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Matera Nera
Matera Nera
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E-book261 pagine3 ore

Matera Nera

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Info su questo ebook

Antologia di racconti thriller a cura di Oriana Ramunno  - Collana IRA
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2020
ISBN9788835828914
Matera Nera

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    Anteprima del libro

    Matera Nera - autori vari

    MATERA NERA

    a cura di Leonardo Di Lascia

    Prima edizione: novembre 2019

    Tutti i diritti riservati 2019 ©BERTONI EDITORE

    Via Giuseppe di Vittorio, 104 - 06132 Chiugiana  (Perugia)  

    Bertoni Editore 

    www.bertonieditore.com

    info@bertonieditore.com    

    È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata

    Tutte le vicende narrate  in questo libro sono frutto della fantasia dell'autore. Ogni somiglianza con persone reali o eventi realmente accaduti è assolutamente casuale. 

    Luigi Brasili - Emilio Daniele 

    Lorenzo Fontana - Marco Ischia - Macrina Mirti 

     Andrea Montalbò - Alberto Odone 

    Laura Scaramozzino -  Antonio Tenisci

    Andrea Tortoreto -  Elena Vesnaver 

    MATERA NERA

    a cura di Oriana Ramunno

    PREFAZIONE

    Una squadra di racconti noir si mette in azione in una delle città più sicure d’Italia e ne nasce una antologia che si legge veloce, ricca di personaggi quotidiani, abitanti veri di luoghi non di carta. Una città tanto sicura che gli undici narratori spaziano dal VII secolo avanti Cristo fino all’oggi per ritrovare gesti criminosi: dalla nascita della Magna Grecia a questo fatidico 2019 vissuto con gioia e orgoglio da capitale europea della cultura, i momenti di scontro sono rari, iconici, famosi. Al centro della scena, il 21 settembre del 1943, eccidio doloroso; ai lati, alcune storie di oggi – un femminicidio, un misunderstanding che si consuma durante le riprese di un film -  e molte storie dell’Ottocento, periodo da indagare di più e meglio, soprattutto per quanto riguarda gli anni antecedenti al 1848.

    La città ne esce sublime, solo in pochi passaggi abitata da troppi turisti, e sempre più nome collettivo per la Murgia e per questo angolo di sud, il sud est che tiene insieme Basilicata e Puglia, colline verdi e mari blu. Una città che anche quando ritorna ai suoi anni Settanta, riluce di alcuni nomi, di alcuni oggetti: mirabile la presenza di una Olivetti 22, strumento di informazione e propaganda. Interessante anche un’altra tendenza, quella di poter essere una città in cui si proiettano storie nate in altri luoghi. L’intuizione pasoliniana di Matera nuova (e non finta!) Gerusalemme, si sposta oggi verso novelli immaginari possibili. Il racconto ambientato nell’VIII secolo dopo Cristo ci indica una strada di Matera nuova Dubrovnik, in cui la narrazione da scritta non si trasforma in cinema, ma in videogioco, e da game in esperienza 4D.

    In realtà, per chi la abita, Matera è luogo di grandi passioni ma anche di facili dialoghi, in cui lo scontro si stempera in un motteggio, in un sorriso, in un saluto rapido. Uno spazio adatto a scrivere e a leggere nel silenzio e in una luce ricca di grazia e di serenità.

    Paolo Verri

    Direttore generale Fondazione Matera Basilicata 2019

    A Matera la roccia si staglia aspra contro il cielo, in un paesaggio lunare. Nella pietra si aprono fori che sono come occhi e le chiese sorgono sugli speroni come un piccolo miracolo. Ma è quando cala l’oscurità, che la calcarenite dei Sassi fa sembrare più fondo il burrone su cui la cittadella si tende. In quelle ombre, si annidano undici storie nere che vi terranno col fiato sospeso.

    IL NERO DELLA NOTTE

    Di Luigi Brasili

    I

    Giacomo Latini allungò le braccia per sciogliere i muscoli e salutò il collega appena arrivato a dargli il cambio. Mentre si incamminava verso lo spogliatoio dell’infermeria si fermò a scrutare oltre il vetro della finestra che si apriva sul corridoio. Giacomo imprecò sottovoce: gli ultimi respiri della notte erano già stati soffocati dalla luce incerta di quel mattino di fine estate. Erano ormai due settimane che durante il giorno il sole giocava a nascondino con la coperta grigia, distesa senza interruzioni intorno a tutta la città, come uno straccio sporco adagiato su sassi e palazzi.

    Pazienza, si disse, se non altro faceva ancora caldo e visto che le nuvole si limitavano a starsene buone lassù, non si sarebbe dovuto preoccupare della pioggia: pure quel mattino, prima di andare a casa, una bella corsa intorno al parco della Murgia in compagnia delle cuffie non gliel’avrebbe impedita nessuno. Rovistò nell’armadietto in cerca della reflex e soppesò il teleobiettivo. Perché no? pensò, mentre puliva la lente. Con un po’ di fortuna sarebbe riuscito a immortalare qualche nibbio reale, o al limite qualche grillaio impegnato a sorvolare la Gravina. Di certo un po’ di quei piccoli falchi indugiavano ancora intorno alla forra in cerca di qualche lucertola prima di prendere il volo per l’Africa.

    Restò con il teleobiettivo in mano, indeciso, prima di rimetterlo nella borsa insieme alla macchina fotografica. No, meglio una corsa e poi a casa. Chiuso l’armadietto, si infilò il giubbotto avviandosi verso l’androne dell’uscita, fischiettando al pensiero del lungo weekend che lo aspettava fuori dalla caserma. Ben due giorni a disposizione per pescare qualche esemplare di falco e qualche altro tipo di fauna in gita turistica intorno ai sassi. Preferibilmente non impegnata.

    Salutò il piantone con un cenno e raggiunse la porta, bloccandosi coi piedi sul marmo del primo gradino: il maresciallo Canetti arrancava ingobbito, la testa china sulla strada resa viscida dalla notte umida.

    Giacomo indietreggiò come un robot con le pile scariche, si voltò e riattraversò l’androne, davanti allo sguardo incuriosito del piantone.

    «Sta arrivando Canetti per il massaggio», gli disse rallentando un istante.

    «E allora? C’è Rizzo di turno», ribatté il collega.

    «Seee e quando si fa toccare se non ci sto io… scusa scappo ad avvertire Rizzo e a cambiarmi!»

    Mannaggia, come ho fatto a dimenticarmi l’appuntamento?

    Preoccupato per la possibile figuraccia, Giacomo si cambiò di corsa e tornò nell’infermeria. Si fermò di nuovo vicino alla finestra in corridoio e cercò di respirare a fondo e assumere una posa teatrale da uomo in contemplazione delle varie smagliature grigie verniciate nel cielo.

    «Ciao, Latini. Scusa il ritardo. Che cos’ha la finestra? S’è rotto un vetro?»

    Giacomo attese qualche istante lasciando scemare la voce del superiore.

    Glissò sulla battuta o quello che era, e si limitò a inventare una risposta. «Tranquillo, maresciallo. Sarei comunque rimasto qualche minuto in più, tanto con questo tempo finisce che appena a casa uno si tuffa a letto e spreca la giornata a dormire.»

    Canetti lo scrutava con attenzione. «E faresti bene», disse l’uomo. «Non mi pare che tu abbia gli occhi di uno che ha passato la notte in mezzo alle braccia di Morfeo.»

    Il maresciallo si guardò intorno come se fosse la sua prima visita in infermeria. «Eppure», continuò, «questo posto mi pare decisamente vuoto. Ma perché voialtri quando siete di turno a fare niente non vi concedete un sonnellino bello lungo nei comodi letti dell’infermeria?»

    Giacomo abbozzò un sorriso senza commentare, pensando ai testi chiusi nell’armadietto. Da quando aveva deciso di iscriversi di nuovo all’università per la specialistica, non ne aveva fatto parola con nessuno dei colleghi mantenendo quell’atteggiamento scaramantico che già dopo pochi mesi dalla prima assegnazione, a Napoli, aveva fatto suo. Dopo quei due anni di permanenza all’ombra del Vesuvio, nel trasferimento a Matera si era portato dietro l’intero pacchetto partenopeo, corno compreso. A tempo debito, dopo la tesi.

    Al suo silenzio, il maresciallo replicò con un buffetto sulla guancia. «Suvvia, ragazzo mio. Forza, che prima sbrighiamo la faccenda prima te ne vai a casa…»

    Appena il maresciallo uscì dallo spogliatoio, Giacomo lo aiutò a salire sul lettino. Rivolse un cenno d’assenso al viso contratto del paziente e a Rizzo che usciva dalla stanza, e iniziò a lavorare sulla gamba destra dell’uomo. Mano a mano che le tensioni si allentavano il viso di Canetti si rilassava.

    «Benedetto figliolo, hai le mani d’oro; prima che ti trasferissi qui in città andavo a fare la fisioterapia da un vero macellaio, e la sciatica invece di migliorare mi costringeva a scatole e scatole di Voltaren… per non parlare di Spagnuolo…»

    Giacomo la sapeva a memoria quella storia, ma gli piaceva tanto da non stancarsi mai di sentire il modo colorito del maresciallo di maledire il collega che aveva lavorato in quella infermeria, qualche anno prima del suo arrivo a Matera. Si preparò ad ascoltare il fraseggio italo-pugliese, ma stranamente Canetti si limitò a sospirare e chiudere gli occhi, riprendendo poi a respirare come Giacomo gli aveva insegnato per rilassare il diaframma.

    Giacomo si accorse solo in quel momento delle occhiaie più profonde del solito sul volto del maresciallo.

    «Non si sente bene?», gli chiese.

    Canetti scosse la testa. «No, è che non ho dormito molto stanotte.»

    «Come mai?»

    «Nel cuore della notte ci hanno telefonato dall’ospedale e siccome mia moglie non guida, l’ho dovuta accompagnare io.»

    «E perché questa urgenza? Se non ricordo male sua moglie non è un chirurgo.»

    «Infatti, lei è ginecologa.»

    Giacomo sorrise. «Allora un lieto evento? O forse sua figlia ha avuto qualche problema con la gravidanza? A che mese sta?»

    La testa del maresciallo ondeggiò di nuovo.

    «Ottavo. Ma non si tratta di mia figlia. Lei sta benone, ringraziamo il cielo. E per la prima domanda… magari, ragazzo mio, magari fosse per un lieto evento.»

    Giacomo restò in attesa, la nuca che prese a pizzicargli all’improvviso, le mani ferme sulla caviglia del paziente.

    Questi rimase in silenzio per alcuni lunghi istanti, fissando il soffitto come per cercare di trovare le parole dipinte sull’intonaco.

    «Una brutta storia, Latini, una di quelle che non vorresti mai sentire né vedere. Ma il piantone non ti ha detto niente della chiamata di stanotte?»

    A quel punto, Giacomo aveva completamente dimenticato la gamba del maresciallo e lo guardava come paralizzato, quasi in apnea.

    Finalmente Canetti si decise a rompere l’attesa scandendo le parole che aveva trovato tra le crepe di gesso.

    «Quando siamo arrivati c’era già il tenente Ranalli al pronto soccorso, e due auto nostre parcheggiate all’ingresso. Sicuro che non hai sentito i colleghi partire dopo la chiamata? Va be’, allora mi sa che qualche sonnellino te lo sei fatto… Comunque, un ragazzo, dopo l’ora di cena, aveva chiamato per la scomparsa della sorella, che non era rientrata a casa dopo essere andata al cinema con una sua amica. E i genitori di quest’ultima avevano fatto lo stesso. Il piantone ovviamente ha cercato di rassicurarli ma ha pensato di allertare subito a casa sua il tenente, che ha mandato un’auto a perlustrare il centro.»

    Giacomo continuò a guardare Canetti, senza interromperlo.

    «Le prime ricerche non hanno dato esito ma, verso mezzanotte, una signora che abita a Montescaglioso ha chiamato da noi per dire che mentre rientrava da Matera con il marito avevano trovato una ragazzina per strada. Era ferita e in stato confusionale e girava da sola su un ponte sopra al Bradano. La donna ha aggiunto che avevano chiamato pure la croce rossa. Così il tenente è andato di corsa in ospedale mentre una pattuglia delle nostre è andata incontro alla coppia scortando l’ambulanza.»

    Canetti trasse un lungo sospiro prima di continuare.

    «La posizione della coppia di Montescaglioso è risultata subito pulita, e ora siamo in attesa di vedere se si riesce ad avere qualche elemento ulteriore dalla ragazzina ricoverata. Comunque, da quanto abbiamo potuto ricostruire, il tizio, chiunque sia quel figlio di troia, scusa Lati’, ha sicuramente colpito la ragazzina con almeno un pugno in faccia e l’ha abbandonata, forse svenuta, tra i campi. Quando lei si è ripresa, è andata in giro sotto shock, chissà che paura, povera figlia, finché quella coppia l’ha incrociata sul ponte.»

    «E a parte i pugni, cosa le ha fatto?»

    Il maresciallo scosse la testa.

    «Non lo so ancora. Sulle braccia e sulle gambe ci sono parecchi graffi e lividi, segno che deve aver girato al buio in mezzo alla campagna, prima di essere trovata. Per ora non siamo riusciti a sapere altro, speriamo che si riprenda presto e ci aiuti a capire meglio. Ho sentito il tenente poco fa, per sapere se hanno rintracciato qualche testimone, ma per adesso le notizie sono uguali a zero.»

    Giacomo annuì, e riprese a lavorare sulla gamba di Canetti, ma con molta meno convinzione del solito.

    «Ma sua moglie non le ha detto se c’è stata violenza?» chiese, convinto di conoscere già la risposta.

    Canetti fece ancora segno di no, e l’ombra di un sorriso gli attraversò le rughe.

    «Mia moglie ha escluso la violenza sessuale, per fortuna, almeno quello.»

    «Meno male.»

    «Già. Ma ne manca una…»

    «L’altra ragazzina…»

    «Bambina, direi, visto che ha dodici anni, come quella che ora sta in ospedale.»

    In quel momento squillò il cellulare del maresciallo, e Giacomo fu lesto a passarglielo prendendolo dal letto vuoto dove era stato appoggiato.

    Giacomo si allontanò discretamente, cercando di disinteressarsi dai grugniti e dai monosillabi che uscivano dalla bocca di Canetti. Ma a un tratto gli parve di sentire distintamente il suo cognome uscire sibilando dalla bocca dell’uomo. Si avvicinò di nuovo, aggrottando la fronte, una sensazione di nebbia improvvisa intorno agli occhi.

    Subito il maresciallo riattaccò, e Giacomo cercò di calmarsi riprendendo a lavorare sulla gamba, ma faticò a dissimulare l’angoscia.

    «Qualche novità, maresciallo?» si decise a chiedere.

    L’uomo annuì, massaggiandosi gli occhi. «Ascolta, Latini. Ho appena saputo una cosa che credo ti riguardi da vicino: mi hanno comunicato chi è l’altra bambina scomparsa perché sapevano che forse tu eri ancora qui… solo che non è facile.»

    Giacomo lasciò la gamba come se scottasse e Canetti sbatté di peso il calcagno sul lettino.

    «Scusi maresciallo, ma mi vuole dire che succede?»

    Canetti si alzò a sedere e gli allungò una mano verso la spalla.

    «Quel ragazzo, il fratello della bambina scomparsa... Pare che ti conosca bene. È un algerino. Lui…»

    Giacomo spalancò gli occhi e si voltò verso lo spogliatoio. Non diede a Canetti nemmeno il tempo di sillabare altro che già si trovava davanti all’armadietto con il giubbotto in mano.

    Scese di corsa le scale della caserma e si lanciò oltre l’uscita con due nomi precisi nella testa: Hassan, il ragazzo che abitava proprio sotto il suo appartamento; e soprattutto Zahira, la sorella di Hassan.

    II

    Giacomo uscì sul balcone dopo essersi fatto la doccia. Restò alcuni minuti a guardare il grigiore che imperava ovunque, con le nuvole quasi adagiate sulla macchia indistinta sullo sfondo, dove sorgevano le antiche abitazioni scavate nel tufo. Il traffico era quasi inesistente e tra una macchina e l’altra poteva sentire le voci dei pochi passanti. In lontananza riusciva a scorgere appena la collina del Lapillo, con il contorno del Castello Tramontano informe e incolore in mezzo alla tristezza che sentiva permeargli l’anima. Senza sapere perché, gli venne in mente un quadro che aveva visto una volta in un catalogo: L’isola dei morti. Giacomo rabbrividì a quel pensiero maledicendo il pittore che l’aveva realizzato, qualunque fosse il suo nome. Si sporse sul parapetto per sbirciare il balcone della casa di Hassan. Anche le piante coltivate con cura dal ragazzo, che chiunque in estate dalla strada ammirava sempre con un pizzico di ammirazione e invidia, sembravano tristi, in attesa. Giacomo stava quasi per ritirarsi quando vide il movimento del metallo. Gli attrezzi da giardinaggio che fino al giorno precedente danzavano delicati sul terriccio, adesso affondavano con violenza, come artigli di una bestia feroce che scava alla ricerca di una carogna o anche solo dell’odore del sangue.

    Giacomo rientrò in casa e si rivestì. Quella mattina, appena tornato dalla caserma, si era diretto alla porta di Hassan per chiamarlo, poi però aveva cambiato idea, magari prima una telefonata. Ma subito aveva scartato anche quella: meglio lasciargli il telefono libero, per qualsiasi evenienza.

    Dalla finestra sul lato opposto vide la macchina blu ferma sulla strada.

    Gli uomini di pattuglia davanti al piccolo condominio gli avevano riassunto la situazione al suo arrivo: dopo un veloce interrogatorio per appurare che non fosse in qualche modo coinvolto con la scomparsa, il tenente aveva convinto Hassan a tornarsene a casa e aspettare; e per assicurarsi che il ragazzo non se ne andasse in giro coi nervi a pezzi, aveva deciso di lasciare due uomini a controllare.

    Giacomo cercò di convincersi che le piante fossero sufficienti per aiutare il suo amico a distrarsi. Chiamò Canetti per informarsi sulle novità. Il maresciallo gli riferì che a breve sarebbero iniziate le ricerche con le unità cinofile per battere ogni centimetro di tufo, ogni ciuffo d’erba, ogni goccia del torrente. I cani sono già all’opera intorno alla città. Da lì fino al mare, la cercheremo, aveva detto il maresciallo con una voce poco convincente. Aveva aggiunto che due elicotteri erano pronti a perlustrare la zona lungo tutto il corso della Gravina fino al Bradano. Poi se necessario, sarebbero arrivati anche i sub. E speriamo tanto che non finisca come quella ragazzina di Bergamo, Latini… aveva concluso Canetti con un filo di voce, prima di riattaccare. Speriamo, marescià, aveva risposto lui al vuoto.

    Devo andare a cercarla insieme agli altri. Ma non subito.

    Hassan stava continuando a dilaniare il terriccio. Giacomo prese fiato, andò alla porta e scese i gradini quasi di corsa.

    Suonò il campanello una volta sola e attese. Passarono cinque minuti buoni senza alcuna risposta, ma Giacomo era sicuro che Hassan fosse lì a due passi, in piedi oltre il rettangolo di legno, combattuto tra la voglia di cercare conforto e quella di consumare da solo la sua rabbia.

    Stava per voltarsi e tornare di sopra, quando la porta si spalancò. Dopo qualche istante di imbarazzo, incapace di articolare qualsiasi parola che non suonasse stonata o vuota, Giacomo allargò le braccia. L’amico accettò subito l’invito, liberandosi nel pianto. Almeno per un po’.

    Per il resto della giornata le telefonate si susseguirono a decine, alternate ai notiziari, necessari eppure molesti come ospiti indesiderati. Giacomo si sdraiò sul letto a tarda notte e come se il suo fisico si fosse ricordato all’improvviso che non dormiva da quasi quaranta ore, sprofondò nel sonno quasi subito, con la mano tesa, inutilmente, verso l’interruttore della luce.

    III

    Poco dopo il tramonto Giacomo oltrepassò a passo d’uomo un incrocio e si fermò pochi metri più in là lasciando la macchina in folle. La ragazza teneva il pollice destro puntato nel vuoto, i capelli lunghi e lisci che ondeggiavano nella brezza del crepuscolo.

    «Agente, mi darebbe un passaggio? Purtroppo stasera sono a piedi e mia figlia è sola in casa ad aspettarmi…»

    Giacomo la squadrò velocemente, un occhio allo specchietto retrovisore per controllare se stessero arrivando altre macchine. In mezzo alla fronte della donna, all’altezza degli occhi scuri, c’era un punto luminoso che brillava come una stella solitaria. Giacomo pensò all’India, anche se il viso gli ricordava di più quello delle donne mediorientali, o magari del nord Africa.

    In ogni caso il leggero accento nella voce poteva appartenere a qualsiasi luogo della terra.

    L’unica certezza era la bellezza quasi imbarazzante della ragazza.

    Giacomo sospirò e le fece un cenno.

    «Salga, signorina. Sono un carabiniere, non un poliziotto, ma mi chiami pure agente, se preferisce.»

    «Grazie, e mi scusi. Lo so che non si

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