Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L'eredità spezzata
L'eredità spezzata
L'eredità spezzata
E-book294 pagine4 ore

L'eredità spezzata

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Di nuovo. Sta accadendo di nuovo. Il pensiero gli era appena esploso nella pancia e Angelo non riusciva a crederci. Per anni aveva ascoltato con sufficienza quelle storie familiari. Mezze storie, per la verità, delle quali in casa non si parlava. Parole tra ragazzi dette in semi clandestinità per spaventare i più piccoli, alle quali si era dedicato ben poco. Ma la sua età maledetta era già in vista da tempo e ora, quel giorno di fine aprile del 1945, era arrivata.”

In una Milano sospesa nelle immagini in bianco e nero dell’ultima guerra mondiale, si consuma il dramma familiare degli Spadario che si trascina di padre in figlio da generazioni. Domenico, Angelo e Ian, inseguiti dalla maledizione, rincorrono ossessivamente lo stesso desiderio di verità e, nel farlo, disperdono le loro famiglie tra l’America del primo ’900, l’Italia degli anni ’40 e la Sicilia di oggi.

*** L’autore

Igor Salomone vive a Milano e lavora in diverse città italiane. Si occupa di formazione e supervisione pedagogica, insegna all’Università, è maestro di arti marziali e ha all’attivo un’intensa produzione saggistica.
Nel libro-diario Con occhi di padre ha raccontato la sua esperienza con la figlia disabile. L’eredità spezzata è il suo primo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita5 mar 2018
ISBN9788827500613
L'eredità spezzata

Correlato a L'eredità spezzata

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su L'eredità spezzata

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L'eredità spezzata - Igor Salomone

    Igor Salomone

    L'eredità spezzata

    UUID: da3a9f4c-2310-11e8-a5b5-17532927e555

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Igor Salomone

    L’eredità spezzata

    Romanzo

    Igorsalomone.it

    Facebook.com/igor.salomone

    Cronachepedagogiche

    Copyright © 2018 Igor Salomone

    Tutti i diritti riservati.

    Foto by Dorillo Rota.

    Pubblicato con la

    Esclusiva Strategia Editoriale

    Self Publishing Vincente

    www.SelfPublishingVincente.it

    A tutti i padri della mia famiglia

    Spesso ci si imbatte nel proprio destino lungo la

    strada presa per evitarlo

    Terence Hill, Il mio nome è nessuno, 1973

    M° Oogwey, Kung fu Panda, 2008

    Scomparso

    Capitolo 1

    Milano, 29 aprile ’45

    Di nuovo. Sta accadendo di nuovo.

    Il pensiero gli era appena esploso nella pancia e Angelo non riusciva a crederci.

    Per anni aveva ascoltato con sufficienza quelle storie familiari. Mezze storie, per la verità, delle quali in casa non si parlava. Parole tra ragazzi dette in semi clandestinità per spaventare i più piccoli, alle quali si era dedicato ben poco, lasciando il compito al quintogenito, Pasquale, sempre in vena di scherzi. E poi, semmai, avrebbe dovuto essere lui quello terrorizzato. Dopotutto la sua età maledetta era già in vista e ora, quel giorno di fine aprile del 1945, era arrivata.

    «Dov’è nostro padre?» chiese entrando in casa con il cuore in gola ai fratelli e le sorelle raccolti attorno al tavolo del soggiorno.

    La madre, Assunta, donna minuta e delicata che non erano bastati otto parti e Dio solo sa quanti aborti a trasformare, si stava alzando proprio in quel momento.

    Un vento gelido d’ansia aveva accompagnato l’ingresso di Angelo, sospendendo per un attimo Assunta a metà, con la mano sinistra appoggiata sulla spalliera della sedia, il corpo già proteso in direzione delle camere e gli occhi puntati sul figlio maggiore appena piombato in mezzo a loro con quella domanda da non farsi. Stavano accuratamente evitando di porsela da ore, cresciuti com’erano nella sottile disciplina dell’evitare domande d’ogni tipo, specie se riguardavano cose di famiglia.

    Angelo conosceva molto bene quello sguardo, lo incontrava ogni mattina davanti allo specchio. Uno sguardo intenso e penetrante, capace d’essere, al tempo stesso, sfuggente. Diceva taci, non è il momento, "ci stanno i picciriddi", ingiungendo un silenzio denso di non detti. Ma era anche interrogativo: che c’è?, di cosa ti preoccupi?. E rassicurante: tranquillo, nente, ce la caveremo anche questa volta.

    In ogni caso, non ammetteva repliche.

    «Amoninne, le valige aspettano» disse Assunta rivolgendosi a Rosaria e Santa, le figlie più grandi, ancora sospesa a metà della sedia. Poi distolse lo sguardo dal figlio appena entrato e rapidamente, come era sua abitudine, guadagnò le camere al di là del corridoio, seguita dalle figlie chiamate all’appello.

    Angelo si sedette occupando uno dei posti lasciati vuoti, sperando di riuscire a calmarsi. Guardava le quattro paia d’occhi rimasti che lo scrutavano, sommergendolo di un misto d’ansia, smarrimento, incredulità, paura venata di terrore.

    I più piccoli, spaventati, non capivano l’agitazione sparsa nell’aria. Vedere in quello stato il fratello maggiore, solitamente così sicuro di sé, faceva battere il cuore e scendere sulle guance lacrime urgenti. Lucia stentava a trattenerle e Gaetano, di un anno più grande e di diverse lunghezze più spavaldo, la consolava trattenendo orgogliosamente le proprie.

    E poi perché fare i bagagli? per andare dove? stavano così bene in quella casa di Milano, l’unica conosciuta nella loro ancor breve vita, la casa dei giorni felici d’infanzia trascorsi con tutta la famiglia e nella quale nemmeno ricordavano d’essere arrivati. Cos’era successo? E cosa era successo al loro papà, uscito il giorno prima e non ancora tornato?

    Questo dicevano i loro sguardi. Questo tacevano le loro bocche. Piccoli, ma avevano già imparato il silenzio.

    Chi sembrava sapere ciò che stava accadendo, invece, era Nunzio, diciannovenne, terzo figlio e secondo maschio diventato uomo.

    Età scomode la sua e quella di Angelo. Nel mondo là fuori, appena oltre l’uscio di casa, un’infinità di loro coetanei stava morendo da anni con le armi in pugno. I più fortunati. Altri erano stati inghiottiti dai treni verso il Brennero «per andare a lavorare», veniva detto. Per non parlare di tutti quelli partiti alla volta di inferni caldissimi, o freddissimi, comunque immensamente lontani, e mai più rivisti.

    Loro invece erano lì e da lì non si erano mai mossi.

    «Sta arrivando il conto?» disse Nunzio a mezza bocca, più rivolto a se stesso che al maggiore.

    «Piantala!» rispose Angelo.

    Voleva bene a suo fratello, come a tutti gli altri, certo, ma era il più vicino a lui e avevano condiviso molte scelte negli ultimi anni. Mal sopportava però quell’aria saccente di chi aveva già capito tutto, da sempre. Forse per accorciare la differenza d’età e imporsi uomo più di quanto non fosse. Forse per reggere il peso di quel nome, Nunzio, ereditato non dal nonno paterno ma dal primogenito, nato, battezzato e subito morto.

    Però aveva ragione.

    «Invece di dire scemenze, vai a toglierti quella roba e vieni con me» gli disse con un sibilo, agitando rapidamente l’indice in direzione della divisa indossata, come sempre, dal fratello. Neppure in quel frangente mostrava di volersela scollare di dosso.

    «E dove dovremmo andare?»

    Nunzio era seccato per la perentorietà del maggiore e anche per il solito disprezzo verso ciò in cui avevano creduto. O, almeno, in cui lui aveva creduto.

    «Ti disegno una cartina...?» rispose Angelo mimando l’operazione con le mani mentre lanciava un’occhiata complice agli altri per buttarla in gioco e far capire al fratello riluttante di non volerne parlare lì.

    «Dai, muoviti, ti aspetto sul pianerottolo.»

    «Mamma, perché?»

    Rosaria si sentiva precipitata in un incubo. Solo due anni in meno di Angelo e, come lui, aveva impresso nella pelle il ricordo del loro lungo peregrinare al seguito degli spostamenti lavorativi del padre. Erano partiti da Agrigento quattordici anni prima e non si erano ancora fermati.

    «Speravo fosse finita, che la prossima sarebbe stata la casa del mio matrimonio, non un altro trasloco. E invece siamo qui, ancora una volta...»

    «Non stiamo traslocando, citrulla, stiamo scap-pan-do!» la interruppe in modo acido Santa, fulminata un microsecondo dopo dallo sguardo della madre.

    Santa era un problema, lo era stata si può dire dalla nascita. Essere la femmina di mezzo di sette figli, la poneva in una posizione scomoda che brandiva come arma a ogni occasione. Non era di diritto parte del drappello dei grandi, né del resto voleva riconoscersi in quei mocciosi di Gaetano e Lucia arrivati a far la parte dei principini nella reggia milanese.

    Con Pasquale si passavano meno di due anni, ma lei era diventata il bersaglio preferito della sua indole burlona, e non poteva certo aspettarsi da lui né complicità né solidarietà. Aveva scelto, quindi, di appartenere solo a se stessa.

    «Santa!» tuonò Assunta, capace, dall’alto del suo metro e mezzo, di mettere in riga un maresciallo dei carabinieri.

    «Non ti permettere di parlare a tua sorella in quel modo! Se hai finito di raccogliere le tue cose, torna di là con gli altri!»

    Rimasta sola in camera con la figlia più grande, poté rivolgersi a lei quasi da donna a donna. O da madre alla donna che prima o poi, per fortuna o purtroppo, sarebbe a sua volta diventata madre.

    «Rosaria» le disse sottovoce prendendole le mani fra le sue «la nostra famiglia è maledetta.»

    Rosaria abbassò gli occhi tentando invano di liberare la gola da un immenso e antico nodo.

    «Avevo sperato non fosse vero» continuò Assunta.

    «Non ho mai voluto se ne parlasse. Abbiamo percorso migliaia di chilometri in giro per l’Italia cambiando continuamente casa. Siete cresciuti senza mettere radici da nessuna parte e appena attecchivano vi abbiamo sradicato per trapiantarvi altrove. Mi sono persino arrabbiata se qualcuno osava pronunciare la parola destino… ma ho sbagliato.»

    Assunta, pensando fra sé e sé che il destino camminava più veloce di quanto loro non fossero riusciti a correre, distolse mani e sguardo dalla figlia per tornare a occupare entrambi con le valige, in paziente attesa d’essere chiuse.

    «Ora dovete andar via. Voi grandi dovete andar via. Non potete restare, lo capisci?»

    Mentre formulava questa domanda, la voce le si alzò per lo sforzo di comprimere una valigia e stringerne la cinghia. Il risultato fu più un ordine che un quesito.

    «Io devo rimanere qui con i più piccoli ad aspettare vostro padre, ma voi dovete andare.»

    Il punto dopo le ultime parole era chiaro e inequivocabile. Il discorso era chiuso. Ogni discorso. E ora dovevano lasciare di nuovo tutto dopo quattro anni. Quattro lunghi anni di speranze in procinto di andare in frantumi.

    Rosaria era arrivata a Milano ancora ragazzina, neanche il tempo di diventare una giovane donna pronta ad affacciarsi al mondo ed era già tutto finito. Gli amici, l’Università, una città così radicalmente diversa dalle sue origini, ma alla quale aveva iniziato ad affezionarsi, l’ennesima promessa di un nido familiare tanto desiderato, nonostante fosse piccolo e immerso per mesi in un deserto di nebbia.

    Un’altra vita faticosamente costruita da abbandonare correndo, in fuga da qualcosa che sembrava raggiungerli ovunque, per quanto provassero ad andare lontano. O a nascondersi.

    Era il destino della famiglia Spadario, sempre presente nei loro cuori e sempre lontano dalle loro bocche. Un destino pronto a bussare alla porta di casa con forbici e rasoio, per punire le donne come lei d’aver scelto la parte sbagliata della Storia.

    Erano giorni d’ansia, di smarrimento, di paura. Milano era immersa in un’atmosfera sinistra, una miscela di euforia e spasmodica attesa per alcuni e di minaccia incombente per altri. Ognuno attraversava trafelato quella terra di mezzo in cerca di qualcosa senza sapere cosa fosse, perché l’unica alternativa era sedersi e aspettarla.

    Mentre stavano andando a passo spedito verso piazza Albania lungo la via dei campi per incrociare meno gente possibile, Nunzio cercava di capire perché suo fratello Angelo fosse così sconvolto. Poco prima era entrato in casa affannato, sudato, rosso in faccia e con uno sguardo di rabbia mista a terrore. Non l’aveva mai visto così.

    Angelo era un tipo posato. Gli piaceva recitare la parte dell’erudito e correggeva tutti su tutto a partire dal vocabolario e dal fraseggio in lingua italiana, divenuta lingua ufficiale di famiglia da quando erano sbarcati nella capitale del Nord, rimuovendo per decreto il dialetto d’origine.

    Amava scherzare, ma aveva costruito di sé l’immagine di un giovane uomo serio e affidabile. Tutto il contrario della furia trafelata comparsa sulla soglia di casa quel dannato pomeriggio d’aprile del ’45.

    «Si può sapere cos’è successo?» chiese Nunzio al fratello senza ottenere risposta.

    «Stiamo andando dal Lungo…?» insistette nel tentativo di capire per lo meno dove accidenti corressero a quel modo, anche perché non era affatto sicuro fosse una buona idea andarsene in giro da soli.

    Da quattro giorni il mondo s’era come fermato, non si sapeva più nulla di nessuno, colpi di fucile e raffiche di mitra si davano il controcanto in lontananza, qualche volta vicini e inquietanti. Gruppi armati si aggiravano per le strade sgusciando furtivamente o con aperta spavalderia. Correvano di bocca in bocca voci terribili: tank nemici alle porte, i soldati, tedeschi e italiani, in fuga, sciopero generale nelle fabbriche, la città abbandonata nelle mani dei banditi, rappresaglie scatenate dagli antifascisti. Si sussurrava addirittura che il Duce fosse nelle mani dei traditori.

    Dunque ci doveva essere un buon motivo per cui, appena rientrato a casa, suo fratello era uscito nuovamente portandolo con sé.

    «Stiamo andando dal Lungo?» ripeté Nunzio, questa volta con una punta di stizza nella voce accentuata dal fiato grosso per l’andatura.

    «Machissenefrega del Lungo e di tutte le altre teste calde!» si decise a rispondere Angelo allargando le braccia e fermandosi di colpo, costringendo il fratello a fare marcia indietro per riavvicinarsi.

    «Nunzio» gli disse poggiandogli le mani sulle spalle e guardandolo dritto negli occhi «non c’è più nessuno, lo vuoi capire? sono tutti spariti, se la sono filata, il Lungo se l’è data a gambe e noi stiamo mangiando la sua polvere!»

    «… ma… allora dove si va? perché tanta fretta?» rispose Nunzio scosso dalla crudezza delle parole del fratello.

    «A cercare nostro padre. Dove cazzo vuoi che andiamo!» replicò Angelo tagliando corto, mentre si voltava riprendendo la volata nella direzione precedente. La parolaccia, inusuale sulle sue labbra, sigillava definitivamente il discorso, terrorizzando il fratello.

    Sino a quel momento Nunzio non si era dato pena più di tanto per il mancato rientro del loro padre la sera precedente. Non era la prima volta e il suo lavoro lo costringeva a turni strani, spesso stravolti anche improvvisamente in quei tempi di guerra e di penuria. E chiedere dove il padre fosse e a far cosa era l’ultima delle domande possibili.

    Ora, però, sembrava giunto il momento di tirarne fuori qualcuna nuova.

    «… pensi gli sia accaduto qualcosa?» chiese Nunzio arrancando a fianco del fratello, spaventato non tanto dalla sua domanda, quanto dai pensieri che porla faceva nascere in lui.

    «Sì»

    «…»

    «Veramente...?»

    «Sì»

    «…»

    Nunzio non capiva. Il fratello era uscito di casa quella mattina relativamente sereno. Di loro padre non sapevano nulla da più di ventiquattro ore, ma non sembrava ci fosse qualcosa di cui preoccuparsi. Potevano esserci mille motivi plausibili e, sopratutto, tranquillizzanti. Era uscito proprio per andare a cercarli.

    Poi era ripiombato in mezzo a loro in quel modo. E ora correva trascinandolo con sé e dicendo cose terribili.

    «Posso sapere dove sei stato oggi? cosa ti è successo?»

    «…»

    «Dai Lino» era il nomignolo autoconiato da Angelo appena arrivati a Milano, per esorcizzare quel diminutivo, Linu, aborrito e insopportabile.

    «Dai Lino, dimmi qualcosa, non capisco, mi hai fatto paura, me la sto facendo sotto, sei andato via e poi ades...»

    «Piazzale Loreto!» lo interruppe il fratello girando per un attimo lo sguardo e piantandolo, duro, negli occhi di Nunzio.

    «Sono arrivato sino a piazzale Loreto...» ripeté, e stavolta la durezza lasciò il posto a una sfumatura, inconfondibile, di orrore.

    «Non hai idea… non hai la minima idea… dobbiamo fare in fretta o siamo tutti morti. A cominciare da nostro padre.»

    Poi, fermandosi bruscamente e fermando anche suo fratello con un braccio, aggiunse: «Se non è già troppo tardi.»

    Angelo scrutò per un paio di secondi davanti a sé, poi girò lo sguardo tutt’intorno in cerca di qualcosa e infine si mise a correre cambiando bruscamente direzione.

    «Di là!» ordinò perentoriamente al fratello infilandosi in una stradina laterale, buia, polverosa, disseminata di ciarpame. Nunzio, appena prima di imboccare quel vicolo, vide con la coda dell’occhio ciò che stavano cercando di evitare. Non era chiaro se quel gruppo di uomini armati scorto a distanza li avesse visti o meno, però sembrava dirigersi in fretta verso di loro. E ciò era sufficiente per consigliare di allontanarsi il più velocemente possibile.

    Angelo guidò il fratello lungo un improbabile percorso a ostacoli, tra cortili, orti di guerra, prati fangosi, e cumuli di macerie. Dopo un po’ si fermarono ad ascoltare il rumore dei passi alle loro spalle, sempre più flebile. Ripresero il cammino, cercando di riguadagnare con un ampio giro, la destinazione iniziale, rallentando pian piano la corsa. Ormai li avevano seminati.

    Piazza Albania era poco più in là sulla loro sinistra. Avanzarono ancora un poco verso est, poi svoltarono sul viale che portava direttamente alla stazione di San Cristoforo, sul lato opposto della piazza.

    «Guarda guarda chi c’è!» disse il tipo appoggiato al mitra che gli si era parato davanti, rivolgendosi con un ghigno ai compagni.

    «Due dei picciotti Spadario...» aggiunse, pronunciando le ultime parole con la pesante parodia dell’accento siculo propria dei milanesi doc.

    Era Fausto, Angelo l’aveva riconosciuto immediatamente. Abitava nel loro stesso cortile, scala di fronte, terzo piano. Non gli era mai piaciuto. Né del resto era mai piaciuto a lui. E il tono di scherno con il quale li aveva accolti, glielo avrebbe confermato, se ce ne fosse stato bisogno.

    La loro famiglia non era particolarmente amata dai vicini, anzi, negli ultimi due anni era stata oggetto di un’invidia profonda e conclamata e loro, questo era certo, non avevano fatto nulla, ma proprio nulla, per evitare di suscitarla. L’invidia, si sa, è madre del rancore, e ora lo stava respirando a pieni polmoni nelle parole sarcastiche di quel coetaneo armato e minaccioso a cinque passi da loro.

    «Dove state andando così di fretta all’ora di cena...?» chiese Fausto imbracciando il mitra con studiata indifferenza.

    La domanda non era casuale. In quei tempi di penuria, di razionamento, di tessere annonarie, di pane nero, di surrogati, la tavola degli Spadario era sempre imbandita e accogliente. E Fausto non aveva perso occasione per sottolinearlo.

    I due fratelli indietreggiarono trattenendo l’istinto di voltarsi e scappare a gambe levate. Angelo, senza distogliere lo sguardo dalla banda armata che bloccava loro la strada, si avvicinò a Nunzio mettendosi in mezzo tra lui e quel manipolo di delinquenti.

    «Fila, ci penso io a questi, torna a casa di corsa e di’ alla mamma di non passare dalla stazione. Uscite dalla città a piedi se necessario e andate a prendere un treno per il sud a Melegnano, o anche oltre»

    «E tu?» esitò Nunzio.

    «Io vi raggiungo, vattene!»

    Nunzio face ancora qualche passo indietro sino a riguadagnare la stradina dalla quale erano sbucati poco prima, la imboccò nuovamente correndo a perdifiato, lasciandosi alle spalle il fratello con il cuore pesante d’angoscia.

    «Fermi! è inutile...» disse Fausto ai compagni pronti a lanciarsi al suo inseguimento. «Abbiamo il maggiore che si è gentilmente consegnato nelle nostre mani» disse muovendosi rapidamente verso di lui per tagliargli ogni possibile via di fuga.

    «E, a proposito… grazie di averci risparmiato la fatica di venirti a prendere sin dentro il tinello di casa tua.»

    Di nuovo, fu l’ultimo pensiero di Angelo, sta accadendo di nuovo.

    Verso Milano

    Capitolo 2

    In treno, 27 gennaio ‘41

    «Biglietti prego.»

    La voce baritonale e decisa del controllore scosse Angelo dal dormiveglia nel quale era scivolato dopo le prime lunghe ore di viaggio. Con un sobbalzo, sospinto dal ritmico sferragliare del treno, si mise a sedere, ricomponendosi.

    Un po’ gli seccava essere stato colto dal ferroviere sprofondato nel divanetto del compartimento in una posa così poco dignitosa, ma gli scuotimenti, i cigolii e i beccheggi della cuccetta notturna, avevano contribuito a frullare pensieri e preoccupazioni, lasciandolo con uno stato d’animo cupo e assonnato.

    Mentre frugava nelle tasche della giacca alla ricerca di quei dannati biglietti, controllati già diverse volte e diverse volte infilati a caso nel primo pertugio disponibile, fece un rapido giro di sguardi scattando un’istantanea mentale dell’intera famiglia ammassata in quei due metri cubi di esodo.

    Ne aveva ormai un’intera collezione di quelle fotografie immaginarie gettate alla rinfusa in qualche cassetto della memoria. Agrigento-Enna, Enna-Noto, Noto-Reggio Calabria, Reggio Calabria-Locri, Locri-Cittadella, Cittadella-Reggio Calabria e, ora, Reggio Calabria-Milano.

    «Viaggio piuttosto lungo...» commentò il controllore dopo aver punzonato per l’ennesima volta i documenti di viaggio di tutta la famiglia.

    Non hai nemmeno idea quanto, avrebbe voluto rispondere Angelo. Ma lo sguardo scrutatore e per nulla amichevole dell’uomo lo fece desistere.

    Erano un gruppo che dava nell’occhio: una donna con sette figli, quattro maschi e tre femmine, il più grande intorno ai vent’anni e la più piccola di cinque, in viaggio senza il capofamiglia in quei tempi di guerra, appariva quanto meno strana, se non sospetta.

    Non era sempre stato così.

    Le prime tratte, brevi tra Sicilia e Calabria, erano state anche meno affollate. Da Agrigento in realtà erano partiti in cinque: Assunta, Domenico e i primi tre figli, nell’ordine: Angelo, Rosaria e Nunzio. Poi gli Spadario avevano evidentemente deciso di marcare il territorio sfornando un figlio in ogni città attraversata. Dunque, di viaggio in viaggio, la carovana si era fatta più gremita. Ma ora stavano dirigendosi al Nord e non come quella toccata e fuga a Cittadella, stavano andando a Milano con l’intenzione, almeno così sembrava, di stabilirvisi.

    «Nostro padre è stato trasferito per lavoro e noi lo stiamo raggiungendo» rispose Angelo alla domanda inespressa del controllore.

    Il funzionario delle ferrovie aveva un accento decisamente nordico, mentre lui trasudava ancora meridione da ogni poro. Avrebbe ben presto fatto di tutto per mondarsi da questo peccato originale, cambiando abbigliamento, acconciatura, persino la parlata, con particolare attenzione alle inflessioni dialettali. Al momento però il suo incarnato, il suo modo di muoversi e il tono stesso delle sue parole, ne tradivano in modo inequivocabile le origini.

    «E siete calabresi?» domandò il controllore pronunciando calabresi come si trattasse di un reato e non di una provenienza geografica.

    «Sì…cioè, no! siamo siciliani, di Agrigento… o meglio, siamo originari di lì, ma non siamo nati tutti lì… insomma è una storia complicata» tagliò corto Angelo dopo essersi ingarbugliato non poco al primo tentativo di risposta.

    «Nostro padre è un sottufficiale della polizia carceraria ed è stato trasferito a San Vittore, ha presente? il carcere milanese...»

    Il riferimento allo status del capofamiglia avrebbe dissolto ogni dubbio sui motivi di quel viaggio familiare, Angelo lo sapeva e si era giocato il jolly. Non erano migranti in cerca di lavoro, non erano poco di buono senza fissa dimora, non erano, figuriamoci, degli antifascisti in fuga e nemmeno, per carità, degli ebrei.

    «Sembra ci sia un certo bisogno di personale di grande esperienza e pronto a fare sempre il proprio dovere, da quelle parti» rincarò

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1