Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Le Anime Vendute
Le Anime Vendute
Le Anime Vendute
E-book708 pagine11 ore

Le Anime Vendute

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Dalia Lentini è una coraggiosa giornalista d’inchiesta.
È brava e determinata nel suo lavoro.

Quando riceve una richiesta d’aiuto da parte di una missionaria in Mozambico,
e soprattutto, quando si trova coinvolta dalla notizia confidenziale della
sparizione di organi umani da un penitenziario in Asia, senza esitare,
parte alla volta della Cina.

Ma dopo due settimane Dalia è introvabile
e dopo un mese l’ambasciata italiana la dichiara scomparsa.

Il difficile incarico di ritrovare Dalia Lentini viene assegnato a Nicholas Ferrigno,
un ostinato e tormentato reporter appena uscito dal carcere, che,
in mezzo a molte incognite, inizia la sua complicata e rischiosa ricerca.

Esiste veramente un mercato clandestino degli organi umani?
Quanto costa un cuore, un rene o un fegato?
E perché sempre più persone si rivolgono al mercato illegale?

Ferrigno è ossessionato da queste domande e dal fatto che Dalia sia introvabile.
Intanto, a Parigi, viene scoperto il corpo fatto a pezzi di un giovane monaco,
il nipote dell’influente vescovo Jean Pierre Ledreux.

L’AUTORE

Graziano Bortolotti

scrive e affronta con abilità e carisma temi forti
che toccano da vicino la società moderna.

Argomenti attuali ma anche appartenenti al passato,
che nei suoi romanzi e nei suoi personaggi, danno vita a
narrazioni fitte di intrighi e di suspense.

Tre finora le sue pubblicazioni appartenenti al genere giallo/thriller:

La guerra non è mai finita (2005)
Pista di sangue (2009)
Il richiamo del cedro (2013)

Graziano Bortolotti è nato in Trentino dove vive tuttora.
LinguaItaliano
Data di uscita16 gen 2019
ISBN9788829597581
Le Anime Vendute

Correlato a Le Anime Vendute

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Le Anime Vendute

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Le Anime Vendute - Graziano Bortolotti

    D’Avanzo

    Prologo

    Orfanotrofio St. Marie di Nampula – Mozambico, 10 febbraio – ore 23.00

    Dopo aver aperto gli occhi e inalato un respiro sofferente, suor Teresa riprese a scrivere, erano le ultime righe di quella drammatica lettera.

    … Dalia, tu rappresenti la mia ultima speranza. Sono costretta a rivolgermi a te, perché negli ultimi tempi nei villaggi della regione di Nampula, la violenza si è inasprita. Non è più possibile andare avanti così, è ora di denunciare le spietate crudeltà che ti ho descritto, e alle quali devo assistere impotente. La gente qui è terrorizzata, non ha né la forza, né la possibilità di porre fine ai soprusi che si consumano ormai ogni giorno. Gli unici che hanno contatti fuori dal Paese siamo noi missionari, ma dobbiamo fare attenzione, ci controllano e bisogna fare in fretta, bisogna assolutamente porre fine a questa carneficina umana. Sono molto preoccupata, Dalia, ti prego, dammi un riscontro appena riceverai questa mia lettera, temo per il nostro orfanotrofio. Come ti ho spiegato, sono stata ingannata: il prossimo obiettivo dei trafficanti, siamo noi. Aiutami, e rispondimi presto! Che Dio ti benedica.

    Con l’affetto di sempre S. Teresa

    P.S. avrei voluto inviarti una e-mail ma i soliti contrabbandieri ci hanno tagliato i cavi e non ti so dire quando manderanno qualcuno da Beira ad aggiustarci il danno.

    PRIMA PARTE

    Capitolo 1

    Suor Teresa era missionaria in Mozambico da oltre quindici anni. Era arrivata laggiù dopo alcune esperienze più brevi vissute in Somalia, in Cina e in Nigeria; poi la necessità di aprire un nuovo orfanotrofio da parte della diocesi da cui dipendeva l’aveva portata in Mozambico, proprio per il motivo che l’aveva indotta a scrivere quella difficile lettera a Dalia. Laggiù i bambini erano in serio pericolo. Quel Paese africano annoverava nella sua storia ancora forti contaminazioni legate alle colonizzazioni arabe e portoghesi, ma quello che lo rendeva ancora più indigente e instabile, erano stati nei tempi recenti, i trent’anni di guerra civile che lo avevano impoverito, fino allo strenuo. Il governo attuale stava cercando di ristabilire le cose, era intenzionato a migliorare l’economia puntando molto sul turismo, valorizzando le coste, con migliaia di chilometri di litorali incontaminati e bagnati dall’oceano indiano. Le spiagge tra un villaggio e l’altro erano, infatti, lunghe e selvagge. Ogni giorno i pescatori solcavano il mare con piccole imbarcazioni di origine araba, dalle vele triangolari e colorate che si specchiavano in un mare limpido. Visto da fuori o su una rivista di viaggi, il Mozambico aveva la parvenza di un luogo amabile e a tratti anche affascinante, ma non era così serafico come si voleva far credere. Il Mozambico era soprattutto un territorio fertile per la tratta degli schiavi, anche perché le zone dell’interno del Paese, erano poverissime. Inoltre, da qualche tempo, l’attenzione delle organizzazioni criminali si era spostata sul mercato clandestino degli organi e di conseguenza era forte l’interesse per la fascia più debole della società: vale a dire i bambini.

    Suor Teresa rilesse l’ultima parte della lettera altre due volte, l’avrebbe fatto all’infinito pur di assicurarsi di aver usato le parole giuste per far comprendere a Dalia il dramma che stava vivendo. Quella mattina si era svegliata con una forte angoscia nel cuore, aveva trascorso la nottata ad arrovellarsi dopo gli ennesimi fatti di crudeltà, scoppiati negli ultimi giorni a pochi chilometri da Nampula. L’indifferenza della polizia, oltre che delle istituzioni governative, l’avevano persuasa che l’unico modo per urlare al mondo lo scempio che si stava consumando proprio sotto i suoi occhi, era di rivolgersi a una giornalista capace e determinata, saltando pure i vertici della Chiesa. Era un rischio, ma era pronta a correrlo, non vedeva altri validi appoggi nelle istituzioni, nemmeno in quelle ecclesiastiche. Gli anni trascorsi nei Paesi poveri l’avevano resa molto pratica e decisa, e ora la sua coscienza non poteva più tacere. Il mondo doveva sapere che cosa stava accadendo laggiù ed era necessario intervenire urgentemente, non c’era più tempo da perdere. Dalia Lentini era l’unica persona di cui si fidava e che la poteva aiutare. Suor Teresa rifletté sulle brutalità che aveva dovuto descrivere con minuziosità ma anche sui tanti dettagli che aveva dovuto tralasciare, per non sembrare troppo faziosa o estremista nel riportare i fatti. Non voleva perdere la lucidità, era necessario soppesare ogni parola, anche se, per la prima volta in vita sua, si sentì sola e assalita dalla paura.

    Quell’anziana donna rischiava molto, ma non era quello il punto, il problema vero, era un altro. Che ne sarebbe stato del futuro di quei bambini? Quell’orribile sensazione d’incertezza la stava consumando di giorno in giorno, doveva fare qualcosa. Sì, doveva tentare il tutto per tutto. Quella lettera a Dalia, rappresentava la sua spada contro i criminali, proprio come San Michele Arcangelo, il Santo con la spada che schiaccia Satana, il male. Con quello stato d’animo, suor Teresa fece un sospiro sofferto e saturo di stanchezza, proprio mentre una ciocca di capelli argentati, fuoriuscì improvvisamente dal suo copricapo bianco che le avvolgeva la testa. Quel leggero movimento del corpo, tratteggiò il suo viso già invecchiato e allungato dallo scorrere della vita, di un aspetto ancora più carico di preoccupazione e di evidente magrezza. Sistemò i capelli con entrambe le mani, dopo aver appoggiato prudentemente la penna sul tavolo, cercando di non fare rumore. Non voleva svegliare Roger, di solito, il più attento e il meno dormiglione della compagine di bambini che vivevano nell’orfanotrofio. Erano in trentacinque, troppi per quello che poteva fare quella modesta struttura, ma almeno lì, per ora, erano al sicuro. Il piccolo studiolo dove si trovava suor Teresa era collocato tra il refettorio e le camerate dei bambini più piccini; spesso Roger le faceva visita durante la notte, quando lei sbrigava le faccende burocratiche o preparava le attività per il giorno seguente. Suor Teresa amava insegnare ai bambini, da giovane aveva fatto gli studi magistrali, messi in pratica anche dopo la chiamata del Signore. Negli anni successivi, aveva deciso di diventare un’educatrice a disposizione dei bambini bisognosi nei Paesi più poveri del terzo mondo, e così era diventata una missionaria. Certe notti il piccolo Roger si affacciava sulla soglia dello studiolo occupato dalla religiosa, con quella faccina tonda e scura, si sedeva al suo fianco con spontaneità, sgranando due occhi altrettanto scuri come la notte, vispi e curiosi come un animale della savana. A volte, rimanevano lì a parlare nel cuore della notte, loro due soli. Erano momenti sereni, rubati a quella vita così violenta e sottomessa che tormentava ogni giorno le esistenze di chi nasceva e viveva in quella terra disgraziata. Roger faceva tante domande, soprattutto sulle grandi città europee che vedeva sulle foto nei libri. Altre volte suor Teresa, quando notava una velata tristezza nello sguardo di quel piccino, lo teneva stretto a sé, regalandogli un lungo abbraccio, dopodiché lo riaccompagnava a letto. Quel bambino aveva bisogno di affetto, aveva bisogno di una madre, di quella madre che non aveva mai conosciuto e che lo aveva abbandonato a causa della miseria e dei pericoli. Per fortuna quella notte Roger non apparve, lei non sarebbe stata dell’umore giusto e lui se ne sarebbe sicuramente accorto restandoci male, magari iniziando a fare domande imbarazzanti. Roger era intelligente, prometteva bene, aveva delle potenzialità che avrebbe potuto sicuramente valorizzare, se la vita gli avesse concesso di studiare e di vivere in un contesto sicuro. Era volenteroso in tutte le cose che faceva, e aveva sempre tanta voglia di imparare. Spesso le confessava che da grande sarebbe andato a studiare a Parigi, dove avrebbe voluto fare il chirurgo. La suora quando lo ascoltava, sapendo quello che accadeva fuori dall’orfanotrofio e del ruolo ambiguo che ricoprivano alcuni medici, si rattristava ancora di più, poi, pregando e affidando quella piccola creatura al Signore, si convinceva che Roger da grande, sarebbe stato dalla parte giusta e avrebbe messo tutto l’impegno necessario per migliorare le cose nel suo Paese.

    Per farsi coraggio, suor Teresa alzò fiaccamente lo sguardo indebolito dalle numerose ore di duro lavoro, verso il crocefisso che dominava la stanzetta. Senza distogliere gli occhi dall’immagine di Gesù trafitto in croce, infilò la lettera appena scritta in una busta già completa di indirizzo, la chiuse per bene, premendo con forza le dita ossute delle piccole mani contro i lembi, di modo che la colla attaccasse a dovere. Appena terminato, si alzò e iniziò a pregare sottovoce. Il silenzio della notte era affiancato dal lento fruscio di un ventilatore che tentava di portare un minimo di sollievo, sotto una luce fioca che allungava e induriva le ombre dentro la stanza. La religiosa aveva da poco superato i sessantasei anni, e, sebbene fosse fisicamente minuta, possedeva ancora un’energia inesauribile, nonostante avesse vissuto tante situazioni difficili nel corso della sua vita, soprattutto nel continente africano. Quei giorni però erano stati di gran lunga i più ardui, i peggiori della sua vita. A quell’ora tarda, l’aria afosa della notte, i tormenti e gli interminabili impegni della giornata, si facevano sentire ovunque, dal cuore fino alle sue esili articolazioni. Si rese conto che il suo respiro era affaticato, così come la martoriava un insistente bruciore agli occhi. Si trattava di una compagnia a lei ben nota, poiché era in piedi prima che sorgesse l’alba, ed era così tutti i giorni. Nonostante tutto, anche quella giornata era conclusa, e adesso suor Teresa aveva solo un grande bisogno: desiderava rifugiare la sua fede nella preghiera e aggrapparsi ancora una volta a Dio.

    Lago di Como qualche mese dopo

    Con una mossa rapida e leggera, Trebo De Crignis infilò le mani nelle tasche dei pantaloni dell’elegante vestito blu. Era tetro in volto, lo era più del solito, così come i pensieri che covava dentro il suo animo malefico ma ben mascherato da abiti e camicie di ottimo taglio, fatti su misura dalle abili mani di sarti italiani. La sua figura longilinea, curata, sicura e per niente appesantita dai suoi sessantatré anni era perfetta per un uomo d’affari vincente. Si affacciò alla finestra del salone situato al primo piano della villa padronale, posta alla sommità di una collina immersa nel verde. Si trattava di una residenza risalente alla metà dell’Ottocento che dominava, a nord di Bellagio, la perla del lago, e a est di Pescallo, un piccolo e antico borgo di pescatori, molto più alla mano ma altrettanto seducente. Un silenzio sospeso avvolgeva la residenza di una quiete strana, come se il tempo si fosse fermato, dopo i duri scambi di accuse e in particolare dopo le sanguinarie decisioni, prese qualche minuto prima proprio in quel luogo, teatro dell’ennesimo incontro dal sapore clandestino. La villa era arredata con mobili antichi dal colore scuro e lucido, dentro i quali riposavano piatti in ceramica, rigorosamente dipinti a mano, lunghi calici in cristallo, oltre alla posateria d’argento, perfettamente lucidata dalla governante. In quella perfezione ovattata si respirava un’atmosfera di solitudine e d’isolamento: era quello che rimaneva di antichi ricordi che riportavano alle nobili famiglie patriarcali di una volta. Memorie, che si perdevano nel tempo e che calavano inevitabilmente un senso di freddo, ma soprattutto creavano un netto distacco dalla realtà di oggi. A Trebo la sua casa piaceva proprio per questo motivo: sapeva di sacralità. Gli imponenti e ordinati scaffali colmi di libri si alternavano alle pareti, dove spiccavano i ritratti di Hugues de Payns, il primo maestro dell’Ordine dei Cavalieri Templari, e di Goffredo di Buglione, oltre ad altri quadri di valore. In particolare, le due rappresentazioni dei cavalieri medioevali, testimoniavano la forte attrazione del padrone di casa per la storia legata ai tempi delle crociate, un richiamo e un legame morboso, anzi, ossessionante, e fonte e ispirazione della malvagità che aveva in corpo. Tutto in quel posto contribuiva a far sì che il perfetto equilibrio tra l’eleganza e la ricchezza si distribuisse con l’opportuna autorevolezza. Chiunque fosse entrato, avrebbe dovuto sentire un senso di stupore e d’inferiorità nei confronti di Trebo De Crignis.

    All'improvviso gli occhi color cenere di Trebo fissarono i tratti inflessibili del proprio volto, riflesso nel vetro della finestra. Per un istante scrutò con severità la sua capigliatura argentea ma con altrettanta consapevolezza, ammirò la potente energia che irradiava il suo sguardo. Sapeva che era un suo punto di forza e ne attingeva a piene mani quando doveva comunicare, o meglio, comandare. Era anche il frutto di una convinzione maturata e portata avanti sin da giovane, quando si rese conto di avere come padre un debole, un fallito, e lui non voleva fare la stessa fine. Per sua fortuna, aveva ereditato l’ambizione e la determinazione di sua madre. Non sarò mai così giurò a sé stesso, odiando il padre, anzi, ripudiandolo. Grazie allo zio che lo mantenne in un collegio privato, riuscì a studiare e successivamente a laurearsi in ingegneria al Politecnico di Milano. Il suo sguardo andò per un attimo oltre il vetro e fu catturato dal movimento delle quattro macchine scure con a bordo suo cugino, Raphael Molina e i tre saggi appartenenti al gran consiglio della Mig, una società segreta facente parte della setta fondata da lui, più di quarant’anni prima, l’Ordine dei guardiani di San Ciriaco, la cui fedeltà era votata ai principi e alle regole dell’Ordine dei Templari. Trebo lanciò un’occhiata all’orologio che portava al polso, un Breguet Classique. Le lancette scure nella cassa in oro rosa indicavano le 18.12. Assassinare la giornalista Dalia Lentini, eliminarla e far sparire per sempre le informazioni di cui era in possesso, questa era stata la decisione presa dal gran consiglio. La giornalista stava indagando sulla Mig, un dato di fatto pericolosissimo. Si doveva trovare il modo di farla tacere per sempre, così come quegli ex appartenenti all’organizzazione che avevano parlato e tradito. Trebo aveva stabilito e disposto che i suoi uomini torchiassero i loro contatti per scoprire se all’interno del gruppo vi fossero ancora delle talpe. I traditori avrebbero pagato con la vita, ma il grosso problema ora era lei, quella puttana di Dalia Lentini. Le potenti automobili erano già sparite silenziose dietro l’imponente cancello di ferro battuto quando lui riaccostò la tenda, una mossa che gli provocò una fitta di dolore, un bruciore che saliva dall’inguine, fino alla testa, cagionato dalla piaga nella carne che viveva da tempo insieme a lui. Reagì a quella perversa sofferenza con un gesto nervoso delle spalle. Appena passato quel lancinante sussulto che sapeva anche di sottile piacere, raggiunse il suo studio privato situato nei sotterranei della villa, un mondo occulto, esoterico, dalle regole medioevali, dove viveva un’altra dimensione e dove soprattutto meditava i suoi piani diabolici. Ora che la decisione era stata presa, toccava a lui pianificare l’uccisione della giornalista.

    Nei meandri della villa si respirava un’aria drammatica, esattamente quello che desiderava assaporare Trebo, la miglior compagnia per la sua violenta pazzia, che lì, poteva finalmente liberarsi e avere sfogo. Prima di porre fine al tormento del cilicio, lo strinse ancora più forte attorno alla coscia, poi scrutò sulla parete lo stemma araldico dell’Ordine dei Templari. La croce rosso porpora lo irradiò con la sua intensità: Trebo si riconobbe in un monaco guerriero, in un guardiano di San Ciriaco, fino all’ultima cellula. All'improvviso il dolore si trasformò in un amabile calore, la sua fronte s’inumidì di sudore e un piacere caldo e profondo, molto vicino a un orgasmo, s’impossessò di lui. Trebo, quando era in quello stato, diventava molto pericoloso, si lasciava andare al suo istinto animale e criminale, un impulso senza limiti e inibizioni.

    Intanto, fuori dalla villa, le acque scure del lago diffondevano l’ultimo delicato bagliore. Le pietre grigie delle abitazioni signorili e delle ville storiche si specchiavano come eleganti cigni per l’ennesima volta in quel ramo del lago di Como, un luogo a metà strada tra il fascino e il mistero, tra la vita e la morte.

    Vancouver – Canada

    Dopo oltre cinque anni trascorsi freneticamente a Wall Street a fare l’agente di borsa, dove i ritmi folli gli permettevano di dormire dalle tre alle quattro ore per notte e consumare un solo pasto decente al giorno, Nat Bailey, un giovane e brillante broker canadese, laureato alla British Columbia University, si rese conto che il mercato finanziario americano stava andando progressivamente verso una forte recessione. C’erano segnali molto negativi, alcune grandi banche stavano rischiando di fallire in preda a quelle famose bolle finanziarie prodotte da un sistema economico sempre più impazzito e fuori controllo. Forse, anche a causa del suo carattere piuttosto apprensivo, Nat Bailey era fortemente preoccupato di quell’andazzo, perciò seguiva il trend del mercato con sempre più frenesia e sospetto. Era diventata una vita di merda. Infatti, venne il giorno in cui quelle nubi scure all’orizzonte si fecero molto vicine e minacciose. Gli spifferi si trasformarono in venti gelidi e una delle più grandi banche private d’America fallì, provocando un vero e proprio panico tra gli investitori e gli addetti ai lavori. I titoli in borsa precipitarono, gli scambi furono bloccati, i telefoni sembravano impazziti e i server s’intasarono di e-mail; insomma, un vero e proprio disastro, un terribile tsunami finanziario stava trafiggendo l’intero sistema economico americano, e non solo. A poco servirono le parole di rassicurazione e gli interventi della Federal Reserve, la banca centrale americana. Lo spauracchio di incorrere in un’altra grave crisi economico-finanziaria, dopo quella del 1929, con forti rischi di contaminare i mercati del resto del mondo, erano scenari molto probabili. Quella vita, senza mai una tregua, aveva procurato a Nat Bailey una gastrite cronica che lo tormentava sempre più brutalmente. Si sentiva costantemente irritabile, inappagato, tant’è che una mattina, dopo l’ennesima riunione del suo gruppo di lavoro e con i nervi a fior di pelle, travolto da una forte crisi depressiva, ci mancò poco che non si suicidasse gettandosi dal quindicesimo piano della Bank of America Tower. Fortunatamente lo aveva bloccato un collega che aveva capito le sue intenzioni ma da quel giorno, dopo quel gesto sciagurato, Bailey si era rintanato nel suo monolocale preso in affitto a due isolati dalla Borsa. Nat Bailey stava cadendo nel baratro, doveva assolutamente capire cosa fare della propria vita, aveva toccato il fondo. Imbottito di psicofarmaci, dopo giorni e giorni di solitudine, il destino gli aveva riservato ancora una carta buona da giocare e una telefonata gli aveva salvato la vita. Linda, la sua ex ragazza ai tempi dell’università, ora sposata e madre di tre figli, l’aveva fatto ragionare sulla vita e, soprattutto, l’aveva convinto a desistere dal rimanere ancorato al mondo dell’alta finanza. Perciò, dopo diverse e costosissime sedute di psicoanalisi e svariate scatole di Prozac, Nat Bailey cercò e trovò un altro tipo di esistenza. Soprattutto si mise a cercare un altro mercato in cui lavorare.

    Nat era un tipo intelligente, la lezione gli era servita, perciò tornò a Vancouver da dove era partito poco più che venticinquenne. Dopotutto, un milione e duecentomila persone con cui condividere la giornata erano più che sufficienti, dopo l’esperienza vissuta in quel cesso che era New York. Inoltre, da Vancouver nel fine settimana c’era sempre la possibilità di organizzare qualche uscita di pesca al salmone nei fiumi dell’interno. Insomma, la vita poteva avere un altro sapore. E così fece. Si mise in proprio, aprì uno studio tutto suo e, grazie alla sua indiscussa intraprendenza, era diventato il broker di diverse assicurazioni mediche americane ed europee, un mercato tranquillo e sicuro. Bailey gestiva una bella fetta del business medico assicurativo mondiale e il suo piano innovativo prevedeva un accordo con una decina di modernissime e lussuose strutture ospedaliere private, sparse nel mondo. Da Bangkok a Delhi, da Singapore alla Malesia, dall’Argentina fino all’ultima nata, quella di Parigi. Erano strutture dotate di ogni comfort, compreso il servizio con limousine per i clienti più esigenti e facoltosi, da ritirare direttamente all’aeroporto. Chirurghi usciti dalle migliori scuole occidentali di medicina, rappresentavano la garanzia di un ottimo livello delle operazioni chirurgiche richieste. Era un mercato in continua ascesa, chiaro e lineare, come voleva lui. In America un’angioplastica costava 50.000 dollari; in India 6.000, e così via per tutte le operazioni di routine, perciò tutto questo rappresentava un forte risparmio sia per le compagnie di assicurazione, sia per gli assicurati. Dunque sempre più società, passando da Bailey, abbracciavano il cosiddetto turismo medico. Gli americani, gli europei, ma anche le persone provenienti da altri continenti, sembravano tutti molto soddisfatti. Gli affari quindi andavano bene per Nat che nel frattempo era diventato un buon pescatore di salmoni, anche se, sotto sotto, non era tipo da accontentarsi di una vita così perfetta. Senza rendersi conto, la sua mente imprenditoriale era sempre in movimento, proprio come durante gli anni trascorsi a New York. Del resto, Wall Street era stata una palestra ineguagliabile.

    Un giorno, mentre era seduto al bancone del bistrot dove faceva colazione ogni mattina prima di aprire lo studio, davanti a una tazza di caffè nero e un enorme piatto fumante di uova al bacon di cui non poteva fare a meno, Nat fu attirato da un articolo del Vancouver Daily. Colto da un forte impulso e dal fiuto per nuovi affari, riempì la bocca di uova, la inondò di caffè e iniziò a divorare, sia il cibo, sia l’articolo. Il pezzo era una sorta di reportage sulla situazione negli States per quanto riguardava il trapianto degli organi. Soprattutto evidenziava una grande verità: gli americani avevano grossi problemi a reperire organi. Le liste e i tempi d’attesa si stavano drammaticamente allungando, ma, in particolare, sempre più persone affette da gravi patologie guaribili solo con il trapianto rischiavano di morire. C’era da aspettare troppo. Intanto le richieste erano in continuo aumento. L’anno precedente, su settantamila persone in lista d’attesa, solo sedicimila avevano ottenuto un trapianto attraverso i canali previsti, cioè le liste gestite dagli ospedali. L’articolo era una sorta di grido d’allarme che coinvolgeva ovviamente anche il Canada, ma che si estendeva a quasi in tutto il mondo, compresa l’Europa. Il problema comunque riguardava tutti i Paesi industrializzati. Ingoiata la colazione come sempre di fretta, ormai non riusciva più a mangiare lentamente, Bailey alzò lo sguardò, lo lasciò vagare nel nulla e si chiese che cosa potesse fare per trasformare quella situazione in un’occasione da sfruttare per fare business. In effetti, fino a quel giorno aveva intrapreso strade parallele, ma non gli era mai balenato nella testa di creare una rete specifica dedicata esclusivamente al trapianto di organi vitali. Uscito dal locale, s’incamminò a piedi lungo le due vie che separavano il Daggy bistrò dal suo ufficio con vista sul mare, in McGill Street. Il traffico ordinato di Vancouver scivolava tranquillo accanto ai suoi pensieri che stavano progettando teorie e possibili strategie. Quando entrò nel suo ufficio e accese il computer, gli si erano schiarite un paio di idee. La sua mente sempre pronta e allenata non si era smentita.

    A distanza di due anni dalla colazione davanti a quell’articolo di giornale, Nat Bailey, grazie anche ai numerosi contatti sparsi in giro per il mondo, si era guadagnato il trenta per cento del fiorente mercato clandestino dei trapianti di organi. La sua grande esperienza di mediatore gli permise di concepire un sistema molto ben pianificato e strutturato. Dal suo ufficio di Vancouver filtrava le richieste provenienti dalle più disparate nazioni del globo. Si trattava di persone bisognose di trapianti urgenti, disposte a pagare di tasca propria pur di effettuare l’intervento di cui necessitavano, saltando così gli organismi sanitari ufficiali. C’era di tutto, da facoltosi anziani, a ricche famiglie con figli giovani seriamente ammalati, e non mancavano in modo particolare i bambini, tutti accomunati da gravi disfunzioni o patologie e quindi da una gran fretta di garantirsi il proseguo della vita. Bailey prendeva in esame caso per caso e li indirizzava nelle cliniche più vicine o, dove gli stessi pazienti richiedevano. Tra le strutture a disposizione, Parigi era sorprendentemente quella più richiesta. All’inizio Nat si era appoggiato alle cliniche in Asia, ma a un certo punto il mercato gli impose di trovare una soluzione anche in Europa e Parigi era perfetta sotto tutti i punti di vista. Anche qui, professionisti di alto livello, medici chirurghi, anestesisti e personale sanitario di prim’ordine effettuavano le operazioni e assistevano i pazienti. Nat Bailey era in grado di trovare celermente organi umani provenienti prevalentemente dalla Cina o dall’Africa ma anche dall’Europa, i quali venivano messi a disposizione per essere impiantati alle persone ricoverate nelle cliniche private di Denver, Shanghai, New Delhi, Bangkok, Kuala Lumpur e, appunto, Parigi. A seconda del Paese di provenienza dell’organo e delle cliniche scelte, vi erano diverse tipologie di prezzi, in ogni caso, in media, rivolgendosi a Bailey, il broker di Vancouver, si pagavano 60.000 dollari tutto compreso per un trapianto di rene, anziché 100.000, come richiesto in America, e tutto ciò senza lunghe attese. Le richieste continuavano ad aumentare, sia attraverso le agenzie sanitarie nazionali, sia sul mercato nero, tanto che gli ambienti progressisti americani avevano iniziato a proporre un allargamento e uno sviluppo del mercato legale degli organi, ipotizzando addirittura la vendita regolamentata di reni da parte di donatori volontari. Tuttavia le leggi statali in tutto il mondo ne vietavano la facoltà, perciò, al momento, non vi era altra via d’uscita e tutto ciò non poteva che far prevedere una sempre maggiore richiesta di organi, soprattutto dall’America e dai paesi dell’Est, Russia per prima. Di tutto ciò Nat Bailey era pienamente e felicemente cosciente. C’era solo un dettaglio oscuro dietro a questo fiorente business, un punto che rimaneva nero e unto come una macchia d’olio per terra. Non si trattava di una cosa da poco: il mercato clandestino era più vivo che mai per via dei traffici e delle tratte di esseri umani da parte delle organizzazioni criminali, le quali garantivano la reperibilità del materiale organico. Ma non era tutto. Spesso serviva trovare un organo specifico con urgenza, o per compatibilità di età, o altro. Ecco perché la presenza delle squadre che lavoravano per la Mig era fondamentale per Nat Bailey. Serviva gente addestrata e senza scrupoli che sequestrasse le persone individuate e ritenute idonee per gli espianti. Serviva gente con il sangue freddo e disposta a tutto.

    Capitolo 2

    Penitenziario di Wudang Shan – Cina centrale

    Collocato a quasi duemila metri di quota, all’imbocco della valle tra i monti Uxinq e Tuquan, due enormi speroni di roccia cenerina che sfioravano i tremila metri e facenti parte della catena montuosa del Dabashan, l’imponente carcere di massima sicurezza di Wudang Shan ospitava circa duemilacinquecento detenuti, tutti in attesa dell’unica e crudele sentenza: la morte. Il penitenziario era un ex castello risalente al 1400, in gran parte costituito da pietre, tranne i settori C e D che, invece, erano di recente costruzione. Anch’esso, come le montagne che lo dominavano dall’alto, con il suo colore grigiastro possedeva una parvenza austera e sinistra al tempo stesso. Osservandola da lontano, la prigione dava l’impressione di un’indefinibile ma per nulla affabile belva dormiente, pronta a divorare la malcapitata preda che si aggirasse da quelle parti. Dalia la intravide da molto più in basso, a circa quattro chilometri di distanza, mentre percorreva la strada stretta e piena di curve che collegava il penitenziario, a Pan Xian. Pan Xian era un piccolo villaggio montano di cinquemila anime, rimasto a lungo isolato l’inverno precedente a causa delle violente tempeste di neve che si erano abbattute dal nord fino al sud del Paese. In quella circostanza milioni di persone rimasero bloccate, le nevicate misero in ginocchio parte della Cina a causa della mancanza di energia elettrica, di acqua corrente, oltre che naturalmente di generi alimentari di prima necessità. Un gran numero di cinesi in viaggio per la festività del capodanno lunare furono intrappolati anche in quelle zone, al punto che si dovettero accampare nelle stazioni ferroviarie o in appositi campi allestiti dall’esercito. Altri restarono isolati nelle campagne o nelle vallate per lunghi ed estenuanti giorni, continuamente tormentati dalle incessanti bufere di neve. Dalia provò un fastidioso senso di vuoto allo stomaco appena si rese conto di aver finalmente raggiunto quella dannata prigione, ma non c’era tempo per pensare. Perciò, seppur stremata da dodici interminabili giornate di viaggio e da complicazioni di varia natura, fissò Wudang Shan con uno sguardo esausto, ma allo stesso tempo liberato dall’ansia che l’aveva divorata per giorni e giorni. Il timore di non riuscire a raggiungerlo l’aveva lentamente consumata e più di una volta aveva visto vicina la decisione di dover rinunciare a tutto e tornare in Italia a mani vuote. Fortunatamente con lei c’era Massimiliano Colli, un fotoreporter torinese dallo spirito libero, molto appassionato del proprio lavoro e al tempo stesso abituato a muoversi in condizioni difficili. Massimiliano aveva alle spalle numerosi reportage fatti all’estero e in Cina c’era già stato tre volte. La sua presenza era fondamentale, le aveva spiegato e insegnato tante cose. Max, come lo chiamava amichevolmente lei, l’aveva costantemente aiutata a sopportare la durezza di quel viaggio. Colli era un ragazzo magrissimo intorno ai trentacinque anni, sempre allegro, perennemente affamato a dispetto della sua apparente gracilità quasi disarmante, che mascherava dentro comodi abiti da trekking che coprivano in parte la sua magrezza. Tutt’ossa, capelli lunghi e neri raccolti in una treccia disordinata, barba scura e trasandata ma soprattutto sempre pallido in volto, fungeva anche da autista, oltre che da interprete. Conoscendo un po’ la Cina, sapeva come avventurarsi in quella terra gigantesca, dove i giornalisti erano considerati dei fastidiosi ficcanaso, quindi persone indesiderate. Prima di arrivare lassù, si erano lasciati alle spalle non solo migliaia di chilometri tra voli aerei, trasferimenti in treno e in macchina, ma più di tutto, una serie di estenuanti attese a Shanghai, per le autorizzazioni previste dalla legge locale. Con la scusa che assomigliavano a due appartenenti ad Amnesty International e perciò considerate persone sgradite al governo, la polizia li aveva dapprima interrogati in due diverse caserme, dopodiché furono tenuti per tre giorni rinchiusi nel loro albergo senza poter comunicare con nessuno. Solo al termine del quarto giorno di permanenza nel Paese di Mao Tze Tung, Dalia e Massimiliano poterono mettersi in contatto con la redazione del giornale in Italia, il quale mandò immediatamente la conferma che dovevano realizzare un servizio giornalistico a scopo turistico. La Cina, nonostante facesse parte delle grandi potenze economiche mondiali, non amava i giornalisti, tanto meno quelli stranieri, e sebbene le Olimpiadi fossero state un’ottima occasione per fare bello sfoggio delle bellezze dei luoghi e della gente, il Paese del dragone sfruttava tutte le situazioni per dimostrare al mondo intero che la propria democrazia esisteva davvero. Non poteva rimetterci la faccia soprattutto ora che era diventata una nazione moderna e industrializzata. Ma l’apparenza era una cosa, la realtà, invece, era ben diversa e bene architettata. Il sistema di controllo nel Paese era celato dietro a una parvenza garbata ma molto sfiancante da parte della polizia. Perfino Internet era tenuto sotto costante osservazione e censura. Sovente erano oscurati siti ritenuti scomodi o pericolosi per il governo. Un gruppo molto specializzato della polizia monitorava gli utenti attraverso un nuovo sistema operativo computerizzato che permetteva di codificare i nomi di chi utilizzava la rete. Tramite una chiave, un identificativo alfa-numerico di diciotto lettere basato sulla data di nascita di ogni singolo cittadino, il sistema era in grado di fornire un numero unico per ogni navigatore, di modo che questi poteva essere non solo controllato, ma anche eventualmente identificato. Non solo: per scoraggiare e limitare l’utilizzo della rete, dopo due ore di navigazione i costi diventavano altissimi. Inoltre passate le tre ore, il credito a disposizione era estinto sia che gli utilizzatori fossero giovani, sia che fossero commercianti o funzionari dello Stato. In particolar modo questa limitazione voleva colpire le attività dei giornalisti residenti in Cina. A denti stretti dunque, cavillando all’inverosimile, le autorità cinesi rilasciarono finalmente i visti di autorizzazione ai due giornalisti italiani. Superate quelle prime difficoltà, con i lasciapassare in tasca, Dalia e Max poterono partire, lasciandosi alle spalle l’aria pesante e inquinata di smog di Shanghai, e in seguito di Pechino.

    Dalia, nonostante tenesse costantemente sott’occhio il penitenziario, afferrò nervosamente lo zaino che teneva tra le gambe, lo aprì e controllò per l’ennesima volta gli appunti, e gli schizzi contenuti nella sua inseparabile agenda verde, così importante per quel viaggio e per la sua inchiesta giornalistica.

    Tra un paio di chilometri gridò Dalia verso Massimiliano per contrastare il rumore e le vibrazioni del motore del datato fuoristrada dovremmo trovare una serie di gallerie, alla fine di queste, un ponte. In quel punto dobbiamo lasciare la jeep. Dalia parlò senza staccare gli occhi dalla cartina geografica che teneva in mano. Fuori il tempo era livido, una pioggia leggera ma insistente cadeva senza sosta sull’asfalto bagnato e la giornata diffondeva un’atmosfera grigia e opprimente. Dalia percepì un brivido di umidità sulla pelle, perciò cercò di accendere il riscaldamento della jeep, ma dopo vari tentativi, capì che non funzionava. Intanto, dentro l’abitacolo sempre più freddo, l’odore d’olio bruciato iniziò a farsi sentire pesantemente dopo tutte quelle ore di viaggio. Massimiliano rispose nervosamente solo con un cenno del capo. Teneva lo sguardo fisso e attento in avanti, verso la strada, mentre le sue mani strinsero con più forza il volante, al punto tale che le nocche diventarono bianche. Era agitato pure lui, il suo volto teso sembrava più scavato e slavato del solito. Il momento tanto atteso si stava finalmente avvicinando ed entrambi erano provati. Rimasero in silenzio con gli occhi pronti a catturare qualsiasi cosa apparisse davanti a loro, ascoltando il motore della jeep che ruggiva sopra la strada sempre più ripida, bagnata e stretta. Il cielo nel frattempo s’infittì di una coltre di nubi violacee. Sopra di loro, in lontananza, le cime dei monti apparirono fasciate da una foschia grigia: era nevischio. Quando furono nei pressi della zona presumibilmente controllata dal sistema di sicurezza del penitenziario, raggiunsero una boscaglia formata per lo più da arbusti verdi molto nerboruti, ai margini della quale nascosero il veicolo. Il cielo era plumbeo, aveva smesso di piovere e l’aria si era fatta più fredda. Perfettamente sincronizzati e senza perdere tempo, i due giovani, riparati da calde giacche, caricarono gli zaini e si avviarono a piedi, uno dietro l’altro. Camminarono taciturni e pensierosi per quasi quaranta minuti, fino a guadagnare un’altura che dominava Wudang Shan. Anche qui, senza nessun indugio, Massimiliano si tolse lo zaino e si appostò dietro a un grande sasso, dopo aver montato un potente teleobiettivo sulla sua inseparabile Canon.

    Non ci rimane che attendere disse Dalia alle sue spalle. Aveva le labbra fini e biancastre, oltre che screpolate a causa del vento gelido. La stanchezza le aveva rese tanto sottili, da far sembrare la sua bocca una fessura. Con un movimento agile, Dalia lasciò che il suo corpo longilineo affiancasse quello del suo compagno di viaggio, poi si adagiò con disinvoltura sull’erba gialla bruciata dal freddo. Lui la sfiorò per un attimo con lo sguardo, dopodiché entrambi fissarono il famigerato carcere di Wudang Shan. Dalia era elettrizzata, aveva lottato con caparbietà per essere lì, e ce l’aveva fatta, anche se ora iniziava la parte più difficile e incerta. Una folata dell’ultima aria invernale che spirava dalla Mongolia le scompigliò i capelli castani e le pizzicò la pelle chiara e delicata del viso. Dalia amava la montagna, era il suo ambiente preferito, anche se adesso doveva trattenere un brivido freddo che tentava di destabilizzarla. Quella era una missione pericolosa e non era affatto un trekking turistico. Voleva rimanere lucida e concentrata, anche se a ben pensarci, doveva essere un giorno speciale per lei: infatti, compiva trentotto anni. Improvvisamente ebbe la sensazione che il tempo stesse trascorrendo troppo velocemente, soprattutto dopo quell’improvvisa scoperta che l’aveva animata di un forte senso di giustizia e che l’aveva portata a cercare a tutti i costi le prove definitive dello scempio di cui era venuta a conoscenza. L’inesperienza e le aspettative della sua ancora giovane età, si erano liquefatte, per fare posto all’etica e alla determinazione con la quale viveva il ruolo di giornalista d’inchiesta. Era quanto aveva appreso all’università e successivamente ampliato nei master, fatti in Europa e negli Stati Uniti. Questo bagaglio di conoscenze aveva fatto di lei un’irreprensibile giornalista, ispirata alla verità dei fatti, sempre e comunque. Una reporter convinta, insomma. Amava sempre di più il suo lavoro ed era un’ostinata per natura. Racchiusa in una bellezza semplice e per nulla appariscente, quella classica della ragazza della porta accanto, Dalia sprizzava naturalezza e fragilità al tempo stesso. Inoltre, le apparteneva un certo fascino che era destinato ad aumentare nel corso della vita. Dalia si sentiva talmente coinvolta da quella missione che si era scordata di quella sottile, leggera e delicata sensazione di gioia che si prova dentro il cuore il giorno del proprio compleanno. Nemmeno quel vento maligno pareva distoglierla. Di tanto in tanto si soffiava il naso ormai arrossato e raffreddato, quindi si ricopriva la gola con una sciarpa e riprendeva a studiare la situazione attraverso un cannocchiale. In un altro posto, in un’altra circostanza, si sarebbe sicuramente persa qualche istante nei dolci ricordi delle feste di compleanno, quando era piccola e festeggiava condividendo emozioni e tanta gioia. La trepida attesa sfociava in allegria quando arrivavano le amiche, e poi le foto, i regali, e infine i giochi in compagnia. Poi, a un certo punto, non fu più così e per tanti anni, il giorno del suo compleanno divenne un momento tristissimo e di solitudine perché una parte di lei era stata divisa. Ma lassù, lontana da tutto e da tutti non era possibile lasciarsi andare ai ricordi, né alle ferite della vita. Nemmeno il pensiero di quei bei momenti lontani e delle rare immagini di sua madre felice la potevano distrarre. Adesso era lì, era giunto il momento della verità: la priorità era fare con consapevolezza il proprio lavoro di giornalista e verificare personalmente le fonti. Erano in gioco il senso del dovere ma anche la sua coscienza di donna credente in Dio e nei valori umani. Erano in gioco anche moltissime vite umane. Dalia si fece forza, anche se il fluire della tensione la pervase. Provò paura e sgomento, senza darlo a vedere a Massimiliano, che invece sembrava calmo e per nulla inquieto. Il tempo d’attesa la costrinse involontariamente a riflettere su quanto stava accadendo: si trovava in una terra lontana e sconosciuta, dove gli occidentali non erano di casa, in particolar modo i giornalisti. Nessuno sapeva esattamente in quale zona della Cina si trovasse, né la redazione del giornale, né tanto meno sua madre. Nessuno doveva sapere dov’era e cosa stesse facendo. Dalia fece un respiro profondo cercando di tornare in sé. Nei giorni precedenti, durante l’avvicinamento al penitenziario di Wudang Shan, il suo temperamento non arrivò mai ad ammettere al suo compagno di viaggio, l’ansia che stava provando. Non si sentiva affatto sicura, aveva sentito brutte storie riguardo alla Cina, anche se la gente, in generale, era semplice e buona, soprattutto nelle campagne. A un tratto smise di masticare il chewing gum e deglutì con vigore.

    Ormai sei qui sussurrò fai queste dannate fotografie e torna a casa.

    Rimasero così per più di un’ora, a prendersi il vento sulla faccia, continuando a scrutare l’ingresso ed eventuali movimenti all’interno del carcere. In realtà non accadde nulla a parte il cambio delle guardie, al di là dei vetri antiproiettile delle torrette. Finalmente, verso metà mattina, mancava una manciata di minuti alle 11.00, videro arrivare i furgoni che aspettavano. Si trattava di tre mezzi di medie dimensioni con il container refrigerato, di quelli comunemente utilizzati dalle ditte commerciali per il trasporto di merci da conservare al freddo e destinate al mercato alimentare. Sopra le cabine di guida sporgevano i potenti motori dei frigoriferi che tenevano bassa la temperatura all’interno del vano di carico. Gli autocarri non avevano alcuna scritta sui fianchi, con il loro colore bianco erano assolutamente anonimi. Dopo una breve attesa al check point, collocato sul lato est del carcere, i mezzi, passarono anche il secondo cancello sotto l’occhio attento dei guardiani armati fino ai denti. Sembrava che trasportassero derrate alimentari per le cucine della prigione e quindi si doveva trattare di un’operazione di routine. Infatti, fu così. I tempi per sbrigare i controlli furono brevissimi e gli autoveicoli sparirono ingoiati dall’enorme bocca dell’edificio. Poi tutto tornò come prima. Dalia si strinse nelle spalle per vincere il freddo, e a quel punto si rivolse a Massimiliano impegnato a scattare foto, i suoi occhi non si staccavano dal mirino della sua Canon.

    Tra poco sapremo se le informazioni di Gabriele erano vere!

    Dalia pronunciò quelle parole con la consapevolezza che i fatti che si svolgevano davanti ai suoi occhi non fossero quelli della normale attività del carcere. Gabriele Torre era scomparso la mattina del quindici febbraio di quello stesso anno. Uscito di casa dopo aver salutato la madre, fu ritrovato una settimana dopo, privo di vita in una discarica nelle campagne a fianco dell’autostrada, tra Torino e Alessandria. Per questo motivo, Massimiliano, aggiunse: Forse scopriremo se il povero Torre ci ha lasciato la pelle per qualcosa di veramente importante…

    Dalia deglutì con forza, dopodiché riprese a masticare con veemenza il chewing gum ormai indurito e privo di sapore. Ora non sentiva più il freddo, quelle parole le avevano procurato un sussulto al punto che il suo corpo, fu pervaso da un intenso calore. Con Gabriele Torre aveva diviso il banco di scuola per cinque anni, ai tempi del liceo, e, nonostante avessero fatto scelte universitarie differenti, erano rimasti sempre in contatto. Lei decise di intraprendere il percorso di studi verso il mondo del giornalismo, mentre Gabriele, con il talento per l’informatica che si ritrovava, proseguì gli studi tecnici e informatici. Capitava che per lunghi periodi non si sentissero, ma in occasione delle festività si scambiavano immancabilmente gli auguri, o ci scappava qualche incontro fugace per un caffè se uno dei due passava nelle rispettive città dove lavoravano. Tra loro c’era stima e un’amicizia sincera, rimasta intatta nel corso del tempo. Torre possedeva un carattere introverso, legava con pochissime persone ed era un tipo estremamente intelligente. Laureato con lode in ingegneria informatica, lavorava per la Cottin Space, una Small System Integrator, come si definisce tecnicamente oggi nel settore aerospaziale un’azienda di piccole dimensioni impegnata nella progettazione e costruzione di satelliti sotto la tonnellata di peso, utilizzati per le telecomunicazioni e per l’osservazione terrestre. La nanotecnologia era considerata un’attività specializzata in via di notevole sviluppo, un settore altamente all’avanguardia ed era considerato fonte importante per lo sviluppo delle ricerche, sia per il rilevamento della temperatura dell’atmosfera, sia per i controlli delle polveri leggere. La Cottin Space lavorava per committenti importanti, quali la Nasa, la Stazione Spaziale Internazionale o agenzie spaziali consorziate, e Ministeri o Regioni. Il lavoro non mancava di certo. Con lo sviluppo e l’apertura del mercato asiatico, l’azienda aveva installato in Cina una rete satellitare progettata da un team di astrofisici italiani, poiché le grandi metropoli cinesi erano quanto mai sotto l’inquietante morsa dell’inquinamento atmosferico. In agguato c’erano i trattati internazionali firmati a difesa dell’ambiente e il più grande Paese asiatico doveva darsi da fare se voleva rimanere nell’élite internazionale degli Stati che contano. Un paio di mesi dopo la realizzazione del progetto, Torre fu convocato d’urgenza dal suo capo, in quanto il software programmato per l’allineamento dei satelliti procurava dei problemi seri. In pratica si erano persi i settaggi iniziali della configurazione dello schema logico dei satelliti stessi. Pertanto il programma sembrava non fosse più in grado di controllare la disposizione di un paio di nanosatelliti, i quali, non solo si erano allontanati dai punti previsti, ma parevano non volerne sapere di ubbidire agli ordini impartiti dalla centrale operativa del sistema. In fretta e furia Gabriele Torre dovette mettere il sedere su un aereo e partire per Shanghai. Lì, per fortuna, il problema si rivelò meno ostico del previsto, in realtà la difficoltà di comprendersi con i tecnici cinesi al telefono e via e-mail, nonostante l’uso dell’inglese, aveva ingigantito la questione. In ogni caso, i due piccoli satelliti, non solo trasmettevano dati in modo discontinuo, ma si erano spostati diverse migliaia di chilometri più a nord, verso la zona più isolata e montuosa della Cina. Dopo aver riprogrammato le applicazioni e installato un nuovo software di supporto che facesse da guardiano, una specie di unità di crisi automatica, una settimana dopo Torre tornò in Italia. Era gennaio inoltrato, a Torino il freddo e l’umidità penetravano anche sotto il pesante giaccone. Tuttavia Gabriele era contento di essere tornato a casa, non amava viaggiare, fosse stato per lui, sarebbe rimasto sempre in Italia. Fu proprio in uno di questi pomeriggi freddi che fece l’inimmaginabile scoperta. Appena rientrato dal continente asiatico, desideroso di un caffè all’italiana, che tanto gli era mancato, dopo essersi seduto in un bar e aver ordinato un espresso, iniziò a sfogliare il quotidiano che aveva distrattamente acquistato alla solita edicola sotto casa. Come sempre aveva dato un’occhiata veloce ai titoli in prima pagina, dopodiché girò il giornale come di consuetudine e lo sfogliò iniziando dalla fine. Si trattava di un’abitudine irrinunciabile, legata al fatto che lui era mancino, per cui subiva la dominanza della parte destra del cervello. Era un gesto del tutto istintivo, poiché non riusciva a leggere il giornale iniziando dal primo foglio come la maggior parte delle persone.

    Iniziò dando un’occhiata alla cronaca sportiva, una lettura molto più distaccata rispetto a un tempo. Il calcio, piuttosto che uno sport, era diventato un mondo delirante che spendeva cifre stratosferiche e pagava i giocatori in modo immorale a scapito di una povertà sociale che invece aumentava pericolosamente anno dopo anno. Gli scandali delle scommesse erano alle spalle e il campionato pareva già essere dominato dalla Juventus. Per di più Torre, come suo padre e suo nonno, tifava per il Torino quindi la cosa lo indispettiva in maggior misura. E poi c’erano immancabilmente le tifoserie violente: un’altra vergogna. Lesse dell’ultima pensata architettata da un gruppo di facinorosi, appartenenti ai supporter di una squadra di serie C, che avevano teso un agguato ai tifosi della squadra rivale in un’area di servizio sull’autostrada tra la Toscana e l’Umbria. Tutto ciò era pazzesco, pensò Torre, il quale riuscì a detestare ancora una volta il mondo del pallone, anche se da piccolo ne era stato appassionato. Pure lui, come molti ragazzi, passava i pomeriggi giocando nei cortili o nei piccoli campi all’oratorio, sognando di diventare un campione. Puntò alla parte dedicata agli spettacoli e alla cultura. Il festival della canzone italiana di Sanremo era vicino. Gli ambienti fremevano e anche questa volta la discussione ruotava attorno ai super ospiti, ma soprattutto, sullo scandaloso cachet riconosciuto al conduttore. Altro schifo, intanto la gente era costretta a pagare il canone Rai. Torre girò impaziente alcuni fogli imbattendosi in una pagina che parlava di un viaggio di Papa Francesco. Lesse incuriosito le sue dichiarazioni sui migranti, e gli parvero fin da subito più consone a un politico che a un importante riferimento religioso, come avrebbe dovuto essere il Papa. La cosa non gli piacque un granché, anche se provava simpatia per quell’uomo sudamericano, diventato capo della Chiesa. L’argomento riguardava gli immigrati, o meglio, l’invasione ormai senza fine da parte dei migranti, provenienti dall’Africa. Torre ebbe la forte sensazione che si trattasse di dichiarazioni troppo forti e pericolose per il futuro dell’Europa e della stessa religione cristiana in generale. Secondo il suo punto di vista, sebbene non fosse razzista, stava diventando troppo rischioso aprire indistintamente ai flussi migratori. Si doveva trovare un altro sistema, anzi, un altro governo, altrimenti l’Italia e anche l’Europa avrebbero fatto una brutta fine, al di là di quello che diceva e pensava il Papa. Innervosito, affrontò la parte centrale con maggior interesse, si buttò sui pezzi dedicati alle cronache dall’estero. Constatò il solito massacro nella striscia di Gaza tra Palestinesi e l’esercito israeliano, una guerra senza fine. Passò a un trafiletto che commentava il braccio di ferro tra la Russia e la Bielorussia per il gas da esportare in Europa, ma non lo terminò, poiché la sua attenzione fu catturata da un reportage sulla Cina, scritto da un giornalista australiano, un tale Mark Irwine e tradotto da un corrispondente italiano.

    Il giornalista australiano parlava di organi umani trafugati in un carcere cinese, dove i detenuti erano in attesa della pena di morte. Gabriele si mise comodo e iniziò a leggere attentamente, assaporando in bocca il morbido e appagante sapore di caffè. Divorò alcuni paragrafi con un’avidità tale che staccò le gambe accavallate e appoggiò i gomiti al tavolino per leggere con maggior concentrazione. Le supposizioni di Mark Irwine erano agghiaccianti, tanto che Torre ne rimase sconvolto, forse perché era reduce dal viaggio in quel Paese e quindi fresco di quel mondo e di quella cultura, così differente e a tratti impenetrabile. In Cina e in Asia in generale, aveva conosciuto gente semplice e cordiale, ma in particolare Gabriele invidiava la loro filosofia di vita, molto meno stressante rispetto alla mentalità occidentale, sebbene fossero all’avanguardia in tutti i settori economici. Sconvolto, chiuse il giornale e tornò a casa. Quella sera stessa, controllando il computer di lavoro che aveva portato con sé in Cina, fece l’incredibile scoperta, ma allo stesso tempo, commise anche il suo più grande errore.

    Capitolo 3

    Gabriele Torre visionò, anzi, analizzò con cura il materiale informatico di cui disponeva sul suo computer dopo il viaggio in Cina. Si trattava di numerose copie di file criptati che contenevano le registrazioni delle attività dei nanosatelliti sfuggiti al controllo della base astrofisica di Shanghai. Dopo averli decifrati, constatò con stupore che sui supporti informatici non vi erano solo le immagini fotografate dal satellite messo in circolo dal suo programma, trovò pure le riprese registrate da un satellite militare, probabilmente vicino. Gabriele provò a ragionare sulla questione, arrivando alla conclusione che si doveva trattare di una casualità, oppure, tesi molto più probabile, che l’agenzia per l’ambiente cinese, committente dei nanosatelliti italiani, avesse parzialmente utilizzato per scopi legati al proprio ruolo civile, alcuni dati forniti dal satellite militare. Torre era a conoscenza che lo stesso tipo di collaborazione, naturalmente ben retribuita, avveniva anche in America, in Russia e in Australia, quindi, di per sé non rappresentava una coincidenza eclatante. Quello che gli parve incredibile invece, fu che trovò i filmati e le foto, a seconda dei casi, riguardanti il penitenziario di Wudang Shan, situato nella Cina centrale, proprio quello menzionato dal giornalista australiano Mark Irwine, nell’articolo apparso su uno dei maggiori quotidiani italiani. Il satellite che si era posizionato stabilmente in quell’area, aveva ripreso per più volte nel corso di quelle giornate l’entrata e l’uscita di vari automezzi dal carcere. Gabriele notò che tutti gli autocarri erano di appartenenza militare, con colori scuri e di grandi dimensioni, tranne tre. Questi ultimi erano furgoni di colore bianco, solitamente adibiti ai trasporti commerciali ed erano di piccole dimensioni. Si doveva trattare di mezzi con la cella frigorifera, poiché dalle immagini si notava un rigonfiamento sopra la cabina di guida. I tre mezzi entravano e uscivano da una porta laterale ed erano gli unici che lo facevano. Diversamente i camion statali utilizzavano sempre l’ingresso principale, cioè quello centrale. Forte di quello che aveva letto, Torre notò che i tre furgoni bianchi, quando arrivavano, procedevano da soli, uno dietro l’altro, mentre un’ora dopo, quando uscivano, avevano una macchina davanti e una dietro che chiudeva la colonna, come se fosse affidata loro una vera e propria scorta. Irwine sosteneva che a bordo dei mezzi gli uomini erano armati, come se quello che stavano trasportando fosse un carico di valore e perciò da non perdere per nessun motivo. Gabriele Torre studiò con la massima concentrazione le immagini, tornò indietro, rilesse l’articolo del giornalista australiano e controllò nuovamente il materiale che aveva a disposizione. Era tutto losco e alquanto misterioso, soprattutto quanto avveniva dopo l’uscita dal carcere. Ebbe la sensazione, anzi, la convinzione, che le gravi supposizioni fatte da Irwine fossero veramente reali, oltre che terribili. Poi, forse perché troppo coinvolto dalla scoperta, si stupì del fatto che l’articolo, seppur presente nella cronaca internazionale, non fosse stato messo in risalto in prima pagina. Eppure l’argomento era crudele e toccava aspetti sociali di una gravità estrema. In ogni caso, era così. Non sembrava che la testata giornalistica di quel quotidiano avesse l’intenzione di suscitare più di tanto scalpore. Pareva si fosse limitata a passare la notizia per dovere di cronaca, sebbene si parlasse di organi umani messi in vendita. C’era qualcosa che non andava. Gabriele, sempre più turbato, tornò a visionare le immagini. I filmati rimasti inavvertitamente sui suoi file, riguardavano un periodo piuttosto lungo, diciotto giorni per l’esattezza. Una casualità davvero impensabile sotto ogni punto di vista. Ai primi cenni di stanchezza, mise sul fuoco la macchinetta del caffè, quella più grande, e quella notte dormì pochissimo. Con la caffeina che lo teneva sveglio, rubò il sonno alla propria vita, controllando minuziosamente i viaggi effettuati in quel periodo dai tre furgoni bianchi. Ne contò sei, due alla settimana, sempre con gli stessi protocolli, orari e procedure di sicurezza. Sembrava uno schema fisso e ben rodato. Fece delle verifiche su Internet, cercando di capire meglio chi era Mark Irwine. Controllò il suo curriculum, voleva capire se era un professionista serio o se era solo un chiacchierone in cerca di notorietà. Lesse una parte delle sue inchieste e diede un’occhiata al suo blog, infine, come suggeriva lo stesso giornalista australiano nel suo articolo, andò su alcuni siti di associazioni umanitarie mondiali, dove non mancavano le conferme delle sue accuse. Wudang Shan era un luogo atroce, su quei furgoni vi erano organi rimossi ai detenuti condannati a morte e successivamente destinati al mercato clandestino mondiale. In certi ambienti si sapeva da tempo, anche la stampa mondiale lo aveva dichiarato, ma erano solo parole, a volte isolate ipotesi, e nessuno, a parte Mark Irwine, sembrava volesse cambiare le cose. Adesso, per la prima volta, c’erano delle immagini e per uno strano destino della vita, erano in mano proprio a lui, il riservato e sfigato Gabriele Torre.

    Due settimane più tardi, Gabriele Torre incontrò il signor Wang Tin che all’apparenza sembrava un mite diplomatico asiatico, ma in realtà era solo una facciata ottimamente studiata. L’incontro ebbe luogo durante un pomeriggio in un caffè dalle parti di piazza Cavour, a Torino. Dietro quel viso innocuo e occhialuto, l’uomo in giacca e cravatta, dal corpo minuto e dal comportamento molto gentile, si celava uno spietato funzionario del Ministero per la Sicurezza di Stato. Wang era un agente del servizio segreto cinese, particolarmente addestrato alle problematiche occidentali. Portava con sé un aspetto giovanile, aveva solo quarantatré anni e apparteneva al secondo Dipartimento del MSS, la divisione che si occupava di trovare informazioni militari attraverso agenti clandestini, mandati in missione all’estero. Inoltre, essendo specializzato nelle mediazioni, a volte si occupava di casi particolari, tipo quello del giovane italiano, sbucato dal nulla e ora seduto di fronte a lui a parlare di materiale che scottava. Wang Tin era rientrato dagli Stati Uniti da una decina di giorni. Ad Alexandria e a Seattle, aveva due contatti importanti. Si trattava di un americano facente parte dell’agenzia che vendeva armi agli alleati che aveva accesso ai progetti top secret militari, e di uno scienziato nato a Taiwan con doppia cittadinanza che viveva da anni in America. Quest’ultimo si chiamava Han Wei ed era uno degli ingegneri più quotati della Boeing, il colosso americano nel campo dell’aviazione. Gli obiettivi del lavoro di Wang Tin erano duplici. Il primo riguardava l’invio a Pechino di attrezzature di comando, di controllo, di comunicazione e di intelligence militari, destinate a Taiwan. L’altro, concerneva la fornitura al Paese comunista di dati segreti riguardanti lo shuttle della Nasa, compresi gli aerotrasporti pesanti, C17 e il missile Delta IV, ancora in fase di studio.

    Gabriele Torre ignorava che stava scherzando col fuoco, anche se faceva parte del suo piano entrare in contatto con quel mondo oscuro dei servizi di sicurezza. In pratica, dopo aver visionato le immagini registrate dai nanosatelliti impazziti, si convinse che quelle sequenze, frutto di una leggerezza o di una casualità fiabesca, potevano valere un bel gruzzolo se date in mano alla stampa. Era convinto che i giornali e le televisioni avrebbero fatto scoppiare un vero e proprio pandemonio mediatico, mettendo in cattiva luce la Cina. Anzi, secondo Gabriele sarebbe stato un duro colpo per l’immagine del grande Paese asiatico, e chissà, magari si potevano pure verificare delle ripercussioni politico-economiche. Pensò a lungo sulla questione, non c’era da scherzare con

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1