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Racconti nel castello. Primo Premio letterario internazionale «Città di Barletta»
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Racconti nel castello. Primo Premio letterario internazionale «Città di Barletta»
E-book173 pagine2 ore

Racconti nel castello. Primo Premio letterario internazionale «Città di Barletta»

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Info su questo ebook

Racconti nel castello, l'antologia del Primo Premio Letterario Internazionale "Città di Barletta". Fantasia, misteri, intrighi, leggende e storie si snodano mirabilmente su un tema comune: le mura eterne di un castello, da sempre simbolo di grandezza e nobiltà.
Racconti presenti (in ordine di classifica):
1°: “Il futuro ha radici di pietra” di Marina Mastrangelo
2°: “Dove si nasconde il Frangipani” di Maria Silvia Avanzato
3°: “Il caso Caravaggio” di Fiorella Borin
4° ex-aequo: “Fratelli di sventura” di Cosimo Ugo Paolo Miccoli
4° ex-aequo: “La torre dell’orologio” di Cosimo Buccarella
6° ex-aequo: “Il castello dei ricordi perduti” di Patrizio Greco
6° ex-aequo: “Edda” di Maria Michela Di Lieto
8° ex-aequo: “Il castello di Concordia” di Carlo Alberto Turrini
8° ex-aequo: “Dopo la mezzanotte” di Davide Corvaglia
10°: “Pochi centimetri al giorno” di Aldo Moscatelli
LinguaItaliano
Data di uscita1 ott 2018
ISBN9788895974132
Racconti nel castello. Primo Premio letterario internazionale «Città di Barletta»

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    Anteprima del libro

    Racconti nel castello. Primo Premio letterario internazionale «Città di Barletta» - Maria Silvia Avanzato

    Barletta"

    Il futuro ha radici di pietra

    di Maria Mastrangelo

    Caterina preferì lasciare lo scooter nel parcheggio all’imboccatura del molo e percorrere a piedi quell’ultimo tratto del lungomare. La luce gentile e chiara del tardo pomeriggio di quel giorno di aprile rendeva tremula la linea dell’orizzonte, dove cielo e mare si raccontano di vita e di morte, e di spazi che sono oltre.

    Caterina camminava lentamente nelle sue scarpe di tela. Le mani strette a pugno, sprofondate nelle tasche di un giubbetto di pelle che le si avvitava intorno al corpo sottile. I lunghi capelli neri che i vai e i vieni del maestrale rendevano irrimediabilmente arruffati e profumati di sale e di sole. Silenzio nei pensieri e dentro il cuore.

    Lungo il marciapiedi, all’ombra delle palme, con il lento sciabordio dell’acqua che si frangeva e poi ritraeva dagli scogli appena sotto di lei, la pace intatta di quel luogo così familiare parve a Caterina troppo pesante. Insostenibile. Perché la bellezza della sua terra ne era, talvolta, anche la condanna. Come se la benedizione di Dio, che aveva regalato un mare pescoso e deliziose primizie, potesse bastare per l’eternità. Come se i segni del passato, le storie raccontate dalla pietra e quelle scritte dall’arte fossero sufficienti perché il presente ancora ne godesse e il futuro non fosse un pensiero di cui farsi carico.

    Caterina aveva ventisette anni, una manciata di sogni e una laurea a pieni voti che non aveva voluto appendere nel salotto di casa. E di questa bellezza antica e sacra e immobile, ormai non sapeva davvero cosa farsene. Un tempo sperava di poterla scoprire e raccontare, come esperta d’arte o direttrice museale, ma ora si sarebbe accontentata di un lavoro, uno qualsiasi. Eppure ai giovani come lei, nati in questa terra terribilmente aspra e seducente, sarebbe bastata solo un’occasione. L’opportunità di fare, di avere un progetto per sé, di lasciare un segno, o almeno di provarci. Sentire la propria origine come un motivo di orgoglio e non come una condanna. Ma, il più delle volte, era così difficile…

    E alla fine si faceva largo quella che sembrava l’unica idea possibile. Riempire una valigia di vestiti e nostalgia, e ciao a tutti. Addio. Ciao… Ciao agli amici di una vita, quelli ancora qui e quelli già andati via, quelli rassegnati e stanchi e quelli inguaribilmente ottimisti. Quanta vita insieme, quanta strada, quante ciliegie mangiate all’ombra del Castello, quante scorrazzate in bicicletta fin sotto il fossato, quanti sogni mancati, come i tiri di cerbottana attraverso le feritoie nelle mura… Ciao al mare che li aveva visti crescere chiassosi e arrabbiati, mentre imparavano a nuotare, mentre davano il primo bacio, mentre suonavano la chitarra e cantavano Ligabue e bevevano birra davanti al falò, la notte dopo la maturità… Ciao alla terra assetata eppure feconda, che a costo di tanto sudore almeno restituiva tavole imbandite di sapori buoni. E ciao al Castello, che per secoli era stato il primo baluardo, l’ultimo rifugio. Ora… ora, chissà.

    Quando era ancora una ragazzina, Caterina pensava che lei non sarebbe stata una di quelli che mollano, costretti ad andare via per coltivare il sogno semplice di una vita serena e onesta. Ma dopo infinite porte trovate chiuse, e «no, grazie» sputati addosso con indifferenza, e «le faremo sapere» che, nella loro ambiguità, sapevano di definitivo, si era convinta di non avere scelta neppure lei.

    Ciao, addio. Ciao. E senza neppure troppi rimpianti, alla fine.

    Poi aveva letto l’annuncio e si era concessa quell’ultima chance. In palio un posto come responsabile delle attività culturali e delle iniziative turistiche relative al celebre Castello della città. Aveva telefonato al numero indicato sul giornale e una voce di donna troppo squillante, dall’altra parte del filo, le aveva detto di presentarsi in ufficio alle diciotto di quello stesso giorno.

    Caterina arrivò con qualche minuto di anticipo davanti al passaggio di pietra su archi che sostituiva il vecchio ponte levatoio e, per la prima volta da quando era scesa dal motorino, lasciò che la poderosa mole del Castello le riempisse violentemente lo sguardo. Pietre su pietre messe su già dai Normanni, e poi rimodellate sotto la dominazione angioina e ancora aragonese, e infine passate nelle mani di famiglie aristocratiche dai destini spesso bizzarri o foschi, finché il Comune non si era deciso ad acquistare il maniero. La ragazza superò il ponte e, attraverso un grande portale sovrastato da stemmi nobiliari, entrò in un ampio androne. Su un lato, la porticina serrata di quella che era stata la cappella dove venivano sepolti i castellani. Sull’altro, l’accesso ai vani dove un tempo stazionava il corpo di guardia in attesa del nemico, ora adibiti a biglietteria, desktop informazioni ed uffici.

    In quella stagione il Castello era ancora chiuso al pubblico. Vi regnavano il silenzio e la frescura, e l’eco muta di storie che non sarebbero state più raccontate.

    «C’è nessuno?» chiese ad alta voce.

    «Avanti!» le gridò qualcuno dalla stanza in fondo. Dietro una scrivania dell’Ikea, una signora sui cinquanta con le unghie laccate di rosso e i capelli freschi di parrucchiere stava sfogliando con indolenza una rivista di gossip. «Che cosa desidera?» domandò senza alzare lo sguardo, quando avvertì la presenza di Caterina che nel frattempo le era andata incontro. La ragazza avrebbe voluto voltarle le spalle, correre a perdifiato, saltare in sella al suo scooter e sfrecciare verso un mondo dove, quando si parla, la gente si guarda e si sorride. Solo per il piacere di riconoscersi e di regalarsi del tempo. Tuttavia Caterina non era certa che un mondo così esistesse davvero, per cui finì col rimanere.

    «Ho un appuntamento con la signora Ranieri. È per quel posto da responsabile…»

    «Ah. Bene. La signora Ranieri sono io.» La donna finalmente le rivolse un’occhiata, che non era spazientita o annoiata o brusca. Era solo carica di niente. Come se non valesse la pena dedicare troppo tempo a quella ragazza con gli occhi neri e ardenti che le si era parata dinanzi, perché tanto non sarebbe stata lei la sua futura collaboratrice. «Prego, si accomodi su quel tavolino e compili questo modulo» disse allungando a Caterina un foglio prestampato. «Indichi dati anagrafici, titolo di studio, conoscenza delle lingue, altre esperienze nel settore… Insomma, tutto quello che pensa possa essere utile.»

    «Io pensavo di dover sostenere un colloquio» obiettò Caterina dopo un attimo di esitazione.

    «Ma no, non ce n’è bisogno, signorina bella… Come dicevano i latini? Verba volant, scripta manent!» La donna mise su un sorriso compiaciuto del proprio sfoggio di erudizione. «E poi con questo prestampato risparmiamo tempo, serve solo per farsi un’idea del suo profilo. Tanto il verdetto definitivo verrà fuori dalla prova che tutti i concorrenti contemporaneamente sosterranno fra una settimana. Bisognerà comporre un elaborato, un bel temino insomma… L’argomento è il Castello, chiaramente, ma la traccia precisa, quella, non gliela posso proprio dire!» La signora Ranieri aveva parlato con un’enfasi esasperante e affettata che a Caterina aveva dato sui nervi. Ostentava una partecipazione ai casi della sua vita che era finta come il castello del lunapark vicino al centro commerciale.

    «Si dà il caso che la traccia precisa, quella, non gliel’ho proprio chiesta.» Caterina dedicò meno di un paio di minuti alla compilazione del modulo, lo lasciò sulla scrivania e salutò quando già era fuori dalla stanza.

    Prima di uscire, tuttavia, si affacciò furtivamente nel cortile interno a pianta quadrata, al centro del quale sorgeva il mastio, la torre più imponente del Castello: destinata a ospitare e proteggere i castellani in caso di attacco nemico, accoglieva anche le stanze private e gli ambienti di rappresentanza del signore, oltre ad alcuni locali di servizio e un singolare scriptorium di corte. Sulla destra, invece, una stretta scala a cielo aperto conduceva al ballatoio che circondava la corte sui quattro lati e seguiva il perimetro delle mura. Caterina immaginò guardie impettite che camminavano su e giù con lo sguardo vigile verso la costa e ancora oltre, fino alla linea dell’orizzonte, pronte a scorgere il profilo minaccioso di una nave araba o delle rapide imbarcazioni dei pirati illirici. Immaginò arcieri e balestrieri intenti a scoccare il colpo attraverso le strette feritoie, quando l’attacco veniva da terra. Immaginò la concitazione di quei momenti, le urla degli uomini addetti ad alzare il ponte levatoio per impedire al nemico di entrare nel Castello, mentre qualcun altro si preparava a lanciare attraverso le caditoie acqua bollente o calce viva. Sotto le mura, invece, si levavano le grida violente e strozzate di chi, dopo aver riempito il fossato usando botti, fanghiglia o pietre, sbatteva furiosamente la testa dell’ariete contro il portone per sfondarlo e guadagnarsi una via d’accesso all’interno.

    Scene di vita strappate dai libri e forse infinitamente lontane dalla realtà, fotogrammi che pure Caterina cercava di ricreare con gli occhi della fantasia, con la speranza di sentire quel posto un po’ più suo. Avrebbe voluto riprovare quell’orgoglio che la prendeva da bambina, quando doveva raccontare della sua città e del suo Castello: luoghi dell’anima che adesso, invece, sembrava non avessero più nulla da dirle.

    «Signorina!»

    Caterina riconobbe, alle sue spalle, la voce stridula della donna con la quale aveva parlato poco prima. Temette che fosse sopraggiunta per rimproverarla di essersi attardata nel cortile, invece si accorse che aveva in mano alcuni fogli che sventolava con foga.

    «È ancora qui! Per fortuna, altrimenti mi sarebbe toccato telefonarle…» disse quando le fu vicina. «Avevo dimenticato di darle questi. Qui trova l’elenco dei testi sui quali suggeriamo di studiare per la prova della settimana prossima. Sono tutti disponibili nella biblioteca comunale.»

    Quando notò l’espressione perplessa di Caterina, la donna si affrettò a rassicurarla: «C’è scritto tutto, stia tranquilla!» E allargò le braccia come a voler dire che, se mai il concorso non fosse andato bene, non sarebbe stata certo colpa sua. «Beh… buon studio, allora.»

    La ragazza restò a guardarla mentre tornava a rintanarsi nel suo ufficio per immergersi nella lettura delle intricate vicende di calciatori e veline. Lì sotto il naso aveva il titolo di più di venti libri che, secondo la signora Ranieri, avrebbe dovuto spulciare e studiare approfonditamente nel giro di una settimana. Caterina si chiese a chi fosse destinato quel posto da responsabile, ma il parentado degli amministratori comunali era troppo nutrito perché potesse venire a capo della questione. E con la rassegnata consapevolezza che sarebbe stato l’ennesimo buco nell’acqua, decise di passare a salutare sua nonna.

    Nonna Ada era una vanitosa ottantasettenne dotata di una straordinaria dose di umorismo e curiosità. A costo di risparmiare tutta la settimana, non c’era sabato che non andasse dalla parrucchiera per farsi mettere in piega i suoi vaporosi capelli d’argento e, come regali di compleanno, non chiedeva pantofole di feltro o una sciarpa di lana: reclamava piuttosto una borsetta elegante o un paio di orecchini di corallo. Nonna Ada non era di quelle vecchine tutte uncinetto e torta di mele, ma un vulcano di ricordi e racconti e saggezza di cui Caterina non era mai sazia. Da giovane era stata una maestra anticonformista e originale e aveva l’unico rimpianto di non essere riuscita a laurearsi in filosofia. La guerra, infatti, aveva prodotto bisogni troppo grandi che né Schopenhauer né Spinoza potevano aiutarla a soddisfare. E ancora adesso Ada non si risparmiava, tenendo gratuitamente lezioni di italiano a famiglie di senegalesi, a giovani tunisini, a badanti venute dall’est che vivevano nel suo quartiere.

    Per Caterina questa nonna atipica e insostituibile era l’abbraccio in cui correre quando intorno tutto vacillava: la speranza, la fiducia, persino l’allegria. Grazie alle sue storie curiose e matte, la cui dose di verità sfumava nel favoloso, e alla sua capacità di trovare sempre la parola giusta, l’inquietudine si scioglieva, si smussava, si addolciva un po’.

    «Nonna!» le urlò nel citofono quando fu sotto casa sua. Nonna Ada abitava in una palazzina piuttosto malandata appena fuori il centro città. Era una costruzione degli anni Sessanta, ormai popolata da anziani soli o famiglie di immigrati. Le pareti esterne avevano bisogno di una mano d’intonaco, mentre la ruggine si stava mangiando a poco a poco tutte le ringhiere. Però nonna Ada non se ne lamentava mai, anzi diceva che le piaceva stare lì. Dalle finestre della sua abitazione al terzo piano si vedevano il mare, l’ampia insenatura del porto sempre in febbrile movimento, e soprattutto il profilo imponente ed elegante del Castello, verso sud, isolato sulla linea di costa e lambito direttamente dall’acqua. Era ancora più bello il Castello, visto da lassù. Si distinguevano il mastio centrale e le quattro torri quadrangolari, quelle verso il mare più alte di quelle verso la terraferma, mentre la mole di un quinto bastione a punta di lancia, più basso degli altri, si poteva soltanto intuire: staccato dalla cinta

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