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D'Annunzio e il fascismo: Eutanasia di un'icona
D'Annunzio e il fascismo: Eutanasia di un'icona
D'Annunzio e il fascismo: Eutanasia di un'icona
E-book412 pagine4 ore

D'Annunzio e il fascismo: Eutanasia di un'icona

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Info su questo ebook

Uno studio preciso, documentato, scientifico. Un volume di ricerca, che non disdegna note di colore, gettando una nuova luce su d'Annunzio.

Gabriele d'Annunzio fu protagonista della scena letteraria, del costume e della politica europei dalla fine dell’800 fino all’avvento del fascismo.

Il presente volume nasce dall’analisi delle carte inedite dell’Archivio Centrale dello Stato di Roma e svela i mezzi utilizzati da Mussolini per neutralizzare e allontanare dalla scena pubblica il poeta-soldato.

Attraverso le note, i telegrammi e le lettere inviate a Roma dal commissario di P.S. Giovanni Rizzo si scoprono i mezzi che hanno consentito la neutralizzazione del vate d’Italia: l’acquisto dei suoi preziosi manoscritti, la creazione prima dell’Istituto per la stampa delle opere dannunziane - l’Opera Omnia - cui sarebbe seguito L’Oleandro, fino ai finanziamenti per l’edificazione del Vittoriale mediante stanziamenti diretti imposti ai Ministeri dell’Educazione Nazionale e dei Lavori Pubblici.

LinguaItaliano
Data di uscita3 apr 2019
ISBN9788869345333
D'Annunzio e il fascismo: Eutanasia di un'icona
Autore

Raffaella Canovi

Raffaella Canovi nasce e vive a Milano. Ha conseguito a pieni voti la laurea in Scienze Politiche presso l'Università degli Studi di Milano con la tesi Le idee politiche di Gabriele d’Annunzio. La sua tesi è stata pubblicata. È stata co-autrice del testo L’Umanesimo totale per la casa editrice Edizioni Segno. Ha collaborato e collabora con diverse case editrici. In particolare pubblica sulla rivista "La Grande Guerra" articoli inerenti Gabriele d’Annunzio. Con CIVES Universi (Centro Internazionale di Cultura) ha partecipato in qualità di relatrice a due convegni dedicati a d’Annunzio: “Il poeta-soldato, d’Annunzio a Fiume” e “I segreti del Vittoriale” (atti già pubblicati). Nel novembre 2015 ha partecipato, sempre come relatrice, al convegno internazionale “Être nationaliste à l’ère des masses en Europe (1900-1920): figures, réseaux et transferts” presso l’Université Paris-Sorbonne con il contributo “L’esperienza italiana: il culto dell’io e l’elitismo in Gabriele d’Annunzio”. Gli atti del convegno sono stati pubblicati da P.I.E. Peter Lang SA, Bruxelles, nel 2017. Nel 2018 è stata relatrice al 45° convegno internazionale “D’Annunzio in Italia e nel mondo” organizzato dal Centro nazionale di Studi dannunziani in Pescara.

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    D'Annunzio e il fascismo - Raffaella Canovi

    raffalla canovi

    D’Annunzio e il fascismo

    Eutanasia di un’icona

    Autobiografia

    © Bibliotheka Edizioni

    Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma

    tel: +39 06.86390279

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, giugno 2018

    Isbn 9788869345326

    e-Isbn 9788869345333

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale, del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti sono riservati.

    Progetto grafico e disegnio di copertina: Riccardo Brozzolo.

    www.eureka3.it

    Foto di copertina per gentile concessione della

    Fondazione Il Vittoriale degli Italiani – Archivio Iconografico

    D'annunziana

    A ottant’anni dalla scomparsa di uno dei più contrastati, discussi ma anche amati scrittori della letteratura italiana del ‘900, non ci si poteva sottrarre ad una giusta e necessaria celebrazione commemorativa nel modo più congeniale che una casa editrice possa realizzare: dedicandogli, cioè, una nuova collana di studi.

    Gabriele d’Annunzio (nato a Pescara nel 1863 e morto a Gardone Riviera nel 1938) è uno scrittore indubbiamente controverso: lo si può amare almeno tanto quanto lo si possa incomprensibilmente odiare, ma il fatto è che è stato e resta, una icona imprescindibile della scrittura letteraria del secolo passato.

    Oltre a intellettuali, critici, studiosi, anche autorevoli e insospettabili scrittori hanno ammesso l’imprescindibilità dell’esperienza letteraria di d’Annunzio per tutto il ‘900 delle arti: primo fra tutti, Eugenio Montale, antidannunziano per condizione poietica, avvertì che non ci si può definire scrittori nel Novecento se non si è attraversato d’Annunzio.

    In questa collana, che nasce per celebrare gli ottant’anni dalla scomparsa di Gabriele d’Annunzio dalle scene letterarie del nostro Paese, intendiamo quindi accogliere i risultati delle ricerche più avanzate e più innovative, audaci e spregiudicate che gli studiosi dannunzisti intendano proporre.

    Raffaella Canovi

    Raffaella Canovi nasce e vive a Milano.

    Ha conseguito a pieni voti la laurea in Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Milano con la tesi Le idee politiche di Gabriele d’Annunzio. La sua tesi è stata pubblicata.

    È stata co-autrice del testo L’Umanesimo totale per la casa editrice Edizioni Segno.

    Ha collaborato e collabora con diverse case editrici. In particolare pubblica sulla rivista La Grande Guerra articoli inerenti Gabriele d’Annunzio.

    Con CIVES Universi (Centro Internazionale di Cultura) ha partecipato in qualità di relatrice a due convegni dedicati a d’Annunzio: Il poeta-soldato, d’Annunzio a Fiume e I segreti del Vittoriale (atti già pubblicati).

    Nel novembre 2015 ha partecipato, sempre come relatrice, al convegno internazionale Être nationaliste à l’ère des masses en Europe (1900-1920): figures, réseaux et transferts presso l’Université Paris-Sorbonne con il contributo L’esperienza italiana: il culto dell’io e l’elitismo in Gabriele d’Annunzio. Gli atti del convegno sono stati pubblicati da P.I.E. Peter Lang SA, Bruxelles, nel 2017.

    Nel 2018 è stata relatrice al 45° convegno internazionale D’Annunzio in Italia e nel mondo organizzato dal Centro nazionale di Studi dannunziani in Pescara.

    Gli atti sono stati pubblicati in Rassegna dannunziana n. 72.

    Ad Alessandro,

    imprescindibile sostegno

    nella vita e nella scrittura

    Amò la gioia di vivere

    e conobbe la tristezza di non morire.

    Carlo Delcroix

    Prefazione

    Il rapporto che viene a crearsi fra un regime autoritario e gli intellettuali è più complesso di quanto possa a prima vista apparire. Non sussistono problemi se gli intellettuali sono personaggi di provata fedeltà al regime politico al potere, cui, dal proprio canto, non fanno certo difetto i mezzi per tenere sotto controllo eventuali oppositori, o inducendoli al silenzio, o costringendoli all’espatrio, anche senza arrivare a soluzioni più drastiche.

    Partendo dal presupposto che un regime autoritario ha bisogno – non fosse altro per ragioni di prestigio e di immagine, all’interno e all’estero – dell’appoggio e dell’adesione di uomini di cultura, qualche problema (o meglio, qualche imbarazzo) può sorgere con un personaggio di indiscussa caratura intellettuale e che goda oltretutto di simpatie e agganci politici in vasti settori della vita pubblica del Paese. Dal generale passando al particolare, sembra proprio questo il caso del rapporto – rispondente ai requisiti tracciati nell’identikit – creatosi tra il fascismo (e Mussolini in particolare, ancor prima della Marcia su Roma) e Gabriele d’Annunzio.

    Al di là dei diffusi apprezzamenti, in Italia e all’estero, per la sua produzione letteraria, il d’Annunzio uscito dalla temperie del conflitto mondiale godeva di un enorme prestigio presso vari settori politici (che dalla destra nazionalista arrivavano a frange della sinistra e al sindacalismo rivoluzionario) e militari. Il ruolo avuto dalla sua fascinosa e trascinante oratoria nelle giornate del maggio radioso, la partecipazione (in una età oltretutto non più giovanissima) alla guerra, la beffa di Buccari, il volo su Vienna, avevano creato intorno al Poeta-soldato un alone di eroismo destinato a protrarsi sin dopo la cessazione delle ostilità, alimentato dal mito – coniato proprio dalla sua fervida fantasia – della vittoria mutilata. La stessa impresa di Fiume (che di quel mito sarebbe stata una delle manifestazioni più eclatanti) e l’occupazione per oltre un anno della città da parte delle truppe legionarie non avrebbero fatto altro che ingigantire quell’alone, non scalfito certo (se mai, rinvigorito) dal Natale di sangue e dalla forzata uscita da Fiume del Comandante e dei Legionari nel gennaio 1921.

    Esistevano dunque tutti i requisiti per individuare in d’Annunzio uno dei maggiori protagonisti del confuso dopoguerra italiano; un ruolo cui si era implicitamente candidato Benito Mussolini, a capo del neonato movimento dei Fasci di combattimento. Sul piano del prestigio personale, tutto sembrava giocare a favore di d’Annunzio; ben diverso, invece, il discorso sulle capacità politiche dei due personaggi, come emerso sin dal 1919-’20. A parole vicino a d’Annunzio, Mussolini non avrebbe inteso mettere a repentaglio l’esistenza stessa dei Fasci di combattimento né al momento della Marcia di Ronchi, né tanto meno nelle giornate del Natale di sangue, ben valutando i rischi di impantanarsi in una impresa, come quella fiumana, che, quasi dall’inizio, non avrebbe mostrato concrete possibilità di sbocchi politici, all’interno e all’esterno.

    È proprio con il 1919-’20 che cominciano a emergere le difficoltà di d’Annunzio a reggere il confronto con Mussolini sul terreno politico. Sin da allora, e per alcuni anni a seguire, il Poeta avrebbe guardato a Mussolini con un senso di superiorità, lo avrebbe considerato alla stregua di un parvenu, certo che prima o poi gli stessi Fasci di combattimento lo avrebbero scaricato e proprio a lui si sarebbero rivolti. Più prudente (in alcuni casi sin troppo) l’atteggiamento di Mussolini che, pur non nascondendo la propria scarsa considerazione sulle capacità politiche di d’Annunzio – gli sarebbe parso l’uomo di genio, più adatto alle ore e alle imprese eccezionali che al tran tran della politica quotidiana e alle sue insidie – , non commise mai l’errore di sottovalutarlo, consapevole anche del non disprezzabile seguito su cui il Comandante poteva contare all’interno dello stesso movimento fascista.

    Si trattava, per Mussolini, di tenere sotto controllo d’Annunzio, di neutralizzarlo; e proprio su questa lunga e occhiuta operazione di neutralizzazione si incentra lo studio di Raffaella Canovi che ha potuto consultare la documentazione giacente presso i più importanti archivi pubblici (da quello Centrale dello Stato a quelli del Vittoriale), per seguirne le varie fasi. Bisognava evitare, ancor prima della salita al potere del fascismo, che lo stato d’animo del Comandante dopo Fiume, a metà strada tra il rifiuto di sporcarsi con la politica e la mal celata acredine verso chi (come Mussolini), dopo un tiepido appoggio alla Marcia di Ronchi, aveva assistito pressoché inerte all’attacco del Governo di Roma contro d’Annunzio e i Legionari, potesse rappresentare un impedimento alle mire del capo dei Fasci di combattimento.

    Prima dell’ottobre 1922, le armi usate da Mussolini per neutralizzare d’Annunzio furono pressoché esclusivamente politiche. Si trattò di accontentare, almeno a parole, il Poeta, nella nuova veste che si era ritagliata di pacificatore nazionale e di protettore del mondo del lavoro, con particolare riguardo alla Federazione Italiana dei Lavoratori del Mare di Giuseppe Giulietti, che tanto lo aveva sostenuto durante l’occupazione di Fiume. Non è certo un caso se proprio con la promessa (poi puntualmente disattesa) di un accordo fra PNF e FILM, Mussolini fosse riuscito a garantirsi la neutralità di d’Annunzio, incontrandolo a Gardone Riviera l’11 ottobre 1922, pochi giorni prima cioè della Marcia su Roma; un evento che rappresenterà per molti versi un punto di non ritorno per le velleità politiche del Poeta.

    Oltretutto, Mussolini poté contare sul più che valido aiuto dello stesso d’Annunzio, almeno in un momento cruciale della vita dei Fasci di combattimento, scossi, nell’estate 1921, da una profonda crisi, in seguito alla firma del patto di pacificazione con i socialisti. Di fronte alla proposta – sottopostagli da Dino Grandi e Italo Balbo, appoggiati dall’ex sindaco di Fiume Riccardo Gigante, legato da profonda amicizia al Comandante – di assumere la guida dei Fasci al posto di Mussolini, il Poeta aveva preso tempo, adducendo la necessità di consultare le stelle. E anche le stelle andarono in aiuto di Mussolini, se è vero che in quei giorni il cielo … era rimasto nuvoloso.

    Lasciata inopinatamente cadere quella irripetibile occasione, a d’Annunzio rimasero, dopo il 28 ottobre 1922, ben poche concrete possibilità di tornare da protagonista sulla scena politica nazionale; benché, ancora per molto tempo, da vari ambienti (politici e non solo) si fosse arrivati a favoleggiare di lui come di un possibile oppositore del fascismo. Il che comunque non indusse Mussolini ad abbassare la guardia nei suoi confronti, dovendo al contempo tenere a freno i settori più intransigenti del fascismo, molto critici soprattutto verso il disegno (ben presto in effetti affossato) del Poeta di una unione sindacale, che avrebbe potuto mettere a rischio il monopolio in materia rivendicato dal fascismo. Se a lungo, sino al febbraio del 1924, e con continui colpi di scena, si trascinò la vicenda del patto marino (conclusasi con la defenestrazione di Giulietti dalla guida della FILM e, in pratica, con l’ennesimo scacco subito da d’Annunzio ad opera dei ben più spregiudicati ambienti politici fascisti e armatoriali), la tattica di Mussolini per tenere sotto controllo il Poeta subì, a partire dal 1924 circa, un deciso cambiamento di rotta.

    Alle solite promesse, destinate a lasciare il tempo che trovavano, si aggiunsero sia riconoscimenti formali atti a solleticare la notoria vanità di d’Annunzio (come il conferimento, da parte del Re, del titolo di principe di Montenevoso), sia interventi ben più concreti (e onerosi per le casse dello Stato: oltre 6 milioni di lire, dal 1924 al 1930, solo per la cessione allo Stato dei suoi manoscritti) per la sistemazione della villa Cargnacco (il futuro Vittoriale), per la pubblicazione dell’Opera Omnia o, più prosaicamente, per venire incontro all’inesauribile bisogno di liquidi da parte del Comandante e ai suoi ricorrenti capricci. Va dato atto a Raffaella Canovi di essersi saputa destreggiare con estrema abilità fra le masse di documenti d’archivio inerenti gli ultimi quindici anni circa della vita di d’Annunzio nella prigione dorata del Vittoriale (l’unico luogo al mondo dove avrebbe potuto essere ancora il solo protagonista della scena), dalle vicende più importanti a quelle più quotidiane e banali. Oggetto, comunque, le une e le altre, della capillare attenzione del Commissario di PS Giovanni Rizzo, fidata ed efficiente longa manus di Mussolini a Gardone, nella sua quasi asfissiante azione di controllo sul Poeta; anche se si potrebbe obiettare sulla completa attendibilità di alcune sue ricostruzioni, sia nelle quotidiane relazioni fatte pervenire a Roma, sia nelle successive memorie.

    Non sembra il caso di affrontare, in queste poche pagine, il quesito sul ruolo di d’Annunzio di fronte al sin troppo chiaro intento corruttivo posto in atto da Mussolini, sia per non dover sottoporre il Poeta a una analisi psicologica, sia per non anticipare le conclusioni, senz’altro condivisibili, avanzate nel volume. È difficile stabilire chi, nel rapporto fra d’Annunzio e Mussolini, avesse di più guadagnato. È vero che il Poeta, se pure incontentabile, vide risolte le proprie perenni difficoltà economiche, ma è altrettanto certo che la frase Tutto è tranquillo, con cui si concludevano molti dispacci del solerte Giovanni Rizzo al Capo del Governo, era quanto mai rassicurante, almeno su uno dei tanti fronti aperti e scottanti (in teoria) della politica interna italiana. Se lo stesso Mussolini non avrebbe lesinato apprezzamenti alla silenziosa collaborazione prestatagli da d’Annunzio in tante occasioni, soprattutto le più difficili per la stabilità del Regime, forse sopravalutò – per una sorta di timore paranoico che, in un regime autoritario come quello fascista, vinceva sulla ragione e sulla effettiva necessità, come scrive Raffaella Canovi – l’entità del pericolo che poteva venire dal Poeta o dalle sue ricorrenti, ma sempre meno credibili minacce di lasciare l’Italia e di andare in volontario esilio. In fondo, a ben guardare, era un esilio, dorato anch’esso quanto si voglia, già quello cui si era autocondannato d’Annunzio all’interno del Vittoriale.

    Guglielmo Salotti

    Introduzione

    Questo ferale taedium vitae mi viene dalla necessità di sottrarmi al fastidio – che oggi è quasi l’orrore – d’essere stato e di essere Gabriele d’Annunzio.(1)

    Sempre su di un palcoscenico, fenomeno letterario e di costume, uomo di lettere e d’armi, unico poeta nella storia ad avere conquistato e retto una città per 492 giorni. Un rivoluzionario della lingua italiana e del ruolo stesso di poeta nella società. Personaggio dalle molte maschere, la prima fu proprio quella che porta il suo nome: Gabriele d’Annunzio.

    Ma c’è una ‘maschera’ forgiata dall’aneddotica postuma che ha fatto parlare molti critici e detrattori del personaggio di un d’Annunzio nei suoi contraddittori legami con il fascismo e Mussolini: legami spesso risolti in un reale processo di neutralizzazione e censura del poeta, già assunto quale icona funzionale alla retorica e alla propaganda di regime.

    Analizzare questa maschera, pertanto, comporta una rilettura attenta del contesto storico-politico, della nascita del Vittoriale, dei rapporti personali di d’Annunzio con Benito Mussolini, ma soprattutto la scelta ‘etica’ da parte del vate di autoemarginarsi dalla scena politica riservandosi un diritto di protagonismo solo in quella letteraria, lasciando che il regime si avvalesse di tutti i mezzi utili a perseguire la neutralizzazione di un potenziale avversario.

    Come fonti sono state consultate le carte della Segreteria Particolare del Duce (SPD), della Presidenza del Consiglio (PCM) e del Ministero degli Interni-Direzione Generale-Divisione Polizia Politica conservate presso l’Archivio Centrale dello Stato (ACS) di Roma, oltre naturalmente a quelle custodite presso il Vittoriale.

    È stato possibile rintracciare, sostanzialmente grazie alle note, ai telegrammi, ai lunghi rapporti e alle lettere che più volte al giorno venivano inviati a Roma dal commissario di pubblica sicurezza Giovanni Rizzo(2) («occhiuto carceriere») i mezzi che hanno consentito il controllo del vate, definito dal duce come «un dente cariato: o lo si estirpa o lo si ricopre d’oro». E per d’Annunzio fu scelta la seconda opzione; non era certo pensabile eliminare fisicamente un eroe della Grande Guerra, mentre era consigliabile neutralizzarlo – fin dove tale parola è applicabile alla personalità dannunziana – favorendolo economicamente nella sua vita dispendiosa.

    Il giovane cronista del bel mondo romano, il vate d’Italia, il poeta-soldato e infine il Comandante di Fiume, a partire dal 1921 deposero armi e vecchie maschere per indossare quella forse definitiva: il reduce recluso.

    Un simile uomo, abituato da sempre a essere protagonista, sempre attore di se stesso, fu una preda fin troppo facile per chi era intenzionato a neutralizzarlo: sarebbe stato sufficiente gratificare e assecondare i suoi capricci.

    Pur di non rinunciare a circondarsi di ciò che considerava vitale – ovvero il superfluo – divenne il vate del Vittoriale, si rinchiuse in un mondo da egli stesso creato e scelse il compromesso e l’acquiescenza nei confronti del regime fascista, credendo di sopravvivere nel mondo culturale e politico italiano, nel suo nuovo ruolo di pacificatore nazionale super partes.

    Fu ingabbiato nella sua cittadella, fra giocattoli, donne e droghe, venerato dal suo entourage, comunque libero di studiare e scrivere, ma di fatto costretto a cessare ogni forma di partecipazione alla vita politica del Paese. Aveva dichiarato nel 1922 di essere tornato artista puro:

    Ho allontanato da me qualunque bagliore di gloria. Non amo più la gloria; e m’è cruccio e m’è vergogna averla amata, averla seguita. L’ho troppe volte veduta esporsi a mal uso; troppe volte l’ho veduta concedersi ai vili o ai falsi; troppe volte l’ho veduta incoronarsi di fieno da stabbio in luogo di fronda casta. E troppe volte l’ho veduta agitare sceniche palme verso colui che stava per essere tradito e condotto al supplizio.(3)

    Abilmente gli fu impedito di continuare la sua – seppur particolare – attività pubblica.

    Il momento della lotta si era concluso a Fiume, dopo il Natale di sangue, eppure l’immagine dannunziana era ancora molto forte.

    Nel 1921 un’unica figura dominante non era ancora emersa definitivamente sulla scena politica nazionale. In anni segnati dalla crisi dello Stato liberale, in molti ambienti era sentita – più o meno consapevolmente – l’esigenza di una svolta autoritaria segnata da una personalità forte che racchiudesse in sé tutte quelle qualità che un governo accusato di inettitudine e debolezza non appariva in grado di esprimere. Una personalità da contrapporre a quelle istituzionali di Ivanoe Bonomi(4) e Luigi Facta(5) e che contemporaneamente servisse a scongiurare l’ennesimo ritorno dell’intramontabile Giovanni Giolitti(6).

    Il leader forse più autorevole in quel momento storico era un poeta, era Gabriele d’Annunzio; Mussolini non aveva ancora acquisito sufficiente forza per sconfiggere il vate d’Italia, riconosciuto quale eroe, icona fra le più importanti e influenti del primo dopo guerra.

    Il Comandante era punto di riferimento degli ex combattenti, simbolo della vittoria italiana nella Grande Guerra. Pur essendo stato sconfitto a Fiume era pur sempre il poeta-soldato, l’orbo veggente mutilato di guerra: racchiudeva in sé la forza e la debolezza, il vincitore e il perdente, la parola e il gesto. Mussolini temeva l’influenza del fascino dannunziano e capì subito che avrebbe dovuto inglobarlo nel fascismo o almeno renderlo inoffensivo. Una volta raggiunto il potere fra le sue prime preoccupazioni vi fu infatti quella di bloccare qualsiasi piano di d’Annunzio verso la Dalmazia. Già della fine del 1922 erano due i telegrammi che trattavano l’argomento dalmata. Nel primo il prefetto di Venezia D’Adamo affermava: «manca qualsiasi informazione e indizi riguardo eventualità spedizione Dalmazia».(7) Il secondo, indirizzato ad Aldo Finzi(8) dal prefetto di Brescia De Martino, riferiva sullo stato del poeta e sulle visite dei suoi ex legionari e sulle preoccupazioni in merito a possibili azioni in Dalmazia.(9) A giugno del 1923 sempre d’Adamo informava invece il Ministero degli Interni in merito a voci giunte da Udine relative a una possibile spedizione in Dalmazia, non chiaro se da parte di fascisti, dissidenti o altri gruppi.(10)

    Tale era il timore di azioni in Dalmazia, che il giorno dell’insediamento del suo governo, 31 ottobre, Mussolini scrisse all’incaricato d’affari d’Italia a Fiume:

    sconsigliare energicamente (…) qualsiasi manifestazione atta a turbare tranquillità pubblica danneggiando stessa causa nazionale.(11)

    Mussolini era determinato ad arginare qualsiasi opposizione reale o presunta, e in primis la capacità d’iniziativa del Comandante e del suo entourage, che – in caso di indecisione del poeta – avrebbe potuto spingerlo comunque a riprendere l‘azione; infatti divenuto Presidente del Consiglio, nel suo ruolo di Ministro degli Interni, ordinò ai prefetti il ferreo controllo dei legionari: li considerava più pericolosi dell’estrema sinistra.(12)

    Il peso d’essere divenuto suo malgrado, dopo Fiume, il primo rivoluzionario d’Italia probabilmente condusse d’Annunzio a isolarsi dalla politica; fu poi Mussolini a sollevarlo da quel carico sostituendolo in quel ruolo. Gabriele cercò di resistere assumendo la difesa della Federazione dei Lavoratori del Mare (FILM), interesse che in fondo era distante dal suo mondo. S’illuse di poter negoziare con il capo del fascismo da posizione dominante, o quanto meno dallo stesso livello, grazie al mito del poeta-soldato.

    Dopo la vicenda della FILM (affrontata più avanti), per un momento Mussolini temette che il Comandante potesse passare all’opposizione come reazione alla momentanea delusione; ma presto il duce comprese facilmente come trattenerlo a sé: offrendogli sicurezza economica, in cambio dell’abbandono del palcoscenico politico italiano.

    Mussolini lo rinchiuse metaforicamente in una gabbia costruita con titoli onorifici (principe di Monte Nevoso), denaro e favori.

    Se d’Annunzio inizialmente tentò di resistere, dall’alto della sua leggenda di intellettuale e uomo d’azione, ben presto si arrese accettando protezione e finanziamenti. Scelta che, se non condivisa, può essere tuttavia compresa tenendo presente l’indole dell’uomo e la sua concezione di vita fondata sul legame indissolubile con l’arte, dove la letteratura non era considerata esperienza di vita bensì vita stessa.

    Favori e attestati onorifici erano giudicati una normale e giusta conseguenza dell’opera indefessa svolta in campo letterario e di propaganda patriottica a favore della diletta Italia, il denaro fu considerato sempre inferiore al dovuto. La sua perenne insoddisfazione fu naturalmente palesata direttamente o tramite il suo entourage affinché giungesse a Roma.

    Il poeta-soldato cedette il passo a Mussolini, forse perché troppo deluso e stanco, forse perché troppo impegnato nell’ideare il suo monumento di pietre vive, il suo testamento o, meglio ancora, la materializzazione di se stesso: il Vittoriale.

    Tacitamente acquiescente nei confronti del regime, conscio di essere controllato, egocentricamente convinto che comunque tutto gli spettasse, Gabriele si occupò solamente della sua attività letteraria: durante gli anni della reclusione al Vittoriale videro la luce, fra inediti e revisioni di opere già cominciate, Il Notturno, Il nuovo patto marino, Le Faville del maglio, Il Sudore di sangue, L’Urna inesausta, Libro segreto, Le dit du sorde et muet qui fut miraculé en l’an de grâce 1266, Teneo te Africa, Canti della guerra latina, Libro ascetico della giovane Italia (già Per l’Italia degli Italiani), Solus ad solam (quest’ultimo pubblicato postumo).

    Sprezzante, ignorò i numerosi inviti a divenire accademico e non firmò il Manifesto degli intellettuali del Fascismo, redatto da Giovanni Gentile.(13)

    Al Vittoriale d’Annunzio ricostruì la sua vita, conferendo organicità ai frammenti dispersi delle Faville, componendo come un puzzle la sua autobiografia frammentaria (Il Fastello della Mirra) e creando un capolavoro assoluto: Il Libro segreto. Estratti, schegge della sua esistenza, che mai fu separata da quella artistica. Sempre aveva raffigurato nelle sue opere letterarie se stesso e la propria eccezionalità d’artista: nelle prime poesie e novelle, nei romanzi e nelle tragedie, in quelli che potrebbero apparire come semplici taccuini, testi invece fondamentali per l’opera dannunziana che aveva attraversato verismo, carduccianesimo, decadentismo per approdare alla scrittura frammentaria divenendo

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