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Misteri e manicaretti del territorio pratese
Misteri e manicaretti del territorio pratese
Misteri e manicaretti del territorio pratese
E-book251 pagine3 ore

Misteri e manicaretti del territorio pratese

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Info su questo ebook

Il mondo del tessile, il museo Pecci, la Retaia, il centro storico e il Bisenzio, il Castello dell’Imperatore. La Rocca di Cerbaia a Cantagallo, la Badia di Montepiano a Vernio, la Pieve di San Vito a Vaiano, Villa del Barone a Montemurlo. Sono davvero tanti i luoghi che fanno da sfondo ai racconti gialli di questa antologia. Sedici racconti in cui gli autori hanno giocato con il contrasto tra la dolcezza di un paesaggio che coinvolge i cinque sensi e gli intrighi del racconto giallo, ambientando nel territorio pratese le loro storie misteriose e cariche di suspense. Con una avvertenza, però. Tutti questi colpi di scena, questi delitti e la complessità delle indagini che vedranno coinvolti i protagonisti hanno un prevedibile effetto collaterale: mettono appetito. Ecco allora che le storie si intrecciano con ricette tipiche del territorio da provare e riprovare proposte da ristoratori, chef e pasticceri del territorio pratese fra cui i maestri pasticceri Luca Mannori e Paolo Sacchetti.In collaborazione con il Comune di Prato.
LinguaItaliano
Data di uscita20 gen 2020
ISBN9788893471169
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    Anteprima del libro

    Misteri e manicaretti del territorio pratese - A cura di Luca Martinelli

    A cura di

    Luca Martinelli

    MISTERI E MANICARETTI

    DEL TERRITORIO PRATESE

    Prima Edizione Ebook 2020 © Brividi a cena

    ISBN: 9788893471169

    Immagine di copertina: Elena Bertacchini

    Collana Brividi a cena

    Edizioni del Loggione srl

    Via Piave n. 60

    41121 Modena – Italy

    loggione@loggione.it

    http://www.loggione.it

    Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti

    è puramente casuale.

    Non è casuale invece la nostra passione per Pellegrino Artusi.

    Misteri e manicaretti

    del territorio pratese

    a cura di

    Indice

    Prefazione

    Un giorno alla Rocca

    CASTAGNACCIO

    ARISTA CON LE CASTAGNE E I CIPOLLOTTI

    Il morto venuto dal passato

    TORTELLI DI FARINA DI CASTAGNE RIPIENI DI

    FUNGHI PORCINI E PATATE CON BURRO,

    NIPITELLA E SCAGLIE DI PARMIGIANO REGGIANO

    Qualcosa di sbagliato

    SCHIACCIATA CON L’UVA

    Un giorno d’inverno

    TARTUFO MEDICEO AI FICHI

    PRATESACCIO

    Tu sapessi chi è morto

    PANZANELLA

    Giocare con il fuoco

    POLLO AL MATTONE

    Trent’anni dopo

    PETTO DI POLLO RIPIENO IN CREMA DI VERDURE

    Misteri nel tempo

    FARINATA DI CAVOLO NERO

    Balle americane

    SEDANI ALLA PRATESE

    8 Settembre

    BISCOTTI DI PRATO ALLE MANDORLE

    A volte tornano

    PIZZA BIANCA CON MORTADELLA DI PRATO IGP

    Divise, unite, perfette

    PESCHE DI PRATO

    Caccia alle ombre

    MINESTRA DI PANE

    Lo strano caso della donna caduta dal campanile

    TORTELLI DI PATATE DI NONNA MIRANDA

    Ombre

    ZUCCHERINI DI VERNIO

    Vitale e i suoi

    PAPPARDELLE AL SUGO DI CINGHIALE

    Ringraziamenti

    Biografie Autori

    Catalogo

    Luca Martinelli

    Prefazione

    Nel raccontare le storie del territorio pratese sono molti gli anziani che narrano vicende cariche di mistero, trame che intrigano per le situazioni in cui sono ambientate ma anche per il serrato incalzare delle vicende; sia che si parli della Val di Bisenzio, rinomato feudo dei Conti Bardi in un passato lontano, sia che si raccontino storie legate alle Ville Medicee dei Comuni del Montalbano, gioiello d’arte e di storia - oggi giustamente riconosciute patrimonio Unesco - in chi ascolta nasce la consapevolezza di quanta storia e cultura sia presente nei luoghi in cui viviamo. Una storia antica, che affonda le proprie radici in tempi arcaici, ma che trova pieno sviluppo nel Rinascimento e sulla centralità dell’Uomo e il suo saper fare.

    Storie non scevre da prospettive di futuro, per la presenza di tracce di arte contemporanea nei musei e ovunque ci sia uno spazio pubblico a Prato, in una sorta di percorso diffuso di Arte che in questa città unisce bellezza, cultura, moda e buon cibo.

    Arte e cibo, qualità della vita e buoni sapori che nascono dalle mani sapienti di artigiani esperti, custodi privilegiati di un saper fare originale, depositari di misteri e segreti che rendono preziosi i loro prodotti e che innescano nuove proposte che arricchiscono le ricette della tradizione regionale toscana.

    Le varie Associazioni di Sommeliers, l’Accademia Italiana della Cucina, il Club del Fornello, la Confraternita del Tortello della Valdisenzio, affermati foodblogger, fotografi ed esperti rappresentano espressioni di un interesse genuino, profondamente radicato nella popolazione, che si unisce ai tanti ristoranti, agriturismi e luoghi di ristorazione e ai tanti eventi dedicati ai prodotti tipici, spalmati su tutti i mesi dell’anno, secondo un calendario serrato che ha il suo apice nella manifestazione Eat Prato organizzata dal Comune di Prato in collaborazione con la Strada dei Vini di Carmignano.

    Questa pubblicazione si inserisce nel solco di questi eventi e sintetizza tanto del nostro saper fare, cercando di offrire al lettore un compendio ricco e gustoso di quello che la nostra terra può offrire, valorizzandone gli aspetti salienti, non abbastanza conosciuti a un pubblico vasto. Lo fa in modo semplice e immediato, raccontando nuove storie ambientate a Prato e negli altri Comuni della provincia.

    È un modo per farci conoscere ma nello stesso tempo un caloroso invito a frequentare un territorio ricco di storia e di innovazione.

    Daniela Toccafondi

    Assessore alle politiche economiche,

    al turismo e alla valorizzazione del patrimonio artistico

    del Comune di Prato

    Un giorno alla Rocca

    di Silvia Grifoni

    Ambientato a Cantagallo

    La Rocca era sempre lì, immota, in vetta al colle.

    Le foglie dei cespugli stormirono mosse dal vento e Virginia, non appena ebbe oltrepassato il bel ponte di pietra arenaria, alzò lo sguardo fino alle rovine che svettavano sulla valle.

    Poi, lasciato il fiume alle spalle, si inoltrò attraverso il sentiero.

    L’azzurro del cielo di un novembre stranamente assolato faceva capolino fra le chiome folte degli alberi e lei rimase così, a lungo, con la testa reclinata all’indietro per osservarlo, farne tesoro e sentirlo dentro di sé.

    Bello, pensò, l’azzurro del cielo d’autunno.

    Riprese a salire l’erta, un piede dopo l’altro. Sapeva già dove appoggiarli, da tante volte aveva percorso il sentiero. Quello che preferiva a tutti, quello che conduceva su, alla Rocca di Cerbaia.

    A volte, nelle domeniche d’estate, vi incrociava altre persone, ne distingueva le voci fra il cinguettìo dei nidi nuovi, ne ascoltava le risate perdersi fra le foglie e ne intravedeva le sagome nascoste dietro ai cespugli. Ma nei giorni non comandati riusciva a ritrovarsi completamente sola fra tronchi rugosi e pietre antiche. A casa non raccontava mai di queste passeggiate perché sapeva che nessuno le avrebbe approvate: saperla lì, tutta sola, arrampicata per un sentiero dimenticato dai più. Soprattutto la nonna non si stancava mai di metterla in guardia:

    «Ne son successe di cose strane su alla Rocca e fin dai tempi andati. E ricordati che i muri non dimenticano e che, quando in un posto vi è stato dolore, tutto, intorno, ne serba il ricordo.»

    Ma Virginia amava a tal punto quel luogo abbarbicato sul crinale del colle da non temerne le memorie e neppure il remoto isolamento. Adorava il profumo di foglie umide, sotto l’ombra delle querce secolari, e i colori del bosco durante i mesi autunnali. Col tempo, alla pari di un attento erborista medievale, aveva imparato a leggere le piante a contorno del viottolo sassoso: i faggi, così maestosi da essere i veri signori del bosco, e gli ontani, le cui fronde si toccavano formando una volta messa lì, quasi a proteggerla. Infine le bacche rosse di corniolo e quelle arancioni di olivello spinoso, il cardo mariano spettinato e amaro, e i ciclamini selvatici, che facevano capolino dal sottobosco insieme ai cespugli di nepitella capaci di spandere nell’aria un profumo da stagione di funghi e focolari accesi.

    Eh sì... era bello camminare su, fino alla vetta.

    Tanto che Virginia, durante l’inverno, quando la neve rendeva impraticabile il sentiero e la Rocca sembrava svanire in un bianco isolamento, sentiva la mancanza di quelle passeggiate ricche di pensieri e significati. Rifletteva sul divin poeta che, a dorso di mulo, aveva percorso la ripida erta in una notte di tormenta per trovarsi davanti a una porta sprangata. Così, al freddo di quell’immagine, si chiudeva volentieri in casa col caminetto scoppiettante, senza avvertire la noia di dover rimanere ferma, come in attesa, ad aspettare le prime foglie nuove sopra gli alberi del sentiero.

    Camminò senza fatica anche in quel giorno e raggiunse la cima arrivando fin dentro la Rocca, all’interno del perimetro segnato dalle rovine scoperchiate. Sedette e guardò le mura coperte di muschio e licheni, le piante di cappero nate nei pertugi e le striature color guscio di castagna sopra le pietre rovinate. Ne studiò le insenature, inspirò l’aria pulita e si inebriò del silenzio che ogni tanto veniva bruscamente interrotto da urla lontane. Forse quelle di qualche canaio che stava incitando una muta alla caccia al cinghiale.

    Il panorama era a tal punto perfetto e l’aria così pura che, a un tratto, provò fastidio per quelle voci distanti ma continue. In un giorno tanto sereno le sembrò un vero abominio l’idea di uccidere una qualsiasi cosa, fosse questa animata o soltanto frutto di un semplice pensiero, e decise così di non ascoltarle più.

    Per distrarsi aprì lo zaino che portava sempre con sé e prese la fetta di castagnaccio. La nonna lo faceva ogni dì di festa, che fosse domenica, Ognissanti o giorno dei morti. E lo faceva ancora alla maniera contadina, con farina dolce di castagne, acqua di fonte e noci raccolte in fondo all’orto, proprio ai piedi del grande albero piantato da chissà chi, secoli prima. E poi, per finire, rosmarino della siepe davanti casa. La nonna diceva che il rosmarino non poteva mancare, perché era risaputo da tutti che avesse lo stesso potere di un filtro d’amore.

    Virginia sorrise pensando a quello che diceva la nonna, a cui non mancavano certo l’immaginazione e la capacità di mescolare la storia vera con idee tutte sue.

    Tuttavia anche Virginia sapeva che le leggende intorno alla Rocca non erano solo frutto di fantasie ma che avevano sempre anche un fondo di verità: Ezzelino, Dante, Cunizza, la famiglia Alberti con tutte le sue tragedie, qualche anima persa nella nebbia e mai più ritrovata e infine le sette sepolture scoperte durante gli ultimi scavi archeologici. Si diceva che fossero di bambini.

    Chissà di chi erano stati figli e chissà cosa era vero di tutto ciò.

    E infine, era proprio possibile credere che i muri fossero in grado di serbare memoria dei dolori passati? Che avessero la capacità di trattenere il ricordo di fatti trascorsi da tempo, di eventi sinistri, di gioie e di ombre, di scherzi del destino? Finì il castagnaccio e rimase a osservare la valle sottostante.

    Bella, aperta, colorata d’autunno, percorsa dal nastro del fiume. Lentamente le sue palpebre si fecero pesanti, mentre quel rumore lontano, di cani arrabbiati e di animali in fuga, divenne sottofondo continuo, insieme allo stormire delle foglie e al sibilo del vento che si modellava con fatica intorno alle pietre e agli angoli della Rocca.

    Già... condottieri, cani, cinghiali, vento e cacciatori.

    E fu questo, e solo questo, l’ultimo pensiero lucido prima che una strana sonnolenza la cogliesse all’improvviso.

    Un sonno pesante e una visione: sognò infatti un cacciatore, un cane e una densa nebbia all’orizzonte.

    Gaudenzio accarezzò la testa del bracco che gli camminava accanto e poi dette un’altra occhiata alla Rocca la cui sagoma, in vetta al colle e nell’ultima luce di un tramonto invernale, si stagliava netta davanti ai suoi occhi.

    In realtà, dalla morte di Margherita, non aveva ancora trovato il coraggio di tornarci.

    La sua piccola Margherita.

    La rivedeva ancora come era sempre stata: esile, bionda, sorridente ma timida. Sempre due passi indietro rispetto alle altre, anche se meno belle, anche se meno dolci.

    Margherita di nome e di fatto. E lui, il figlio minore del guardiacaccia del castello di Mangona, era stato l’unico a strapparle più di un sorriso quando, entrambi bambini, avevano giocato insieme dietro la pieve, oltre il muretto dell’orto erboristico. Frate Cirillo, sempre impegnato con medicamenti e impiastri, bacche rosse e arancioni, li aveva guardati scuotendo la testa senza però poter dire niente, perché il voto del silenzio era appunto un voto sacro, ma Leonilda, la balia di Margherita, li aveva invece sgridati a viva voce: non dovevano giocare insieme, non stava bene.

    Loro ne avevano riso ed erano trascorsi così i mesi e gli anni in quel piccolo angolo di mondo dove tutto era apparso possibile: qui Gaudenzio aveva finto di essere quel cavaliere che non sarebbe mai diventato e Margherita, in egual misura, l’unica dama capace di decidere del suo destino. Ma qualcuno aveva infine compreso che forse non era più tanto il caso che il figlio del guardacaccia e la figlia del signore del castello trascorressero così il loro tempo.

    Gaudenzio ricordava bene il momento in cui si erano detti addio: era un giorno d’autunno e loro due, insieme a una comitiva di dame e falconieri, paggi e cavalieri, avevano raggiunto la Rocca di Cerbaia. Era già accaduto che vi si recassero per una battuta di caccia. La Rocca infatti si prestava allo scopo ed era stata così chiamata proprio grazie alla quantità di cervi che si trovava nella foresta ai suoi piedi. Qui Gaudenzio e Margherita si erano salutati per sempre sotto ai rami di un alto castagno i cui ricci, vuoti, giacevano adagiati sulle foglie morte. Infatti era giunto il tempo, anche per quell’anno, di macinare la farina dolce, di impastarla con l’acqua e le noci, di fare il famoso pan di legno, la polenta di castagne, da vendere ai viandanti o da mangiare nelle fredde sere dell’inverno a venire. E loro, proprio lì, avevano rinunciato a vedersi ancora.

    Margherita aveva raccolto da terra tre gusci di castagna e li aveva legati insieme con un sottile filo di seta grezza.

    «In mio ricordo...» gli aveva detto.

    «Un giorno, quando saremo di nuovo qui, insieme, le riavrai indietro. È una promessa!» le aveva invece risposto lui che, in cuor suo, sperava davvero che quell’addio non fosse così definitivo.

    Ma invece lo era stato: Gaudenzio, con le tre castagne legate alla cintura, era diventato il capo cacciatore del castello, quello che addestrava i cani alla caccia al cinghiale e che aveva l’incarico di stanare la selvaggina pericolosa, di far divertire gli ospiti importanti e di guidare convogli e cortei su strade impervie durante l’inverno. Lei, invece, fanciulla di rara bellezza, era stata educata per essere una moglie perfetta, e soltanto quello le sarebbe stato permesso di diventare. Al di là di ogni suo volere e al di là di ogni altro possibile desiderio.

    Tanto che dopo qualche anno era stata promessa a un lontano cugino, Orso Alberti.

    Tuttavia alla vigilia degli sponsali strane voci si erano rincorse: si era detto che Margherita fosse davvero innamorata del promesso sposo e che per questo avesse rifiutato Alberto, l’altro cugino appartenente alla casata. Ma di quest’ultimo si diceva anche che avesse un’indole gelosa e crudele, che meditasse da tempo di vendicare la morte del padre, ucciso anni prima proprio dallo zio. Insomma, se ne dicevano tante sulle faide degli Alberti, oramai signori indiscussi dell’intera valle.

    La mattina del matrimonio Gaudenzio aveva appena intravisto Margherita sulle scale del castello. In realtà non lo aveva sperato e forse neppure desiderato, ma era infine accaduto. Lei gli aveva sorriso, attraverso il velo, con una profonda mestizia nello sguardo e poi, all’improvviso, aveva sfiorato i tre gusci di castagna che lui portava ancora appesi alla cintura.

    Li aveva guardati a lungo come a rimpiangere qualcosa di semplicemente finito, poi lo aveva oltrepassato senza dirgli una parola. E lui si era concesso di osservarla ancora da lontano, prima seduta nella portantina che muoveva dal castello alla volta di San Leonardo e infine sul sagrato della chiesa, il volto chino e le mani intrecciate a quelle dello sposo.

    Poi Gaudenzio aveva deciso di allontanarsi.

    Non aveva avuto alcuna voglia di assistere al resto. Si sarebbe accontentato di immaginare i sontuosi festeggiamenti organizzati al castello di Vernio: menestrelli, tavole imbandite, copiose libagioni e balli che avrebbero scandito le ore di quella giornata lunga e interminabile. Lui, Gaudenzio, desiderava soltanto andarsene il più lontano possibile.

    Ma, a distanza di un anno, si pentiva ancora di quella decisione, di non essere rimasto lì, nel cortile inghirlandato per il dì di festa. Cercava di non pensare ai racconti che giravano, di bocca in bocca e di piazza in piazza, sul tragico epilogo dello sciagurato matrimonio, né alle immagini tremende che quelle parole avevano il potere di evocargli: la camera nuziale ridotta a un cimitero, Orso morto, pugnalato dal cugino Alberto, e, ai piedi del talamo, la dolce Margherita riversa nel sangue del marito, non trafitta a sua volta ma semplicemente uccisa dal dolore.

    Per lungo tempo la disperazione e un lacerante senso di colpa avevano impedito a Gaudenzio di tornare alla Rocca, il luogo dove si erano detti addio e dove lui aveva spesso immaginato di renderle i tre gusci di castagna. Pregava ogni giorno, quasi fosse davvero possibile che gli venisse concesso di compiere questo unico gesto. Come se, per magia, tre gusci legati insieme fossero capaci di cambiare ciò che era stato, di salvarla e di riportare entrambi indietro, al loro tempo felice. In quel primo anniversario Gaudenzio si era fatto forza ed era riuscito così a risalire il viottolo verso la cima. Incurante della nebbia che cominciava a rendere inaccessibile la via giunse fin quasi alla meta. Intravide la sagoma della Rocca e poi le sette croci del cimitero, avvertì un brivido e accarezzò la testa del bracco, quasi a volersi tranquillizzare.

    Ma d’un tratto il cane si fermò, annusò l’aria e alzò le orecchie, come avvertendo un pericolo incombente. E infatti un urlo tremendo, attraverso la nebbia, risuonò per la valle: un grido di donna così acuto da trafiggere il cuore di Gaudenzio. Una richiesta d’aiuto, una voce dall’oltretomba che lui avrebbe riconosciuto ovunque.

    Allora iniziò a correre, incurante di quella densa caligine che sembrava divertirsi a sbarrargli la strada. Si smarrì girando a vuoto perché, a ogni angolo, si trovava davanti sempre e solo la Rocca: urtava nei suoi terrapieni, si feriva agli angoli delle mura, inciampava nelle croci del piccolo cimitero, scendeva e risaliva sul sentiero impervio. Ma, con le tre castagne strette in pugno, continuò a correre, a correre e a correre fino a perdere la ragione e

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