Caìgo
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Anteprima del libro
Caìgo - Michele Carpinetti
Pertini
Premessa
Probabilmente, esclusi i veneziani, la parola caìgo è sconosciuta ai più. La lingua italiana lo traduce con nebbia, foschia. Ma il caìgo, che avvolge le terre venete nella stagione invernale o la laguna di prima mattina, per chi lo ha incontrato e attraversato, significa suggestione e unicità. Che riduca la visibilità è evidente, che penetri nelle ossa pure. Ciò che invece ognuno di noi immagina ci sia oltre questa barriera di strano fumo freddo è qualcosa di completamente personale e soggettivo. È una metafora della vita priva di certezze, è il vagare senza un approdo sicuro, la solitudine che crea angoscia, la speranza che l’incognito si diradi e spunti presto il sole. È ciò che ben descrive le vicissitudini di Eraldo, che finendo in un caìgo fitto perse la strada, o meglio la rotta, che lui stesso aveva tracciato ma che non riconosceva più.
Prologo
Eraldo questa storia non l’avrebbe mai narrata. Per orgoglio, ma anche perché, essendo un racconto inverosimile, pochi ci avrebbero creduto. A ottant’anni suonati gli era capitato di smarrire la strada e affrontare un lungo viaggio per ritrovarla. Lo avevano salvato la sua passione per l’umanità, il forte senso di giustizia, il raziocinio. Non fu facile, per lui, trovare il coraggio di confidare quella che, sbagliando, considerava la sua sconfitta esistenziale. Alla vita straordinaria di quest’uomo si somma un’eredità di futuro per le nuove generazioni, degna di essere conosciuta. Da una parte il paradosso nel quale Eraldo precipitò in quei giorni ha messo insieme vecchie e nuove contraddizioni del vivere, dall’altra ha confermato che i grandi traguardi caratteristici di una società più giusta sono ancora lontani. Io, che sono stato un privilegiato uditore, non posso non trasmettere questa incredibile esperienza ad altri, perché possano trarne nuove speranze e benefici.
Nanni
Cambiare
Ora che sono alla fine del mio viaggio posso dirti, caro Nanni, amico mio, che non è possibile pianificare la propria vita. Puoi avere una meta, tenere una rotta, ma venti e burrasche ti portano altrove. Davo per scontato che il destino avesse scelto per me, che non ci fossero alternative. Ero convinto che le persone nascono e crescono con il loro modo di pensare e che più di tanto non possono cambiare. C’è chi gira il mondo e chi resta sempre nello stesso posto, chi incontra migliaia di persone senza comprenderne a fondo nessuna e chi potrebbe parlare con tutti conoscendo solo se stesso. Mi sbagliavo: tra un pensiero e l’altro, mentre vedi nascere la tua gondola, ti accorgi che tutto può cambiare in un attimo, contro la tua volontà. Come quel giorno, che doveva andare come mille altri e invece tutto è sprofondato.
Risveglio
Quella mattina il tempo era bello, una leggera foschia si era alzata dalla laguna e Venezia si stava illuminando. Allo Squero di San Trovaso le barche e le gondole erano già sul piazzale e il frastuono delle martellate si levava nella città ancora dormiente.
-Dobbiamo consegnare la peata oggi Sante, altrimenti el Sisto ci ammazza. Sono dieci giorni che è fermo con il trasporto, se viene in cantiere ci parli tu, io non ne voglio sapere. Quello quando non ha lavoro fa il giro di tutte le osterie, è carico già di prima mattina.
-Ma dov’è Eraldo? Di solito alle sette è già qui. Stamattina non scende? Gli scuri sono chiusi. Vai a dare un’occhiata per capire se sta poco bene.
Con una certa prudenza Sante fece le scale per salire all’appartamento di Eraldo. Non era da lui presentarsi in cantiere per ultimo, doveva dare gli ordini e mettersi a lavorare. Era capomastro e maestro d’ascia, lui, costruttore di barche e gondole. Il cantiere era la sua vita, come lo era stato per suo padre e suo nonno. Da generazioni si erano tramandati il mestiere ma lui non aveva avuto fortuna nel farsi una famiglia. Una ragazza, Nina, lo aveva fatto innamorare fino alla follia e poi la follia, Nina, la gioventù se le era portate via il tifo. Da allora si era dedicato al suo lavoro, agli amici, alla famiglia della sorella, in particolare a suo nipote Nevio, che a vent’anni aveva lasciato Venezia per fare fortuna. Quanto amava, Eraldo, la sua Venezia. E quanto soffriva per il suo degrado e il suo progressivo, inarrestabile svuotamento. Glielo ricordava, ogni giorno, il contatore della farmacia in campo San Bortolo. Non sopportava l’idea che personaggi senza scrupoli potessero trasformare la città dei suoi avi in un divertimentificio
, mentre lei
aveva bisogno di essere tutelata nel delicato equilibrio tra terra e mare, tra arte e modernità. Tradizione e conoscenza di una storia millenaria rischiavano di disperdersi. I vecchi come lui se ne stavano andando. I turisti vivevano la città come una cartolina impreziosita, niente di più. Eraldo se ne era fatto una ragione. Libri e studiosi erano diventati gli unici custodi del sapere di un popolo.
D’altronde, a chi poteva interessare che la Cattedrale di Venezia fino al 1807, prima di passare il titolo a quella di San Marco, era la chiesa San Pietro di Castello dell’isola Olivolo? Lì vissero le genti che costituirono l’antichissima confederazione delle isole dell’estuario, quando Venezia ancora non era nata.
A chi interessava sapere che il 31 gennaio di mille anni fa dodici ragazze di tutti i sestieri, che andavano spose, furono rapite dai pirati triestini? Che il vecchio Doge Candiano, dopo un inseguimento durato un giorno e una notte, riuscì, nelle acque di Caorle, a liberarle sterminando i ladroni? Da allora quello specchio d’acqua è chiamato Porto delle Donzelle e ogni anno, a Carnevale, le Marie rapite vengono ricordate e festeggiate. Eraldo avrebbe voluto urlare ai turisti assonnati che i veneziani erano stati dominatori, gente dal sangue caldo. Che sotto la dominazione austriaca, alla Fenice, durante la presentazione della prima dell’opera di Verdi Ernani, all’intonar del coro si risvegli il leon di Castiglia, si scatenò la rivolta contro i soldati, e che lo stesso Verdi fu portato a spalla in piazza San Marco e festeggiato fino all’alba.
Storie vecchie e vecchissime, pensava Eraldo, che si erano perse nella bruma come una barca tra i ghebi della barena.
Sante afferrò la maniglia e si accorse che la porta era chiusa a chiave. Bussò energicamente più volte, chiamando Eraldo a gran voce.
Silenzio. Sante attese qualche minuto e, mentre riscendeva le scale, dall’appartamento si udì la voce del vecchio Maestro.
-Chi mi vuole?
-Come chi ti vuole? Si può sapere perché stamattina non scendi, stai male?
-Ma chi è, si può sapere?
-Ohi! Qua Eraldo è partito con la testa, non mi riconosce più! Apri la porta vecchio pazzo! Chi vuoi che sia? Il tuo compare, Sante, quello che ti ha sopportato per quarant’anni in questo cantiere umido e sporco a fare gondole, sandali e peate.
Sulla scala si erano radunati tutti gli operai e perfino Ginetta la sarta, che abitava lì vicino, era venuta a vedere cosa stava accadendo.
Nel silenzio irreale dell’attesa si udì la chiave girare e la porta aprirsi. Sante entrò velocemente.
-Cosa succede Eraldo?
Eraldo non era in cucina. Una sedia in mezzo alla stanza era rovesciata. Il lampadario oscillava. Sante lo fermò con una mano e attraversò la stanza. La televisione era accesa e sintonizzata su un canale di storia. Alcuni cassetti erano aperti. Disordine un po’ dappertutto.
Sante trovò il compare in camera, intento a riempire una valigia con indumenti presi a caso dall’armadio, con una sospetta e inspiegabile fretta.
Si girò di scatto. Aveva una ferita sulla tempia destra che sanguinava.
-Eraldo cosa ti sei fatto, dove stai andando? Perché non mi aprivi? Sei impazzito?
-Quante domande, ostia! Qua la situazione è gravissima, l’ordine è arrivato e non c’è un minuto da perdere, per il bene dell’Italia e di tutti.
-Ma di che ordine parli? Fermati un attimo. Si può sapere che ti succede?
-Molto semplice signor… signor?
-Ma che cavolo, sono io! Sono Sante… non mi riconosci?
-Va ben. Chiunque tu sia devi procurarmi una macchina. Anzi, dobbiamo andare a prendere LA macchina. Io so dov’è, ti ci accompagno. L’attentato ha fatto precipitare ogni cosa.
-Macchina, attentato… ma di cosa parli? Io vado a chiamare il dottor Vianello!
-No, fermo! Non ho bisogno di dottori ma di partire prestamente.
-E dove dovresti andare, se è lecito chiedere?
-A Roma. Altro non posso dire. A Roma.
-Mammasantissima, qua siamo al delirio.
Sante uscì a prendere un po’ d’aria sulla scala, guardando i suoi amici e colleghi che scuotevano la testa.
- È inutile che mi guardiate, serve un dottore, uno di quelli che frequentano il manicomio.
-Vado a chiamare qualcuno, disse Gianni avviandosi verso il cantiere.
Nel mentre alcuni passanti, notato il movimento, chiesero di Eraldo, non vedendolo in riva a salutare gli astanti come ogni mattina. Gente che, in una vita a Venezia, aveva visto crescere e invecchiare, ragazzi con i quali abitualmente scherzava.
Temevano che il vecchio Eraldo se ne fosse andato. Aveva passato l’ottantina, anche se continuava ad apparire in forma. Lui stesso, del resto, si riferiva a se stesso come a «un vecchio che aveva vissuto intensamente, prossimo a raggiungere il capolinea».
Lo ripeteva spesso, quasi fosse un mantra, insieme all’altro suo chiodo fisso: riuscire a tramandare il suo mestiere. Di certo, non pensava che uno dei problemi fondamentali di Venezia fosse l’acqua alta.
Paratoie
Eraldo, uomo attento alla sua città, il problema non se l’era mai posto. Quando venne a sapere che per Venezia i secolari problemi legati all’acqua alta si sarebbero presto risolti, alzò le spalle rinviando la questione. E la questione si ripresentò qualche mese dopo, quando il suo amico Elio lo portò al cantiere dell’opera ormai famosa con il nome di Mose.
Quale fosse la priorità, per Eraldo, era un mistero. Siamo una sorta di isola in mezzo al mare, pensava, è ovvio che l’acqua entri in città. Lo fa da sempre, tant’è che sono stati i veneziani ad adattarsi a lei e non il contrario. Eraldo sapeva che il disagio lo urlavano i commercianti, i ristoratori, quelli che di perdere giornate di guadagno non ne volevano sapere.
-Apritevi un negozio in terraferma o, meglio, nell’arido sud se volete l’asciutto, affermava spesso, da queste parti salso e umidità fanno parte della storia, bellezze!
Per i turisti, poi, l’acqua fino al ginocchio in piazza San Marco era un’attrazione degna di un parco giochi. Come il contadino aspetta la stagione per seminare e raccogliere, Eraldo sapeva che di tanto in tanto, quando la luna cresceva ed entrava vento di scirocco, l’acqua si insinuava in città e toccava prepararsi. Niente mobili ai piani bassi e il gioco era fatto. Si era davvero stupito nel leggere che per mettere queste porte all’ingresso delle bocche di porto sarebbero serviti miliardi di euro, quasi quanti erano serviti per costruire Venezia nei suoi tanti secoli di storia. Non c’erano altre cose da fare con tutti quei soldi? Proprio non capiva.
-Non capisci Eraldo?, gli ripeteva Elio, sono delle grandi porte che si alzano e fermano la marea. L’acqua cresce ma si trova di fronte una diga che la blocca. La più grande opera idraulica dell’umanità, perché mica è una diga fissa di cemento. La diga la devi fare mobile, perché le navi devono pur passare. E non si vedono, Eraldo, questo è il bello, non si vedono!
-Scusa Elio, ma tutta ‘sta roba serve a fermare l’acqua che entra a Venezia da mille anni? Guarda che se i nostri antichi avessero voluto stare all’asciutto, avrebbero costruito la città sui colli Euganei. Invece hanno bonificato un pezzo di mare e ci hanno costruito sopra i palazzi. I canali e la barena, fino al mare, fanno tutti parte di un sistema studiato come i vasi comunicanti. Non possono fermare le maree. Se tu fermi l’acqua non circola più niente, non si rigenera più niente, muore la natura e si imputridiscono calli e canali. Torna la peste!
-Io non so chi sia il genio idraulico che ha ideato questo prodigio, continuò Eraldo. Ti ricordi il vecchio Venanzio?
-Si, me lo ricordo, aveva cent’anni che noi eravamo ragazzini.
-Aveva cent’anni e la saggezza millenaria dei veneziani. Diceva sempre che Venezia è come il cuore dell’uomo. Per farlo funzionare deve arrivarci il sangue, attraverso le vene. Se si tappa la vena sei spacciato, e succederà anche a Venezia se le togli l’acqua. Era arrabbiato con i nostri avi che avevano ridotto le bocche di porto e deviato i fiumi per farli sfociare fuori