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La villa dei misteri
La villa dei misteri
La villa dei misteri
E-book518 pagine7 ore

La villa dei misteri

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Info su questo ebook

Dopo molte traversie con il proprietario della vecchia casetta in affitto, Elizabeth, una giovane casalinga di Innsbruck, spera di trovare un modo per andare finalmente via da lì. Un sabato pomeriggio di ottobre trova una strana lettera: a scriverle dalla Sicilia è una sconosciuta zia, che si firma con il nome di Katherine Allen. A quanto pare, la lettera sembra essere capitata proprio nel momento giusto.

Un po’ incredula e piena di dubbi, Lizzy decide così di trasferirsi con il marito Eric e i suoi tre piccoli bambini, John, Caroline e Lucile, in Sicilia, nei pressi di Casteldaccia. Ben presto, però, la giovane donna inizia a percepire una misteriosa presenza che si insedia radicalmente nelle loro deboli menti, portando alla luce un passato incredibile e sconvolgente a lei del tutto oscuro.

Elizabeth deve fare in fretta a ricomporre i tasselli mancanti del mosaico, prima che sia troppo tardi per lei e la sua amata famiglia...
LinguaItaliano
Data di uscita24 dic 2018
ISBN9788827864692
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    Anteprima del libro

    La villa dei misteri - Giuseppe Cinisi

    Indice

    La villa dei misteri

    Prologo

    Due mesi dopo

    Parte prima

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    9

    10

    11

    12

    Tre settimane dopo

    Parte seconda

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    9

    10

    11

    12

    13

    14

    15

    16

    17

    18

    19

    20

    21

    22

    23

    24

    25

    26

    27

    28

    Parte terza

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    Parte quarta

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    9

    10

    11

    Epilogo

    Nota dell'autore

    Presentazione

    Per essere informato sulle novità visita:

    www.giuseppecinisi.altervista.org

    Tutti i diritti riservati.

    Tutti i diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi microfilm e copie fotostatiche),

    sono riservati per tutti i Paesi e concessi solo con autorizzazione autografa dell'editore.

    Copyright - 2019 Giuseppe Cinisi

    Prima edizione digitale 2019

    Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.

    E' vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    A miei zii, Salvatore e Domenico,

    che ci hanno lasciato troppo presto.

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    quel che forse sembrerà più strano,

    ci vuole tutta la vita per imparare a morire».

    Seneca, De brevitate vitae

    La villa dei misteri

    Normal 0 14 false false false MicrosoftInternetExplorer4

    giorno di Sant’Antonio abate,

    mani ignote deposero sul torno,

    cioè sulla grande ruota in legno

    che si trovava all’ingresso della Casa di Carità di San Michele

    fuori le mura, a Novara,

    un neonato di sesso femminile,

    scuro d’occhi, di pelle e di capelli:

    per i gusti dell’epoca, quasi un mostro».

    Sebastiano Vassalli, La chimera

    Il nero della notte si espandeva a macchia d’olio sulla parte nord occidentale della Sicilia. All’orizzonte, grossi cumulonembi scuri, carichi di pioggia, si avvicinavano impetuosi oltre le coste di una villa antica, ubicata alle porte di un piccolo paesino palermitano.

    Le raffiche di vento, prolungando di gran lunga il loro ritmo, facevano ondeggiare violentemente e senza pietà gli alti alberi secolari, strappavano la sabbia dalla superficie del terreno e la sollevano in alto, formando così dei vortici travolgenti, mentre si udiva lo sciabordio delle onde del mare in tempesta che si riversavano inarrestabili sul bagnasciuga.

    Dal cielo si materializzavano luci abbaglianti e istantanee, disperdendosi poi nell’atmosfera, come un’accesa lotta infinita di serpenti immaginari. I fulmini perpetravano fin dentro le stanze oscure della lussuosa villa in pietra e mattoni. Soltanto una era flebilmente illuminata.

    Una candela di cera d’api, perlopiù consumata, poggiava malamente sopra un piccolo candeliere in argento basso, rischiarando per metà l’enorme studio.

    Una donna emaciata, dal viso serio e pallido, guardava immobile e con occhi inespressivi fuori dalla finestra chiusa. Vestiva in modo elegante un lungo soprabito nero che la copriva interamente, fino quasi a mimetizzarsi nell’oscurità, mentre una cuffia nera le avvolgeva il capo, da cui scendeva un velo trasparente che le nascondeva l’intero volto.

    Sembrava malata, prossima alla morte. Lo sapeva. Stava aspettando con ansia questo delicato momento. Non poteva perdere altro tempo.

    Con uno scatto fulmineo chiuse le tende di velluto rosso porpora e andò ad accomodarsi su una scranna di legno.

    Ora stava seduta di fronte a uno scrittoio di castagno.

    Pensava...

    La mente le aveva accumulato tanti pensieri, speranze, desideri. Tutto in un solo istante.

    Sullo scrittoio poggiavano diverse risme di fogli, di lettere intime, che aveva precedentemente classificato per anni. Dalla biblioteca scelse a casaccio un vecchio libro rilegato di poca importanza e ne cominciò a incollare la sua storia.

    Alla fine, a lavoro ultimato, strinse forte tra le mani una delle sue fotografie preferite, ormai ingiallita dagli anni. Delle persone, con dietro lo sfondo di un mare apparentemente calmo, sorridevano felici e contente alla vista dell’unico scatto che le ritraeva insieme.

    Le venne in mente di metterla sopra la fiammella traballante del moccolo, bruciandola per sempre, ma allo stesso tempo non poteva.

    La inserì nell’ultima pagina del suo libro.

    Sorrise arcigna.

    Dopodiché prese a casaccio un foglio di carta, bianco e pulito, e afferrò una lunga penna d’oca che intinse con fervore nell’inchiostro nero.

    Dopo tante esitazioni era pronta a scrivere qualcosa di importante a qualcuno.

    Due mesi dopo

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    di cui son fatti i sogni; 

    e nello spazio e nel tempo d’un sogno 

    è racchiusa la nostra breve vita».

    Shakespeare, La tempesta (Prospero: atto IV, scena I)

    1

    Nonostante fosse terminata da poco l’estate, l’aria era già piacevolmente fresca. Finalmente niente più caldo asfissiante per i prossimi otto mesi, ma solo un piccolo e leggero venticello che di tanto in tanto faceva svolazzare in aria qualche foglia giallo-rossa rinsecchita di qua e di là, spargendosi per le ampie strade di Innsbruck, con aria decisamente autunnale.

    Era il tardo pomeriggio di un sabato ottobrino, quando Elizabeth uscì fuori con la vecchia ramazza a spazzarle via; ma prima che tornasse dentro, con la coda dell’occhio, guardò la bocca della buca delle lettere rosso fuoco aperta all’ingiù.

    Da fuori intravide chiaramente un qualcosa di una tonalità che andava dal giallo scuro al marroncino.

    E chi sarà mai a mandare delle lettere a quest’ora del pomeriggio? sussurrò tra sé con fin troppa convinzione. Forse perché raramente ne vedeva qualcuna che fosse indirizzata a casa sua alle tarde ore della giornata?

    Forse il postino ritardatario si è dimenticato a lasciarmela in mattinata e ha pensato bene di ripassare dopo, senza che mi accorgessi minimamente del suo passaggio affrettato?, si domandò.

    La giovane donna, dai lunghi capelli biondi lucidi, si stava avvicinando cauta, nel momento in cui venne interrotta...

    «Buon pomeriggio, signora Walton», gridò puntualmente la sua dirimpettaia con una faccia da pantegana. «Bella giornata, eh?».

    Elizabeth si voltò verso la donna, nascondendo il più possibile la sua espressione irritata, forse più per l’eleganza del vestiario che per la sfacciata parlantina che usava solitamente con le signore di basso rango; come lei, d’altronde.

    «Buon pomeriggio a voi signorina Boltzmann. Comunque confermo», le rispose lei con tono piuttosto pacato, e tornando a rimuovere altre foglie secche che si erano annidate nuovamente sul marciapiede. Con quelle parole si era allontanata furtivamente dalla buca delle lettere. «Oggi è una giornata abbastanza gradevole» aggiunse poi, intanto che la signorina Boltzmann era concentrata a indossare delicatamente i suoi guanti scuri di pelle, «niente caldo, buona soprattutto per fare delle ottime uscite».

    La sua risposta alla domanda della vicina non era del tutto una provocazione, bensì un’indignazione, perché conoscendola bene, Elizabeth sapeva che prima che terminassero ogni conversazione raccontava comunque le sue cose private (tipo cosa faceva e dove andava), anche se delle volte se ne vantava più del necessario, facendole capire chiaramente che lei poteva permettersi questo e altro. Come se di lei gliene potesse importare qualcosa.

    «Già», alitò l’inquilina, alzando ancora una volta la voce fino quasi a urlare: tattica eccellente che usava spesso, in modo da richiamare l’attenzione di curiose signore sfaccendate. Quello era uno dei pochi quartieri singolari, dove le casalinghe passavano gran parte del tempo ad allungare le orecchie oltre la siepe del giardino per origliare i vicini.

    «In effetti sto andando al Tiroler Landestheater con due amiche a vedere un’opera straordinaria che non proponevano da anni, l’Aida di Verdi. Se la mia mente non m’inganna... ricordo che sono passati esattamente dodici anni dalla prima rappresentazione e io la ricordo come fosse ieri... Eh sì, da allora ne è passato di tempo... ma sono lo stesso contenta che l’abbiano aggiunta in scaletta in questi giorni, perché tra l’altro proprio oggi ho compiuto, ahimè, gli anni».

    La donna cantilenò malinconica e allo stesso tempo sbuffando sonoramente, come se in qualche maniera fosse stata Elizabeth a porgerle una simile domanda con un che di prepotenza.

    «Rimarrei ancora un po’ a chiacchierare con voi, ma visto che il cocchiere è pronto posso andare, anche perché vorrei poter arrivare possibilmente in anticipo. Non voglio fare aspettare ancora quelle due...». Con un sorriso fulmineo le mostrò i denti luccicanti. «Comunque vi saluto. Vi auguro ancora una splendida giornata», concluse lei, aggiustandosi in continuazione il soprabito di seta di colore grigio perla. Dal suo portamento maestoso e nobile, Elizabeth quasi si ritrovò degli occhi apparentemente strabici.

    «Buona giornata e... e ancora tanti auguri», salutò Elizabeth in un soffio, mentre la vicina con passo sostenuto saliva con impeto sul suo calesse in legno scuro.

    Elizabeth sperò tanto che la chiacchierona, conosciuta molto bene dal vicinato, non si fosse accorta della strana eccitazione che mostrava per quell’ignota lettera.

    Meno male che era andata via... e, con lei, anche le curiosone del quartiere si erano dissolte rapidamente. Adesso vide che erano pronte a sorbirsi un altro discorso succulento. (Le successive vittime che avrebbero preso di mira: un’anziana coppia di coniugi benestanti).

    Ma quanto odiava quella strada principale del centro storico di Innsbruck? Nessuno che si facesse gli affaracci propri. Le persone erano una più curiosa dell’altra, ma sicuramente non quanto la sua vicina di casa: lei superava chiunque.

    Ma in fondo non c’era da meravigliarsene, perché l’agglomerato urbano contava ben più di trenta mila abitanti. La maggior parte di loro scendeva dai paesini limitrofi per venire in centro, molti per lavorare, altri per sbrigare le proprie faccende, per non parlare poi dei molteplici studenti universitari che si recavano ogni anno da quelle parti.

    Quanto avrebbe desiderato un posto idilliaco dove regnasse tutt’intorno solo pace e silenzio... Immaginandoselo si sentì apparentemente più tranquilla e serena.

    Disgustata, Elizabeth distolse gli occhi da quelle stupide vicine in fermento, intente a comprendere i poveri vecchietti in un’accesa discussione sull’uscio di casa (probabilmente nell’ora della riunione del vicinato ne avrebbero dette di ogni), e con grandissima foga si lanciò finalmente di fronte alla buca delle lettere.

    Poggiò la scopa sul suo busto esile, tirando fuori quella che sembrava una normalissima busta. Senza che l’aprisse, come sua abitudine, la voltò di scatto e l’avvicinò in viso con mano fremente, leggendo le informazioni principali sul retro della busta. Elizabeth voleva sapere precisamente chi fosse il mittente e voleva capire da dove provenisse quella lettera.

    Mentre stava afferrando alla leggera quelle piccole parole, offuscate in gran parte dal luccichio del sole e per mancanza delle lenti, all’ultima riga non poté fare altro che spalancare di getto gli occhi increduli e febbrili, fissandola con un certo sgomento, proprio come faceva solitamente di nascosto con le sue vicine.

    Mrs. Elizabeth Allen

    67, Herzog-Friedrich-Straße Österreich

    Katherine Allen (Sizilien, Italien)

    Ci volle più di un minuto intenso prima che Elizabeth rimuovesse lo sguardo confuso dalla busta, e la prima parola che la sua mente potesse analizzare con facilità fu... ‘Italia’, seguita subito dopo dal nome... ‘Katherine Allen’, un cognome curioso e stranamente familiare.

    Chi può mai essere? si chiese dubbiosa.

    Lesse e rilesse con accuratezza quello che sembrava assolutamente la copia esatta del suo cognome. Poi guardò con attenzione se vi fossero degli errori di ortografia. Niente, non vi era nessuna imprecisione: né una l in meno né una n in più.

    Adesso non riusciva a capire se tutto questo fosse causato dalla sua testa dolorante che le giocava brutti scherzi o fosse davvero la pura e sacrosanta verità. Insomma, a quanto pareva, a sua insaputa, esisteva ancora qualcun altro nel mondo che portava il suo stesso cognome, per di più in Italia e ancor di più una donna.

    Senza rendersene conto, Elizabeth ragionò in fretta e furia sul motivo di tale desiderio di sapere e rabbrividì.

    L’indirizzo, appurò, era scritto indubbiamente con una speciale penna d’oca intinta nell’inchiostro nero di seppia. Quei piccoli caratteri, quasi illeggibili, impressi dietro la busta gli erano tuttavia sconosciuti. Però di una cosa ne era certa. Il francobollo che vi figurava accanto era l’effige di un monarca. Forse si trattava di Umberto I di Savoia, o qualcosa del genere. Sapeva di non sbagliarsi perché era certa di averlo visto più volte su alcuni quotidiani nazionali, menzionato spesso per le sue imprese italiche. Quindi non stava immaginando, né sognando. Era davvero una lettera proveniente dall’Italia. I postini non avevano sbagliato il suo indirizzo di posta. Per lo meno nel capire che non fosse assolutamente uno scherzo si tranquillizzò un po’. Tuttavia si sentiva ancora tesa, ritta come un tronco di un albero, pronta a farsi abbattere istantaneamente in due da una scure.

    Si sforzò quanto meno a ricordare cosa c’entrasse lei con quella nazione, oltre al fatto di esserci nata ben trentuno anni fa.

    Gli unici familiari e parenti italiani che aveva – se non ricordava male – erano i suoi nonni, deceduti poco prima che lei nascesse. Almeno così seppe da qualche aneddoto narrato dai suoi genitori. Infatti, quando erano ancora in vita le raccontarono, anche se con malavoglia, che loro erano andati via dalla penisola italiana poco dopo che nascesse lei, appena aveva compiuto il secondo anno di età. Elizabeth non ricordava il perché, né tanto meno il motivo (anche se con certezza aveva sempre pensato per una grave epidemia). Ovviamente lei non ricordava nulla dei suoi nonni. E come poteva? I suoi genitori erano sempre stati così avari della loro giovinezza. Non le raccontavano mai niente. Elizabeth spesso e volentieri chiedeva delle loro radici familiari, o quanto meno cercava di intraprendere qualche dialogo sulla loro vita passata, ma senza un preciso motivo loro cercavano sempre di cambiare rapidamente discorso. Elizabeth si era chiesta mille volte il motivo di ciò, forse la loro infanzia non era stata tra le più belle o, forse, magari non avevano davvero nulla da raccontarle. Chi vivrà vedrà... pensò con un sorriso. A ogni modo, alcuni ricordi erano stranamente indelebili, colorati, nitidi e difficili da rimuovere dalla mente. Ma al momento non riusciva a ricordare nulla se non un vuoto nero, come se si trovasse a vagare eternamente nello spazio infinito. Forse era una strana distrazione dovuta a quelle parole. O forse no. No che non lo era. Per il momento aveva le idee troppo confuse. Si asciugò, quindi, il viso madido di sudore e si ricompose davanti agli occhi degli altri, cercando di calmare le tante emozioni, per lasciarsi subito indietro il passato e tornare alla realtà. Il passato non poteva tornare più. Il presente lo stava vivendo. E il futuro, invece, lo avrebbe aspettato a mani aperte.

    2

    Hubert Schmidt, l’avvocato più avido di tutta Innsbruck, contemplava in modo vacuo il suo grande guardaroba in noce. È sempre un enigma vestirsi durante il cambio di stagione, pensò statisticamente lui.

    Non appena fu contento nell’abbinare pantaloni attillati scuri e camicia inamidata chiara, si girò la cravatta intorno al collo e mise sopra una giacca in tweed.

    Uscì di casa e, con in mano la sua inseparabile valigetta, salì sul suo nuovo calesse, che la settimana prima gli era costato una fortuna. 

    Aveva speso molto più di quanto si fosse aspettato. Ma alla fine ne era valsa davvero la pena, si era detto compiaciuto. L’altro calesse l’aveva rivenduto ad un amico strizzacervelli a una cifra modesta.

    Hubert fissò attentamente gli interni, come se quella fosse la prima volta che ci mettesse piede. Essi erano addobbati con notevole eleganza: sedili imbottiti in pelle marroncino e cuscini in raso morbido offrivano un piacevole conforto, il pavimento era lucido e l’ottone scintillava alla luce tenue del sole che entrava dal finestrino, che in un secondo momento avrebbe oscurato con una tendina.

    «Signore, prego».

    «Sì».

    Hubert entrò, appartandosi in un angolo, quando vide il cocchiere chiudergli delicatamente la portiera. Hubert notò il suo viso asciutto e teso. Forse oggi ha avuto problemi in famiglia? si domandò.

    Benjamin accompagnò l’avvocato in quel terribile tribunale in rovina, che Hubert tanto odiava, proprio all’angolo del Triumphpforte, portone ad arco romano, eretto per volere di Maria Teresa nel 1765, in occasione del matrimonio del figlio Leopoldo.

    «Signore, sempre al solito orario?» chiese il cocchiere esitante, non appena fece scendere il suo padrone dalla lussuosa carrozza.

    «No, Benjamin. Dopo la causa, ho una gatta da pelare che mi aspetta».

    Hubert rise, mentre Benjamin accennò appena un sorriso.

    «Benjamin cosa c’è che non va? La vedo turbato».

    «Niente, signore. Solo un po’ di stanchezza».

    Dopo aver concluso l’udienza preliminare, con la confusione che gli martellava la testa, uscì frettolosamente dal tribunale e si diresse lungo la strada.

    «Sto arrivando...», borbottò tra sé.

    3

    Elizabeth era indecisa se aprire o meno la busta che teneva tra le mani. Era curiosa di scoprire il suo contenuto... ma senza che muovesse il capo, si accorse improvvisamente della presenza di qualcuno alle sue spalle.

    «Salve signora Walton», disse con spavalderia una voce a lei alquanto familiare, e allo stesso tempo vedeva la sagoma scura del busto dell’uomo piegarsi in segno di ossequio con in mano un cappello.

    Aveva già in mente chi fosse.

    Fece alcuni respiri profondi e si voltò delicatamente, nascondendo subito e al meglio la busta che teneva stretta tra le sue piccole mani, arretrandole poi dietro la schiena.

    «A voi! Signor Schmidt» rispose lei, in modo acido, appena lo vide. «Come mai da queste parti? A cosa devo ancora questa vostra cara visita?».

    Il signor Schmidt era un uomo molto conosciuto in città per il suo lavoro, ma poco apprezzato dalla gente – tra quelle in lista compariva anche Elizabeth.

    Portava probabilmente più di sessant’anni, aveva una corporatura robusta e tozza, era sempre ben vestito e indossava spesso un completo in tweed scozzese, dal filato grigio e nero con un motivo spigato, accompagnato sempre da un cappello in feltro nero e una cravatta di seta rosso porpora. I suoi grossi occhioni neri alla luce del sole brillavano di collera e teneva un viso massiccio e inanimato come un pezzo di marmo di poco valore.

    A Elizabeth, più che di un avvocato, aveva sempre dato l’impressione di un ottimo pagliaccio da circo. Al solo pensiero Elizabeth rise tra sé, perché alla fin fine immaginandoselo in quelle vesti ci stava più che bene.

    «Signora Walton questa non è una vera e propria visita», cominciò lui, scandendo ogni singola parola. «Visto e considerato che stavo scendendo da queste parti per poter tornare nel mio studio, non mi sembrava corretto passare oltre, senza degnarvi almeno di un saluto formale. Sappiate che per me è sempre un grande piacere poter interloquire con voi. Non crediate che un signore come me possa mettere da parte la buona educazione per una signora come voi».

    Il signor Schmidt corrugò le evidenti rughe sul volto, costringendosi a un’espressione di gioia che parve costargli parecchio impegno.

    La caratteristica contrazione della muscolatura respiratoria delle sue spalle fece capire a Elizabeth che aveva percorso un centinaio di metri a piedi.

    Con delicatezza depositò sul marciapiede la sua piccola valigetta di cuoio, tendente al marrone brunastro, di fronte alle sue scarpe di pelle laccate di nero.

    Se Elizabeth non si fosse accorta del suo gesto, le avrebbe dato l’impressione che gli stesse rifacendo una seconda riverenza. Qualche secondo dopo vide l’uomo che cominciò a frugare nel piccolo taschino destro dei suoi pantaloni scuri, da dove tirò fuori un quadrato bianco in cotone, con il bordo merlettato e con ricami in rosso. Questi lo spiegò in due, tamponandolo sulla sua fronte bassa e rugosa, che era decisamente imperlata di sudore. Dopo essersi asciugato le ultime gocce sulle tempie, senza ripiegarlo, lo ricacciò riluttante dentro il taschino, riprendendo in mano nuovamente la valigetta.

    Elizabeth inizialmente pensò che dovesse consegnargli qualche stupido foglio da far firmare al marito. Per sua grande fortuna non fu così. Almeno, non ancora.

    «Strano però, perché difficilmente venite da solo da queste parti senza un sostegno morale. Cioè, intendevo... mi riferisco al fatto che non siete venuto accompagnato dal vostro più fidato cavallo».

    «Naturalmente. Siccome ho chiuso una causa molto prima del previsto, ho preferito fare quattro passi a piedi che male non mi faranno di certo. Quest’oggi Bulus riposerà nella sua baracca».

    La mia casa è una baracca, voleva aggiungere Elizabeth con tanto di obbiezione, ma riuscì a contenersi.

    Vagamente sembrò che Hubert avesse gettato una veloce occhiata furtiva alle mani ossute di Elizabeth, ormai ben nascoste. Poi congiunse i suoi occhi in men che non si dica, fingendo quanto meno di non aver visto niente. Anche Elizabeth in qualche modo cercò di bluffare di fronte ai suoi grandi occhioni bramosi di curiosità.

    «Signora Walton, state poco bene? Vi vedo strana. Non è che per caso avete male alla schiena?».

    Il signor Schmidt fece un ampio cenno con il capo, indicandola malignamente.

    «Sentite signor Schmidt, so dove volete andare a parare ma questi saranno pure affari miei, e poi credetemi non ho assolutamente niente, sto più che benissimo... state tranquillo... adesso vorrei che andaste subito al dunque perché avrei cose più importanti da sbrigare».

    Alla sua improvvisa alzata di voce il signor Schmidt si ritrasse rapidamente, stringendo in mano quello che ne restava del povero cappello. Il suo respiro era ancora a tratti irregolare, ma meno affannoso.

    «Ah, io no, non pensiate male... non volevo assolutamente... vogliate scusarmi signora Walton... credevo aveste davvero male alla... io...». Di come parlava sembrava che avesse ingoiato per intero un rospo immenso.

    Il signore in questione, si disse Elizabeth, voleva in qualche modo scoprire cosa teneva ben nascosto tra le sue mani, inventando bizzarre domande, come quella del mal di schiena. Non pensava che anche degli uomini di ‘grande classe’, come si definiva lui, potessero arrivare così in basso, ma molto in basso.

    «Ma no, figuratevi non è niente. Allora volevate per caso chiedermi qualche cosa? Non penso che siate venuto fin qui solo per salutarmi, no? Penso che vogliate dirmi sicuramente qualcosa, ne sono certa. Allora chiedete pure, sono tutta orecchi», chiese lei, anche se ne conosceva bene il motivo. Ma non lo lasciava mai a intendere. Era già pronta a sentire e risentire nuovamente a distanza di qualche giorno il suo breve ma insolito e noioso monologo, studiato malamente a memoria. Di tanto in tanto cercava anche di modificare e cambiare qualche frase che riteneva aver ripetuto centinaia di volte, forse per non risultare al suo interlocutore più retorico di quello che era in fondo.

    «Sì certo, certo... ehm... ecco volevo dirvi una cosa riguardante anche vostro marito Eric», fece un breve intervallo, fingendo di trovare le parole...

    Finalmente ci siamo, aggiunse lei, interiormente.

    ...le sue labbra sussultarono e riprese a parlare. «Ecco, ultimamente, speravo che in questi giorni si facesse vivo nel mio studio per discutere di quell’affarone molto importante... che anche voi conoscete abbastanza bene. Invece niente», disse abbassando rapidamente la voce, in modo che potesse arrivare solo a lei. Con ciò Elizabeth dovette avvicinare a malincuore il corpo esitante verso il suo, stringendo istintivamente la busta che teneva ancora dietro, stretta tra le mani. Per ascoltarlo meglio, cercò di inclinare leggermente la testa da un lato, allungando l’orecchio destro.

    «Allora, dicevate?».

    «Scusate, ma purtroppo ho dovuto abbassare la voce perché, come certamente sapete, soprattutto la gentaglia di questo quartiere aspira sempre a poter ascoltare di nascosto qualsiasi cosa. Anche la più banale. La nostra deve rimanere possibilmente un segreto. Parlare di queste cose per strada non credo sia del tutto efficiente. A volte penso che possiamo soltanto peggiorare le cose».

    Hubert sì voltò, adocchiando chiunque passasse a piedi da lì, assumendo chiaramente per ognuno di loro grottesche espressioni di perplessità. Molti dei passanti se ne accorsero, ma stranamente, con altrettanta curiosità di Elizabeth, evitarono quello sguardo con assoluta indifferenza, senza neanche gettare verso di lui occhiatacce del tipo "ma-che-ti-ho-fatto? oppure ma-chi-ti-conosce!".

    Prima di rispondergli, Elizabeth indugiò alle sue ultime battute.

    Due frasi le balenarono per la mente. Frasi che, secondo lei, non facevano assolutamente parte del suo repertorio linguistico, poiché quelle le erano totalmente sconosciute al copione. Assolutamente nuove: "La gentaglia di questo quartiere aspira sempre a poter ascoltare di nascosto qualsiasi cosa e addirittura a volte penso che possiamo soltanto peggiorare le cose".

    Ma cosa voleva cercare di farle capire il signor Schmidt? Perché uscirsene così dopo un mese di continue torture?

    In realtà, i due, non avevano ancora affrontato l’argomento in questione, specie sulla gentaglia curiosa e spettegolatrice che non solo occupava il quartiere di Elizabeth, bensì l’intero paese.

    Nonostante tutto, avevano già affrontato con discrezione l’indecorosa situazione molte volte davanti casa. Anzi, ricordò Elizabeth, soltanto in qualche occasione lo aveva dovuto fare entrare in casa, certamente non per suo piacere, piuttosto perché pioveva a dirotto e non poteva farne a meno.

    Ahimè, non ci risparmiava neanche quelle giornate uggiose che per me erano sacrosante, perché per una volta potevo non guardare in faccia le invadenti della casa accanto, pensò. Però in questo momento non poteva avere scuse, il tempo era tutto sommato gradevole e soleggiato.

    Ripensandoci, Elizabeth provò un odio verso i suoi confronti. Eppure, in questo caso aveva palesemente ragione, non voleva neanche lei che le loro discussioni andassero in bocca alle vedove nere, ne andava del suo futuro, quindi si accontentava – come diceva lui – del segreto, giacché per lei sarebbe stato senz’altro un trauma bello e buono, in un certo senso. Meno male, per sua fortuna, quelle tuttora erano impegnate altrove.

    Dopodiché ci fu una lunga pausa di imbarazzo, rotta poi dall’indesiderato mormorio di Elizabeth.

    «Ho sentito correttamente... un segreto? Voglio veramente sapere cosa intendiate fare», sbottò confusa. «Che cosa volete dire "che la gente origli e che noi possiamo peggiorare le cose"?». Elizabeth voleva sentire cosa aveva effettivamente da aggiungere.

    Invece niente, fece finta di non darle ascolto, ritornando a rimuginare sul solito discorso.

    «Signora Walton sicuramente vostro marito Eric sarà già al corrente di alcune cose. Non capite male, mi riferisco alla mia stessa persona, cioè per capirci meglio, vanno girando voci piuttosto insolite sul mio conto... ecco, su alcune cose non vere... spero non le abbia prese sul serio quelle sciocchezze. Praticamente ho anche notato che negli ultimi tempi mi evita e di conseguenza mi ritrovo a parlare nuovamente con voi. Penso che abbia qualcosa da dirmi... e poi sarebbe anche l’ora di parlare tra uomo e uomo. Io non voglio male a nessuno... né tanto meno alla vostra famiglia».

    A quel punto sembrava volesse continuare a dire qualcos’altro, ma poi ci ripensò in tempo, e senza che nessuno lo interrompesse si ammutolì improvvisamente.

    «Sì? Cioè non ho capito bene, spiegatevi meglio. Eric sarebbe al corrente di che cosa?».

    In quel preciso istante, persa tra i suoi pensieri, distolse lo sguardo dal signor Schmidt, soffermandosi a guardare un povero cavallo, dall’aria stanca, con ampie crini nere e corpo marrone chiaro, fermarsi un attimo, forse per riprendere ossigeno. Improvvisamente, due colpi attutiti di frusta del cocchiere la fecero trasalire. Il cavallo si mosse riprendendo lentamente a camminare.

    «Mi perdoni, signora Walton ma è sicura di stare proprio bene?» ribatté torvo, tornando a gettare altri sguardi malevoli ai passanti. «Io non credo proprio».

    Un impulso naturale la spingeva a dirgli di togliersi dalle scatole. Invece finse con disinvoltura, cercando di contenersi alla meglio.

    Alla sua domanda Elizabeth rispose lanciandogli soltanto un’occhiataccia del tipo "ma-quando-te-ne-vai?". Ma a chi voleva prendere ancora in giro? Già era completamente stufa di quella scenata ridicola. Dopo qualche secondo lui precisò: «Signora Walton ma è normale che stiamo parlando dell’affare. Cosa credevate che dicessi? Ne parliamo già da tanto tempo, no?».

    Sì come no, da tanto tempo.

    «Ah sì... allora perdonatemi se avrò interpretato malamente il vostro discorso», mentì Elizabeth. Non voleva restare neanche un minuto di più a parlare con lui.

    Il signor Schmidt, ovviamente, evitò la sua risposta e concentrato com’era esordì con uno sbuffo spazientito. Inarcò brevemente le folte sopracciglia. Dopo con mano tremante stirò per bene le ammaccature del cappello, createsi in precedenza per la forte tensione, cercando di depositarlo il più delicatamente che poteva sopra quei quattro ciuffetti grigio topo raccolti e pettinati di lato.

    «Comunque sia», replicò con tono piuttosto irritato, «di-dite a vostro marito che lo aspetto ancora nel mio ufficio... magari potrebbe venire a trovarmi anche nelle ore di buca, oppure quando termina il lavoro pomeridiano... tanto sono lì fino alle diciannove. Sappiate signora Walton... ogni volta mi dispiace davvero tanto venire fin qui a importunarvi, ma io ed Eric avevamo un accordo ben preciso. Io non lo capisco. Non può rimangiarsi le parole. Una promessa è una promessa. Non credete?». Alle ultime due battute alzò gli occhioni neri al cielo per non fissare il viso di Elizabeth, chiaramente rosso di mortificazione.

    Certo che dopotutto Elizabeth non gli dava per niente torto se si dimenticava le parole del copione. In fondo l’affarone, come diceva il signor Schmidt, era stato discusso con suo marito non più di qualche mese fa, e non dopo tanto tempo come faceva intendere il suo ridicolo copione da quattro soldi.

    «Bene! Tutto ciò è diventato troppo monotono per continuare a parlarne quest’oggi», tagliò corto Elizabeth, sbadigliandogli in faccia, senza neanche premurarsi di mettere una mano in bocca. «Se non sbaglio, vi avevo accennato poc’anzi che avrei avuto molte cose da sbrigare. Di quel che ne rimane della giornata, ovviamente», disse infine, voltandosi e lasciandolo in asso. In fondo, giusto un po’, se lo meritava, si disse lei. Non ne poteva più che doveva infastidirla in quel modo assillante. Era peggio di un infante, uno di quelli con una voglia zero di imparare le buone maniere.

    Alla fine quando il signor Schmidt lo capì fece spallucce, andandosene via più adirato che mai, borbottando fra sé qualcosa che suonava molto come: «Sì, sì... Codardi che non siete altro...». Elizabeth intuì chiaramente quello che gli uscì dalle carnose labbra desiderose di vendetta, ma lo ignorò fermamente. La cosa fondamentale per lei fu che anche lui non si accorse minimamente, o almeno così le parve, della busta che teneva stretta in mano.

    Secondo un giudizio di Elizabeth, oltre al suo encomiabile monologo, nel raggio dei suoi occhi non esisteva nulla. Per lui il portamento, l’eleganza e la parlantina venivano prima di qualsiasi altra cosa. D’altro canto, questi erano formali protocolli che appartenevano soltanto alle antiche famiglie di alta classe.

    Nel frattempo, più avanti la discussione dei vecchietti si era placata da poco, e prima che potesse incontrare malvolentieri un altro ficcanaso nei paraggi, cercò di dirigersi svelta verso la sua catapecchia.

    Per oggi mi sono fatta vedere già troppo da quelle lì, assentì.

    Elizabeth aprì titubante la porta. Prese e accese la lampada a petrolio, chiudendosi alle spalle la porta di legno scricchiolante. Appoggiò la busta piatta e rigida sopra il tavolo di faggio della cucina e si diresse a passi distratti verso il fornello – quasi scivolava sopra il pavimento color sabbia da poco pulito.

    4

    Hubert Schmidt stava percorrendo a gran velocità la Herzog-Friedrich-Straße. Era contento del lavoro che aveva svolto. Finalmente dopo un mese la gatta stava cedendo... se lo sentiva. Sentiva che presto avrebbero lasciato quella casetta.

    La sua testa continuava a dolergli all’impazzata, come se un martello continuasse a battere incessantemente, senza sosta, contro quel suo povero cervello.

    Ho bisogno di una lunga pausa dal lavoro, si rimproverò con una certa severità.

    Arrivato in fondo a una stradina, entrò in un piccolo bar, ordinò un caffè coretto al bancone e si sedette comodamente su una soffice poltrona in finta pelle color porpora.

    Cominciò a pensare al discorso che aveva fatto a Elizabeth e si auto-complimentò per la sua straordinaria interpretazione. Questa è andata ancora meglio dell’altra.

    Si accorse che stava stringendo tra le mani tremanti la tazza fumante: Come può pensare che non ne fossi a conoscenza... S’interruppe, guardandosi intorno.

    Quella mattina aveva ricevuto una grande busta marrone, con su scritto i suoi nominativi.

    La aprì, prelevando dal suo interno un’altra busta chiusa dello stesso colore, stavolta indirizzata a Elizabeth Allen.

    Era stato lui, quel pomeriggio, a incaricare Benjamin di farle recapitare la busta, senza farsi notare da nessuna vicina. «Fa’ molta attenzione, non voglio che la tua faccia rimanga impressa a quelle sgualdrine del quartiere», gli aveva detto Hubert.

    Benjamin obbedì, senza aggiungere altro.

    ***

    Benjamin, dopo aver messo la busta nella buca delle lettere, ci aveva pensato per tutto il resto della giornata. Aveva una strana sensazione, come se qualcuno l’avesse adocchiato furtivamente nel momento in cui depositava quella busta.

    Eppure quando l’ho lasciata nel portalettere non c’era nessuno nei paraggi, confutò tra sé.

    Aveva paura di dirlo al suo padrone.

    Se poi mi caccia dal lavoro? si chiese, chi potrà mandare avanti la mia povera famiglia?

    Benjamin lavorava per Hubert Schmidt da almeno diciassette anni, un numero notevole. «È speciale. Di lei mi posso fidare ciecamente. Non la potrei sostituire con nessun altro», gli aveva detto molto tempo prima.

    Però da un mese a questa parte, Hubert ha qualcosa di strano, che non va, come se fosse qualcun altro. Quella lettera poi? si chiedeva Benjamin.

    Hubert lo conosceva fin troppo bene. Quel giorno aveva notato che in lui c’era qualcosa di strano.

    Maledizione! scattò tra sé e sé Benjamin.

    Tutto questo solo perché lui aveva esitato nel rispondergli. Hubert era molto astuto. Doveva fare molta attenzione. Doveva cercare di fare finta di niente, mostrando lo stesso atteggiamento di sempre.

    5

    Elizabeth preparò la cena. I profumi che emanava l’anatra bollita nella stanza le fecero perdere quasi i sensi.

    Si guardò intorno ed era indecisa se aprire o meno quella busta. Effettivamente doveva soltanto leggere una semplice lettera. O è meglio aspettare il ritorno di Eric dal lavoro? Ma certo che no. La curiosità era tanta, fin troppa per i suoi gusti. Non ci pensò due volte e la prese in mano. Sentì il cuore rimbombarle nelle orecchie. Si strinse nelle spalle. Si sedette e con i palmi dischiuse teneramente il sigillo di ceralacca color rosso violaceo dalla busta liscia e marrone e la portò vicino al viso pallido e tremante.

    Dopo averla dispiegata, vi trovò semplicemente dentro un foglio di carta bianco piegato a metà e, con aria discreta, estrasse dal fondo una lunga e pesante chiave antica in ottone patinato, probabilmente dalle dimensioni doveva appartenere a un'abitazione. All’inizio non capì a cosa dovesse servirle: ma la spiegazione l’avrebbe trovata con certezza nella lettera.

    La facciata del foglio sembrava più immacolata che mai. Le parole, scritte in un perfetto italiano (in effetti lo conosceva e lo parlava abbastanza bene, perché con i suoi genitori aveva da sempre dialogato in quel modo, continuando a farlo anche con la sua attuale famiglia), erano scolpite perfettamente da una penna stilografica, con qualche sbavatura di qua e di là. A occhio nudo le voci si potevano contare a uno a uno in pochi millesimi di secondo.

    Prese il biglietto in mano e lo lesse molto attentamente. Mentre leggeva non poteva credere ai suoi occhi. Sembrava quasi che le uscissero dalle orbite.

    Lunedì, 18 agosto

    Cara Elizabeth,

    sono tua zia Katherine. Molto probabilmente non mi conoscerai, come io non conosco te. Anzi. L’unica volta che ti ho vista fu quando nascesti.

    Sicuramente quando ti arriverà questa lettera forse io non esisterò già più. Appunto per questo volevo lasciarti in regalo la mia casa. Così un giorno se vorrai, potrai tornare in Italia.

    La casa la potrai trovare al numero nove, nei pressi di Casteldaccia, a Palermo, nella tua vecchia Sicilia.

    Ti auguro buona fortuna.

    Ti ho sempre voluto bene e sempre te ne vorrò!

    Tua zia

    Katherine Allen

    «Cristo santo!» sbottò lei, mentre l’eco della sua voce rimbombava vibrante nella stanza silenziosa.

    Il messaggio era chiarissimo. Ma Elizabeth dovette comunque rileggerlo almeno per altre tre volte di seguito.

    Ancora non poteva credere a tutto questo, i suoi occhi erano attoniti e smarriti. Guardando la data della lettera, capì che le era arrivata con due mesi di ritardo. Effettivamente, adesso, poteva collegare quella vecchia chiave con la casa.

    Come avrebbe potuto mai una sconosciuta... sua zia, lasciarle in eredità una cosa del genere? Non era una cosa da poco. Oltretutto, i suoi genitori non le parlarono mai di una zia che viveva nei pressi di Casteldaccia.

    Cosa? Aveva letto bene? Casteldaccia. La faccenda non le suonava affatto nuova. Elizabeth nacque proprio lì. Casteldaccia era stato il suo paese d’origine.

    Quindi ciò starebbe a significare che oltre ai suoi nonni aveva altri parenti in Italia? Bene. Meglio tardi che mai. Ma si chiedeva perché tra i tanti proprio lei? Perché? Come mai aveva scelto lei? Oltre a Elizabeth non aveva altri parenti vicini? Figli?

    Elizabeth si sentì così commossa, ma allo stesso tempo restò impassibile, perché non era riuscita a conoscere quella zia. Anzi, lei non

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