello scrittore.

    A Newport, la cittadina balneare del Rhode Island, dove abitò nel 1860-61, e poi a Boston e a Cambridge, dove la famiglia si stabilì nel 1864 e dove brevemente frequentò i corsi di legge a Harvard, James strinse comunque durature amicizie, a cominciare da quella con il pittore John La Farge, grazie al cui influsso pensò per un certo tempo di dedicarsi alla pittura a sua volta, come del resto aveva pensato anche William; e presto entrò a far parte dell’ambiente letterario, pubblicando un primo racconto nell’«Atlantic Monthly» (1865), frequentando il salotto del direttore della rivista, James T. Fields, e gettando le basi di un’altra lunga e solida amicizia, quella con William Dean Howells, a cui dall’Europa avrebbe mandato lunghe fitte lettere pettegole, ironiche, comunque divertendosi evidentemente a scandalizzare un poco il suo inguaribile perbenismo. L’unica amicizia femminile davvero intensa, a quell’epoca, è quella per la cugina Minny Temple, che muore giovanissima nel 1869, lasciando un grande vuoto nella vita dello scrittore: il suo fantasma aleggia lieve ma insistente nell’opera di James, da The Portrait of a Lady (Ritratto di signora, 1881) – dove, con un curioso scambio di sapore esorcistico e compensatorio, la protagonista Isabel sopravvive a un cugino malaticcio che l’ama in segreto e muore giovane lasciandola erede di tutte le sue sostanze – al più tardo The Wings of the Dove (Le ali della colomba, 1903), dove l’ombra verrà placata con il tributo a una grande eroina romantica che si chiama, con trasparente assonanza, Milly Theale, e appare dall’inizio minata da una malattia mortale.

    Dopo un primo romanzo, piuttosto malcerto, pubblicato nel 1870, dal titolo Watch and Ward (Tutore e pupilla), James viaggia a lungo in Francia e in Italia nel 1872 e nel 1873: «Finalmente mi sento vivo», scrive da Roma a William. «Batte tutto, cancella completamente ogni Roma costruita con l’immaginazione e con la cultura. A confronto Venezia, Firenze, Oxford, Londra sembrano delle cittadine di cartapesta». In realtà, dopo altri viaggi a Napoli e Pompei, scriverà di non poterne più di preti, di chiese e di antichità, mentre al momento di lasciare l’Italia gli riuscirà quasi intollerabile staccarsi da Firenze: questa incoerenza, o meglio questa continua fluttuazione di sentimenti contrastanti ma sempre eccessivi, si riflette nelle sue prime opere, che esprimono un grande amore per l’Italia e al tempo stesso mettono in guardia i giovani americani, più o meno innocenti, contro le sue seduzioni: ne sono vittime, per motivi diversi, gli eroi titolari del suo primo vero romanzo, Roderick Hudson (1875) e del suo primo grande successo, Daisy Miller (1878). A Parigi – dove frequenta Daudet, Flaubert, Edmond de Goncourt, Turgenev, Zola – inizia la stesura di The American (L’americano, 1876); preferirà però risiedere a Londra, dove termina fra l’altro due romanzi di ambiente americano, The Europeans (1878) e lo straordinario Washington Square (1880), più noto con il titolo di The Heiress (L’ereditiera), grazie a una riduzione teatrale (1947) e poi cinematografica (1950), e giustamente definito da Graham Greene l’unica opera scritta da un uomo che dimostri una conoscenza dell’animo femminile pari a quella di Jane Austen.

    Il ritorno in America nel 1882, dopo l’affermazione di Portrait of a Lady, a causa della malattia e poi della morte dei genitori, gli ispira il desiderio di scrivere un romanzo panoramico e balzachiano sulla nuova realtà del suo paese, sul mutamento nell’istituto familiare, sull’amicizia fra donne sole e indipendenti, sul pullulare di movimenti riformisti: ne uscirà un altro capolavoro, The Bostonians (Le bostoniane, 1886), che con The Princess Casamassima (La Principessa Casamassima), dello stesso anno, forma un dittico per certi aspetti politico nell’opera jamesiana: ma la politica, come il capitale, è qualcosa di oscuro e astratto, che una volta riportato a dimensioni quotidiane assume fatalmente gli aspetti squallidi del compromesso e della violenza bruta. Troppo poco consolatori, e non riconducibili a parametri consueti, questi due romanzi ottengono scarso successo; ma il prestigio di cui gode James, che sceglie di vivere a Londra con frequenti viaggi in Italia, è ormai notevole. Nel 1886 è stata pubblicata un’edizione in quattordici volumi dei suoi romanzi e racconti; i giovani scrittori lo ammirano (taluni, pochi, vengono anche ricambiati, com’è il caso di Robert Louis Stevenson), le signore amanti delle belle lettere se lo disputano nei salotti. A minacciare il raggiunto equilibrio saranno nuove sofferenze personali: la malattia psicosomatica e poi la morte (1892) della sorella Alice, vissuta per un certo periodo a Londra con lui, il suicidio nel 1894 di un’amica americana che forse si era illusa di trovare in lui un antidoto alla sua solitudine (si tratta di Constance Woolson, la nipote di Fenimore Cooper). E poi, fra la seconda metà degli anni Ottanta e la prima dei Novanta, una sfortunata esperienza nel mondo del teatro, a cui si era accostato nella speranza di trovarvi una fonte di successo economico, ma anche e soprattutto perché lo amava appassionatamente, di un amore, si direbbe, non ricambiato: né i suoi adattamenti da opere scritte in precedenza (come Daisy Miller o The American, che non esita a banalizzare in ossequio alle convenzioni drammaturgiche del tempo) né, tanto meno, i lavori composti direttamente per la scena avranno gli esiti sperati: e la prima di Guy Domville, nel gennaio 1895, si trasforma addirittura in una bagarre generale in cui l’autore, mal consigliato a presentarsi sul palcoscenico, viene accolto da urla e fischi.

    L’esperienza si traduce, per James, in un vero e proprio trauma, che secondo Edel determina anche forme di regressione, e l’insistenza, nei racconti del tempo, su figure infantili o adolescenziali destinate a una morte precoce perché lacerate da forze opposte e contrastanti. Quel che è certo è che dal 1897, con il trasferimento da Londra al Sussex, nella «Lamb House» a Rye, inizia una nuova fase dell’attività letteraria di James, che viene comunemente denominata fase sperimentale. Ne fanno parte un lungo racconto di straordinaria intensità, dove l’estetismo e il culto del bello assumono connotazioni addirittura ascetiche (The Spoils of Poynton, Le spoglie di Poynton, 1897); un romanzo su una serie di divorzi e matrimoni a catena nella società londinese visti dallo sguardo perplesso e indagatore di una bambina che di questi giochi è vittima innocente e viene sballottata qua e là (What Maisie Knew, Ciò che sapeva Maisie, 1897); un altro romanzo ferocemente mondano, quasi interamente dialogato, senza didascalie, di difficilissima lettura (The Awkward Age, L’età ingrata, 1899); infine il misterioso e affascinante The Sacred Fount (La fonte sacra, 1901), sulle cui qualità metafisiche, connotazioni vampiresche e anticipazioni del modernismo letterario la critica non ha ancora finito di discutere. Tanto che molti già tendono a considerarlo parte della fase culminante, quella dei grandi romanzi, conclusivi dell’inizio del secolo, i tre monumenti cui è soprattutto affidata la fama di Henry James: il citato The Wings of the Dove; The Ambassadors, Gli ambasciatori, 1903; e The Golden Bowl, La coppa dorata, 1904.

    A parte un ultimo viaggio negli Stati Uniti nel 1905 – riscoperta sbigottita di un paese profondamente cambiato grazie alle ondate migratorie e all’industrialismo: ne usciranno le pagine allarmate e affascinate di The American Scene – James rimane in Inghilterra per tutti gli ultimi anni della sua vita, e allo scoppio del conflitto mondiale, da lui vissuto come orribile incubo, riterrà suo dovere assumere la cittadinanza britannica. Morirà poco dopo, nel 1916, circondato dall’ammirazione di amici e allievi, ma in definitiva solitario e infelice, anche perché perseguitato da difficoltà economiche (che con discrezione da gran dama l’amica Edith Wharton aveva vanamente cercato di alleviare).

    principali edizioni italiane (raccolte)

    Romanzi brevi, a cura di Carlo Izzo, Milano, Bompiani, 1946 (contiene La pensione Beaurepas, Quattro incontri, I documenti Aspern, Il bugiardo, Sir Edmund Orme, Lo chaperon, La vita privata, Owen Wingrave, Mezza età, Lo scolaro, La disfatta dei Northinore, Le due facce, La belva nella giungla, La signora Medwin, La panchina della desolazione); Le Prefazioni, a cura di Agostino Lombardo, Venezia, Neri Pozza, 1956 (rist., Roma, Editori Riuniti, 1986); Romanzi, a cura di Agostino Lombardo, Firenze, Sansoni, 1965-67 (contiene Roderick Hudson, L’americano, Gli europei, Washington Square, vol. i; Ritratto di signora e Le bostoniane, vol. ii; Ciò che sapeva Maisie e L’età ingrata, vol. iii; Gli ambasciatori e La fonte sacra, vol. iv; Le ali della colomba e Il riverberatore, vol. v; La coppa d’oro e Le spoglie di Poynton, vol. vi); Le ombre nel salotto: dieci storie fantastiche, a cura di Biancamaria Pisapia, Roma, Editori Riuniti, 1983 (contiene La storia romanzesca di alcuni vecchi vestiti, De Grey, L’ultimo dei Valerii, La pigione dello spettro, Nona Vincent, La cosa veramente giusta, Il gran bel posto, Maud-Evelyn, Una terza persona, L’angolo ameno); Romanzi brevi, a cura di Sergio Perosa, Milano, Mondadori, 1985, 2001 (contiene Pupilla e tutore, Un pellegrino appassionato, Madame de Mauves, Gli europei, Daisy Miller, Un episodio internazionale, Washington Square); Taccuini, a cura di Ottavio Fatica, Roma, Theoria, 1986; Racconti di fantasmi, a cura di Leon Edel, con un saggio di Virginia Woolf, a cura di Maria Luisa Castellani Agosti, Torino, Einaudi, 2005; Romanzi brevi ii, a cura di Sergio Perosa, Milano, Mondadori, 1990 (contiene Il carteggio Aspern, Il riflettore, La vita londinese, La lezione del maestro, Le spoglie di Poynton, Il giro di vite, In gabbia, La tigre nella giungla, La panchina della desolazione); Racconti italiani, a cura di Maurizio Ascari, Torino, Einaudi, 1991 (contiene Compagni di viaggio, A Isella, La madonna del futuro, L’ultimo dei Valerii, Adina, La soluzione, Il discepolo, L’accompagnatrice, L’albero della conoscenza); Racconti di artisti. Henry James, a cura di Francis Otto Matthiessen, trad. di Cesare Rusconi, Torino, Einaudi, 2005; Il carteggio Aspern e altri racconti, introduzione di Franco Cordelli, prefazione e traduzione di Gianna Lonza, Milano, Garzanti, 2006. Sono stati raccolti anche alcuni suoi saggi sulla pittura (La stagione delle mostre, a cura di Paola Frandini, Roma, Novecento, 1993) e sul romanzo francese dell’Ottocento (La lezione dei maestri, a cura di Giovanna Mochi, Torino, Einaudi, 1993).

    Tra i saggi italiani più recenti su Henry James, si possono segnalare: Stefania Tondo, Henry James e l’arte della lettera, Roma, Bulzoni, 2002; Maria Teresa Defazio, Il mito dell’io impossibile: allucinazioni e identità mancate in Guy de Maupassant, Henry James, Luigi Pirandello, Roma, Bulzoni, 2004.

    L’americano

    Una vettura come un’altra

    1.

    Terzo romanzo di Henry James, interamente ambientato in quell’Europa che ancora guardava con puritano e timoroso sospetto – o meglio, con quel misto di attrazione e paura che è sola garanzia, almeno sul piano della fiction, di risultati inquietanti e non banali, comunque lontani da piatte divagazioni turistiche –, L’americano (1876-77) imposta con esplicita chiarezza la grande domanda a cui, malignamente, potremmo ridurre tutto l’imponente corpus della narrativa jamesiana, senza contare varie altre voci apparentemente ben lontane da quel corpus, dalle feste mobili degli espatriati degli anni Venti a Lolita: nel rapporto fra Vecchio e Nuovo Mondo, chi è il seduttore, chi il sedotto? La sorte di questo emblematico Americano con l’A maiuscola sarà meno tragica di quella del precedente eroe jamesiano, il Roderick Hudson dell’omonimo romanzo (1875): ma nel suo scontro con i rituali, i pregiudizi, i segreti e gli intrighi di una aristocratica società parigina disperatamente tesa a difendere il proprio declinante prestigio, anche lui, questo Colombo alla rovescia che non a caso si chiama Christopher (ma di cognome Newman, e dunque ambasciatore di una società nuova, di una terra relativamente vergine), non potrà (o non vorrà: è questa una delle domande che rimangono aperte nel libro) che dichiararsi sconfitto. Fin da quando lo incontriamo, comodamente e serenamente seduto sul grande divano circolare del Salon Carré, al museo del Louvre, intento a contemplare una Madonna del Murillo, e una graziosa copista che sotto i suoi occhi affetta tutte le pose della pittrice professionista, ci rendiamo conto che è destinato a perdere le sue eventuali battaglie: è troppo solido, troppo serio, troppo privo di problemi o di difetti fisici o morali: possiamo immaginarlo, a piacere, con l’aspetto di Henry Fonda, o anche di un «divo» più vicino ai nostri tempi e che non fa parte del mondo dello spettacolo come il vicepresidente Al Gore (ma che spettacolo e politica siano strettamente legati ce l’aveva già spiegato proprio James, fin dai tempi di quel profetico The Tragic Muse, 1890, che incredibilmente non è mai stato pubblicato in Italia). Esemplare ammirevole di una nuova specie ormai lanciata alla conquista del mondo, potrà essere rispettato, approvato, magari anche invidiato da un narratore che lo sceglie a proprio eroe e ce lo presenta con affetto appena temperato da una lieve inevitabile ironia; ma la sua parabola non potrà che essere discendente. E poi, quel narratore, è la voce adottata da uno scrittore che si chiama Henry James; e che è ben consapevole di essere ben lontano dalla virile compostezza, dal fisico asciutto e apollineo, dalle sicure doti professionali di questo self-made man che fino a poco prima era uno dei più quotati finanzieri di Wall Street. Non si tratta di meschina vendetta: questo James trentatreenne e già malato e nevropatico, che ha peraltro due o tre anni di meno del suo protagonista nella prima versione del romanzo, e una decina nell’edizione riveduta del 1905, quando Christopher sarà quarantaduenne, sa benissimo di avere altre frecce al proprio arco, e mai e poi mai scambierebbe il proprio ruolo con quello di un innocente all’estero che preferisce le copie – dato che sono in vendita, e può impossessarsene – agli originali di Rubens o di Tiziano. No, si tratta, al contrario, di un atto d’amore: lo scrittore americano che ci propone la sua incarnazione di quel che più tardi verrà chiamato, con espressione ormai logora e consunta, il Sogno Americano, non potrà che assistere, impotente, alla sua rovinosa caduta. Come accadrà – lo ha notato un critico che era anche poeta, Cleanth Brooks – anche a Fitzgerald con il suo Gatsby, e al Faulkner di Assalonne, Assalonne! (1936) con il sogno impossibile di Thomas Sutpen.

    2.

    L’americano, si diceva, si svolge in Europa, praticamente quasi tutto nella Parigi del secondo Ottocento, fra residuati della vecchia aristocrazia borbonica, inglesi o americani di passaggio o ormai francesizzati, piccolissimi borghesi a un passo dalla miseria ma ancora pieni di ambizioni o di patetiche pretese come Monsieur e Mademoiselle Nioche. In America avviene soltanto un brevissimo flashback, che può sembrare irrilevante ma invece getta una luce molto singolare sull’intera vicenda, una luce per certi aspetti vagamente stregata, che ci rimanda senza parere al James che flirta con il gotico e invita ingombranti e imbarazzanti fantasmi nel suo salotto di solito così selettivo. È il racconto che, nel secondo capitolo, Christopher fa all’amico Tristram per spiegargli come mai abbia deciso di abbandonare gli affari, e il suo paese natio: la storia di come un certo giorno, un paio di mesi prima, proprio mentre stava correndo in Borsa per arrivare prima di un rivale che gli aveva giocato un brutto tiro, e per poter realizzare, fra l’altro, un grosso profitto di ben sessantamila dollari, si fosse sentito improvvisamente svuotato, stanco, demotivato, apparentemente a causa della vettura di piazza su cui era montato per caso: «una vettura qualsiasi, una carrozza come ogni altra, solo un poco più sporca, con una riga d’unto lungo tutti i cuscini, come se fosse stata usata per tanti funerali di irlandesi…». Era davvero stanco, Christopher, in quel momento: niente di strano che si fosse assopito. Ma al suo risveglio – se davvero aveva chiuso gli occhi – aveva provato, in quella «immortale e storica vettura di piazza», un «mortale disgusto» per quello che stava facendo, il bisogno di andarsene, di abbandonare tutto. Come paralizzato, non era affatto sceso all’indirizzo che aveva dato al vetturino: e questo, dopo una paziente attesa, era saltato giù per controllare «se per combinazione la sua carrozza non fosse diventata un carro funebre» («avresti dovuto comprarla», gli dice allora l’amico, «non era il caso di lasciarla in circolazione»). Il riferimento ai «funerali di irlandesi» si spiega, secondo William Spengemann, con la fama di shabby gentility, di goffe pretese aristocratiche senza alcuna base economica, che quegli immigrati avevano ormai proverbialmente nell’America del tempo: ma se non stupiscono le suggestioni vagamente mortuarie, sono invece del tutto inconsueti i rimandi alle condizioni di quegli «aspiranti allo status di americani», irlandesi italiani ebrei, che James osserverà con malcelata preoccupazione una volta tornato, in The American Scene (1907), a visitare la sua New York divenuta babelica e irriconoscibile. (Alle laureate di Bryn Mawr, in una conferenza che deve averle lasciate per lo meno perplesse, lo stesso James, in uno dei suoi momenti di più delirante snobismo, ingiungeva di «difendere fino al martirio» la purezza della lingua inglese, minacciata dall’orrido slang.)

    Negli anni in cui James, prima a Parigi poi a Londra, completa la stesura de L’americano, Wall Street si sta riprendendo dal panico finanziario del 1873 e dai contraccolpi della corsa all’argento, alcuni Stati all’avanguardia come il Massachusetts fissano a non più di dieci ore la giornata lavorativa della donna, viene fondato il Socialist Labor Party, e si verificano i primi grandi scioperi fra i lavoratori delle ferrovie e delle miniere. Queste cose, nel romanzo, vengono del tutto ignorate: Christopher a Wall Street non ha più messo piede, dopo la crisi nella carrozza, e non sa nemmeno – generoso com’è, se lo augura – se il suo rivale è poi riuscito a intascare personalmente quei sessantamila dollari. Ma a ben vedere James non le ignora del tutto: nel terzo capitolo, quando la signora Tristram chiede a Christopher se sarebbe disposto a sposare anche una straniera, e il protagonista si dichiara più che favorevole anche a una giapponese, l’amico che appare un po’ spiazzato dalla fitta, intelligente, ultrajamesiana conversazione fra sua moglie e l’amico, e si limita a infilare qualche stracca battutina pseudoumoristica qua e là, pronuncia per scherzo la formula di rito, no Irish need apply, gli Irlandesi sono pregati di non presentare domanda: quella che escludeva di fatto dai posti di lavoro un’etnia ritenuta troppo battagliera e sindacalizzata. Forse dovremmo pensare che accenni del genere costituiscano una sorta di rimosso, o di latente rimando alle tensioni dell’America del tempo, in un romanzo che si svolge tutto all’estero e per lo più sceglie i propri personaggi fra una gentility tutt’altro che fasulla o patetica? Magari quella dei Bellegarde fosse una nobiltà per modo di dire, come quella degli Irlandesi! Purtroppo invece è una nobiltà autentica, e antichissima, e buona parte dei suoi rappresentanti sono dei veri e propri mostri.

    3.

    Da buon melodramma – e L’americano lo è, senza equivoci o remissioni, con tutti gli elementi esteriori del feuilleton, non ancora sublimati nella metafora come sarà nelle fasi successive dell’opera jamesiana: un castello sinistro, un duello, un delitto segreto, una confessione sul letto di morte, un’eroina che si chiude, sepolta viva, dietro le mura di un convento situato in rue de l’Enfer – il romanzo abbonda in contrapposizioni radicali e manichee, bianco contro nero, buoni contro malvagi, innocenza americana contro raffinate crudeltà europee, una mappa perfetta di quel mondo diviso in due che Peter Brook ci descrive ammirevolmente nel suo L’immaginazione melodrammatica (1976). Si tratta, peraltro, di contrapposizioni che invece di esplodere nello scontro conclusivo finiscono per escludersi a vicenda, per elidersi in una sorta di doppia negazione: Christopher, l’Americano, non è proprio un indiano Comanche, come riconosce sorridendo Mrs Tristram, ma non è nemmeno, agli occhi dei Bellegarde, la persona «estremamente civile» che sostiene e sa di essere; non è il turista ingenuo e ignorante, tipo quelli descritti da Mark Twain ne Gli innocenti all’estero (1869), come si illudono i Nioche, tanto ansiosi di sfruttarlo; ma non è nemmeno il pellegrino estetico che James ci descriverà in tante altre occasioni, e lo dimostrano non solo il fatto che acquisti le croste dipinte da Noémie, o la casa-albergo che si procura, ma anche il fatto che in un saggio critico tutt’altro che superficiale, American Humour (1931), Constance Rourke possa metterlo sullo stesso piano dei buffi personaggi twainiani. Chi è, che cos’è allora, alla fin fine, questo Christopher Newman? Una persona troppo seria e un po’ noiosa, che preferisce i musei e i concerti ai tabarin, come osserva l’amico Tristram, deluso nel suo bisogno di trovarsi un complice nei tentativi di sfuggire a una moglie troppo intelligente, o un pericoloso, frivolo edonista, come lo giudica, tanto da rompere e dolorosamente i rapporti con lui, il giovane Babcock? Forse dovremmo dire che Christopher è una sorta di calco vuoto, un modello o un manichino che James esita a completare: e non a caso questo scrittore, giustamente considerato inventore e massimo rappresentante del «punto di vista circoscritto» o delle vertigini della narrazione soggettiva, pur concentrando l’attenzione su di lui non gli cede affatto il bastone del comando: continua a tenerlo d’occhio anche quando è lui a guardarsi intorno, osservatore osservato, prima al Louvre poi nel salotto dei Bellegarde, a teatro, al gran ballo che dovrebbe segnare la sua presentazione all’alta società…

    Il fatto è che l’americano James non conosce affatto, a priori, l’americano Newman, e non a caso una studiosa dal jamesiano nome di Cornelia Pulsifer Kelley, che ha analizzato pazientemente le opere giovanili di James, ha rilevato come questo sia praticamente il meno autobiografico dei suoi romanzi, quello per cui vanamente si cercherebbe, nel fitto repertorio dei Taccuini, uno spunto, un accenno, una di quelle «piccole ghiande» da cui poi, al momento giusto, lo scrittore dichiarava di ricavare le sue «grandi querce». Che ne sa di Wall Street Henry James, nato a New York ma figlio di un intellettuale bostoniano, del tutto inadatto alla vita pratica, amico di Emerson e di Carlyle, lontano da ogni religione rivelata e vagamente attratto da utopie sociali o misticheggianti alla Swedenborg? A lungo lo scrittore avrebbe ricordato, insieme ai problemi economici da cui non si sarebbe mai liberato, l’imbarazzo che provava, adolescente, quando i compagni gli chiedevano quale chiesa frequentasse la sua famiglia e che mestiere facesse suo padre («dì loro che sono un filosofo», lo esortava allora Henry senior, «dì che sono un cercatore della verità, un amante del mio prossimo; meglio ancora, dì che sono uno che studia»). Chi fossero i veri americani, quelli che lavoravano e accumulavano quattrini, il povero Henry junior non lo sapeva, non più di quanto sapesse della shabby gentility degli irlandesi; e sperava di scoprirlo proprio in Europa, grazie a quel cannocchiale rovesciato, o a quella prospettiva a distanza, che tanto utile si era rivelata a Fenimore Cooper, a Irving, e ad altri suoi precursori. È difficile capire le persone e le cose che ci sono vicine; più agevole intuirle se si trovano sull’altra faccia della luna. Solo che, nella Parigi di casa Bellegarde, al Faubourg Saint Germain e poi al castello di Fleurières, la luna è tinta di rosso, come afferma, nel suo chiacchiericcio frivolo e sofisticato, la giovane moglie del marchese Urbain, quel tipo di donna che a James riesce particolarmente bene e poi infatti replicherà varie volte, a partire dalla sorella di Olive in Le bostoniane (1886): «Chiunque avrebbe pensato a vestirsi d’azzurro… ma io penso che il rosso sia più carino, renda meglio l’idea del chiaro di luna». È lo stesso Newman a osservare che si tratta, allora, di un chiaro di luna rosso sangue; e la marchesa gli fa eco felice: «Un delitto? che deliziosa idea per una toilette!».

    4.

    Pur essendo uno dei primi romanzi di James a venire tradotto in italiano – per la prima volta da Carlo Linati nel 1934, dopo Daisy Miller nel 1930 e, nel 1932, Il segreto dell’istitutrice, che sarebbe poi The Turn of the Screw L’americano è stato a lungo sottovalutato, o ignorato: nel 1934 Einaudi, su segnalazione di Cajumi, ne aveva commissionato la recensione a Pavese, ma quest’articolo, per qualche ragione, non vide mai la luce, né più né meno dell’articolo di cronaca nera sul Times che Monsieur Nioche, promettendo fosche vendette sulla figlia ormai demi-mondaine e su chi l’aveva disonorata, vanamente preannuncia a uno scettico Christopher. Perché questo romanzo potesse venire apprezzato nel suo autentico valore, forse bisognava aspettare la rivalutazione brooksiana dell’eccesso melodrammatico; e le analisi, fondamentali, di Stefania Piccinato (e William Maseychik: che vi ravvisa, non a torto, un fondamentale punto di partenza per tutta l’opera successiva dello scrittore).

    Quel che ne pensava lo stesso James non è difficile da scoprire: da un lato, a questo romanzo, era molto affezionato, e non esitava a riproporlo in quella New York Edition da cui al tempo stesso escludeva capolavori assoluti come Piazza Washington (1881); dall’altro sospettava, a distanza di una ventina d’anni, di aver commesso un grave errore mostrando tutti i colpevoli intrighi dei perfidi Bellegarde per mandare a monte le auspicate nozze fra l’eroe e l’eroina, Claire de Cintré: «I Bellegarde, per la verità, si sarebbero certamente gettati addosso al mio ricco e felice americano, ché i pregiudizi di casta sarebbero molto verosimilmente svaporati di fronte all’idea di rimpinguare le casse della famiglia con sostanziose iniezioni di dollari». Anche nei Taccuini, in un appunto del 1887, si riprometteva di non rappresentare mai più un intero popolo come se fosse composto da individui tutti uguali, «come nell’Americano: risultati à peu pres di quella sorta sono troppo a buon mercato». Da questo punto di vista, l’ipercritico James era senza dubbio troppo severo con se stesso: i francesi del romanzo non sono affatto tutti uguali, e non lo sono nemmeno i fratelli di Claire, che rivelano le loro profonde differenze fin dalla prima apparizione (Valentin, il fratello minore, è simpaticamente disposto, nella momentanea assenza di un cameriere, a portare lui stesso il biglietto da visita di Christopher a Claire; Urbain, l’orrendo marchese e fratello maggiore, appare sulle scale per annunciare gelidamente che Madame de Cintré non è in casa; e Christopher, non per vendetta ma per ingenuità, pensa in un primo momento che il cameriere sia lui). Molto meno schematico e più sfumato di quanto lo stesso James credesse, L’americano non ci presenta affatto dei francesi tutti cattivi, né a loro contrappone Christopher come vittima o come romantico eroe: in fondo merita la sua sconfitta, non foss’altro perché nonostante la magia della carrozza non ha affatto rotto con la mentalità di Wall Street, e si trova a Parigi per comperare non solo (brutti) quadri, ma anche la moglie migliore e più desiderabile che offra il mercato: a meno che non si debba pensare, come a un certo punto nella prefazione alla New York Edition arriva a pensare lo stesso James, che in fondo in fondo Christopher non volesse affatto vincere la partita: perché, altrimenti, appena fidanzato o sulle soglie del fidanzamento se ne va da solo a teatro a sentire il Don Giovanni? E verrebbe da obbiettare a James che a una domanda del genere solo lui dovrebbe e potrebbe rispondere.

    Certo, quello che nella pallida ed esangue Claire de Cintré attira il protagonista non sembra proprio una passione sfrenata: ubbidisce a una scelta calcolata, o a un suggerimento della sua confidente Mrs Tristram (il cui marito, che apprezza altri e meno algidi tipi di bellezza, considera invece la scelta del tutto sbagliata: definisce Claire «un manico di scopa» e una vacua bambolona). Se James fosse stato sincero fino in fondo, avrebbe forse dovuto dire che, lungi dal considerare i francesi tutti uguali, Christopher sembra molto più sensibile allo charme di Valentin che a quello di sua sorella; e che per quanto riguarda le donne si trova più a suo agio con la frivola moglie del marchese – o anche con la grassa, simpatica, terribile duchessa – che con la sua promessa sposa. Al di là di tutto questo, forse potremmo sospettare, in Christopher e nel suo autore, una determinata e masochista volontà di assaporare la sconfitta: esperienza nuova, magari eccitante, per un americano bello, intelligente, equilibrato e perfetto, come forse esistevano soltanto nei romanzi dozzinali che James non sarebbe mai riuscito, per quanto ci provasse, a scrivere; e come sarebbero esistiti, un giorno, nei melodrammi hollywoodiani di John Stahl o di Douglas Sirk.

    5.

    Se aveva commesso un errore, o più errori, James avrebbe comunque e diabolicamente perseverato, con la riduzione teatrale del romanzo scritta nel 1890 e rappresentata, con scarso successo, a Londra nel 1891. Riduzione, davvero; e sfacciata banalizzazione, come anche nel caso di Daisy Miller (1878, 1883). «La sua proposta», scrive in un appunto del 1889, riferendosi a Edward Compton, «è che io faccia una commedia da L’americano, e indubbiamente una commedia c’è. Devo estrarne quanto di più semplice, più forte, più schietto, più rudimentale… oh, dev’essere non troppo buono, dev’essere tanto, ma tanto brutto…» Entusiasta – e non solo per la speranza del guadagno: il masochismo non faceva parte soltanto della personalità di Christopher – James chiama a raccolta e sfida al tempo stesso i più sfacciati autori di melodrammi, non escluso quello delle Due orfanelle: «A moi, Scribe, à moi, Sardou, à moi, Dennery!». E coerente a tali presupposti non esita a fare alzare il sipario su una vera e propria pochade, con una Noémie molto coquette e assediata da una ridda di corteggiatori, e a concludere con uno zuccheroso lieto fine in cui Claire non si fa affatto carmelitana e concede all’estatico Christopher una mano da baciare: lo stesso dialogo, pur basato su rimandi e palleggi jamesiani di parole chiave, risulta improntato a toni falso-disinvolti, invano aspiranti a un «brio» del tutto esteriore.

    Il vero guaio è che si realizza così la segreta aspirazione al teatro, presente nel romanzo come metafora e inquietante sub-text (nella casa dei Bellegarde Christopher ha spesso l’impressione di assistere a uno spettacolo, o di essere a sua volta parte di una commedia e di non conoscere il copione: in merito ha osservazioni molto precise Stefania Piccinato): e il mondo jamesiano non consente realizzazioni di sorta, come non consente il lieto fine («non riesco a credere che lei sarebbe stato felice», dice alla fine Mrs Tristram: «sarei stata curiosa di vedere, sarebbe stato tutto molto strano»). A lungo emarginato dal pregiudizio puritano e poi proposto in goffi e deboli surrogati, il teatro nell’America dell’Ottocento doveva conoscere una serie di rivalse indirette e clandestine, occupando grandi scene corali della Lettera scarlatta o sul ponte del Pequod, la nave di Moby Dick, nei monologhi di Ahab o quando la densa narrazione melvilliana volutamente si appiattiva a didascalia; più tardi, ai tempi di James, ancora se ne respirava l’atmosfera di contagiosa irrealtà nei salotti della Wharton o, all’estremo opposto, nel folle collage di insensate citazioni shakespeariane ammannito in Huckleberry Finn dal Duca e dal Delfino alle sbigottite popolazioni dell’Arkansas. Il teatro «vero» non poteva reggere il confronto: e comunque non valeva più a riscattare, come filtro ironico e virgolette invisibili, il gioco delle finzioni quotidiane e il repertorio degli eccessi del melodramma.

    6.

    Non c’è solo teatro ne L’americano: ci sono altre forme di finzione e di rispecchiamento. Ci sono i quadri, che Christopher vorrebbe scambiare con il denaro guadagnato a Wall Street («perché, questi li vendono?», chiede preoccupato Tristram al Louvre); c’è il discorso benjaminiano delle copie e della riproducibilità, grazie al gran daffare che si dà Noémie; c’è anche la letteratura, anch’essa in certo senso negata (Christopher «non leggeva romanzi», e nega precipitosamente, ancora a una domanda di Tristram, di volerne scrivere uno; il testo si riduce dunque al «documento segreto» che Mrs Bread consegna a Christopher e questi brucia nel caminetto, salvo voltarsi indietro, troppo tardi per recuperarlo, nelle ultime righe del romanzo). Grazie a questa somma di addendi di segno univocamente negativo – ci sono forse i tentativi di «copia», si potrebbe dire: ma dove sono gli originali? – si profila insidiosa l’ombra del Moderno: sulle ceneri del melodramma e del feuilleton nascerà, per James, una sorta di antiromanzo; e l’immagine dell’Americano come possibile eroe e summa di ineccepibili qualità dovrà cedere il passo alle crisi e alle interrogazioni dei personaggi inadatti a vivere nel nostro secolo. Tutto sommato, non aveva torto quel vetturino, a smontare dalla cassetta e a guardare cos’era successo al suo passeggero.

    7.

    L’americano non è nato su una vettura di piazza, ma su scenari non troppo dissimili. «Rammento che ero seduto in un tram a cavalli americano» scrive James nella prefazione alla New York Edition «quando mi trovai improvvisamente a considerare con entusiasmo, come tema di una storia, la situazione, in un altro paese e in una società aristocratica, di un mio compatriota solido e deciso, ma insidiosamente ingannato e tradito, e reso vittima di una crudele ingiustizia…» Quel che James non confessa è la sua sorniona complicità con quegli inganni e con quei tradimenti: tanto che suona tardiva, alla fine della prefazione (proprio come tardivo era lo scatto di Christopher per vedere se il «documento» si era bruciato proprio completamente), la sua intenzione di «aggrapparsi al (suo) eroe come a un grande, buono e protettivo fratello maggiore». James, a quanto pare, doveva a lungo soffrire di un complesso d’inferiorità nei confronti del pur amatissimo fratello maggiore, William, uno dei fondatori della psicologia moderna; il suo biografo Leon Edel osserva che molti dei suoi personaggi sono «fratelli minori», e intitola uno dei capitoli della sua biografia a Esaù e Giacobbe. Ma se Christopher è un fratello maggiore, nel romanzo non manca un fratello minore, Valentin, il cui rapporto con il protagonista ricorda un poco quello fra Rowland Mallett e Roderick Hudson e anticipa quello, più complesso, fra Strether e Chad ne Gli ambasciatori (1903): storie di protezione frustrata, di trepida preoccupazione, di sacrifici tardivi. Forse non è del tutto vero che L’americano manchi di elementi autobiografici, e nella doppia e diversa sconfitta di questi fratelli d’elezione si nasconde un altro groviglio destinato a futuri sviluppi, uno dei tanti nascosti in un romanzo forse irrisolto ma certo ricchissimo, un romanzo da rileggere e da riscoprire¹.

    Guido Fink

    Capitolo primo

    In una luminosa giornata di maggio dell’anno 1868, un gentiluomo era comodamente adagiato sul grande divano circolare che, in quel periodo, occupava il centro del Salon Carré, nel Museo del Louvre. Questa comoda ottomana è stata in seguito tolta, con vivissimo rincrescimento di tutti gli appassionati di belle arti dalle ginocchia un po’ deboli; ma il signore in questione si era tranquillamente impadronito del punto più soffice e, con il capo arrovesciato all’indietro e le gambe allungate, stava contemplando la bellissima Madonna del Murillo sorretta dalla luna, e si godeva appieno la propria posizione. Si era tolto il cappello e aveva lasciato cadere accanto a sé una piccola guida rossa e un binocolo da teatro. La giornata era calda; egli aveva sudato camminando, e ora si passò più volte il fazzoletto sulla fronte con un gesto alquanto estenuato. Eppure, si trattava senz’altro di un uomo al quale la fatica era familiare; alto, magro, muscoloso, ricordava quel genere di vigore che di norma passa per tenacia. Ma le sue fatiche, in quella giornata particolare, erano state di un genere inconsueto ed egli aveva dovuto sobbarcarsi a notevoli sforzi fisici dai quali era uscito più logorato che dal placido andirivieni nel Louvre. Aveva osservato tutti i dipinti accanto ai quali figurava un asterisco nelle formidabili pagine in carattere piccolo del Baedeker; la sua attenzione era stata posta a dura prova, aveva gli occhi abbacinati e si era messo a sedere con un mal di capo estetico. Aveva osservato, inoltre, non soltanto tutti i dipinti ma anche tutte le copie che stavano abbozzando innumerevoli giovani donne dalle impeccabili toilettes che si dedicano in Francia alla divulgazione dei capolavori, e, se dobbiamo dire la verità, aveva spesso ammirato le copie assai più degli originali. La sua fisionomia lasciava capire chiaramente come egli fosse un uomo scaltro e capace, e spesso, a dire il vero, era rimasto alzato tutta la notte dinanzi a voluminosi fasci di conti, udendo, senza nemmeno uno sbadiglio, il canto del gallo. Ma Raffaello e Tiziano e Rubens erano un tipo nuovo di aritmetica e facevano provare al nostro amico, per la prima volta in vita sua, una vaga sfiducia in se stesso. Un osservatore dall’occhio acuto per le caratteristiche nazionali non avrebbe incontrato alcuna difficoltà nello stabilire l’origine di questo inesperto appassionato d’arte, e invero un simile osservatore sarebbe forse stato pervaso da un certo divertito piacere a causa della completezza quasi ideale con la quale lo sconosciuto corrispondeva al modello nazionale. Il gentiluomo sul divano era un formidabile esemplare di americano. Ma non si limitava ad essere un bell’americano; era in primo luogo, fisicamente, un bell’uomo. Sembrava possedere quel genere di salute e di vigore che, quando toccano la perfezione, fanno davvero colpo… un capitale fisico che chi lo possiede non si adopra affatto per «conservare». Se anche era un cristiano muscoloso, lo era senza rendersene assolutamente conto. Se occorreva recarsi a piedi in un luogo remoto, vi andava a piedi, ma senza essere conscio di «fare un po’ di moto». Non si atteneva ad alcuna teoria concernente i bagni freddi o le mazze indiane; non era un rematore, un tiratore, né uno schermidore – non aveva mai avuto tempo per queste distrazioni – e rimaneva del tutto ignaro del fatto che l’equitazione è raccomandabile per certe forme di difficoltà di digestione. Era per tendenza un uomo moderato; ciononostante aveva cenato, la sera prima della visita al Louvre, al Café Anglais – gli era stato detto da qualcuno che si trattava di un’esperienza da non tralasciare – dormendo poi, ugualmente, il sonno del giusto. Il suo atteggiamento e portamento consueti appartenevano al genere piuttosto rilassato e ozioso ma quando, assecondando una particolare ispirazione, si teneva diritto, sembrava un granatiere alla sfilata. Non fumava mai. Gli avevano assicurato – capita di sentir dire cose simili – che i sigari fanno benissimo alla salute, ed era capacissimo di crederlo; ma si intendeva di tabacco quanto di scienza omeopatica. Aveva il capo di una struttura assai bella, con una ben fatta simmetria dell’osso frontale e occipitale, e una grande abbondanza di capelli castani, lisci e piuttosto secchi. La carnagione era bruna e il naso aveva una curva accentuata e ben delineata. Gli occhi erano di un grigio limpido e freddo e tranne i folti baffi egli era completamente glabro. La mascella era piatta e il collo segnato dai tendini, come accade spesso nel tipo americano; ma le tracce della nazionalità sono una questione d’espressione, ancor più che di fattezze; e, sotto questo aspetto, l’espressione del nostro amico non sarebbe potuta essere più eloquente. L’osservatore perspicace che abbiamo supposto avrebbe potuto, ciononostante,

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