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Pazzie di classe
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E-book295 pagine3 ore

Pazzie di classe

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Info su questo ebook

Storia e vita di un anno scolastico in un liceo milanese, dove avvengono battibecchi, schermaglie fra i vari insegnanti e allievi, non escluso il preside dell'istituto.

La goliardia viene amplificata per la cialtroneria della 'triade', ovvero tre studenti ripetenti che instaurano un clima liberale, scanzonato spesso a scapito dei professori.

Ai tre si accodano altri compagni arrivando all'occupazione dell'istituto, all'arresto del preside disonesto, senza trascurare l'aiuto per un docente la cui figlia è innamorata di uno trafficante di droga. Una recita natalizia viene rovinata da una battuta non prevista di un suggeritore al compagno recitante. Ripetute altre contese, condite da irridenti battute, alimentano la voglia a continuare a sfogliare le pagine.
LinguaItaliano
Data di uscita28 giu 2019
ISBN9788831620185
Pazzie di classe

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    Anteprima del libro

    Pazzie di classe - Carlo Toma

    633/1941.

    PRIMO GIORNO

    Quel ter­zo an­no di li­ceo sa­reb­be sta­to in­di­men­ti­ca­bi­le per tut­ti.

        Quel pri­mo gior­no di scuo­la la cam­pa­nel­la di fi­ne le­zio­ni suo­nò in ora­rio.

        Il pro­fes­so­re di Let­te­re, Giu­lio Brio­si, se­du­to al­la cat­te­dra, sta­va ul­ti­man­do di il­lu­stra­re il pro­gram­ma di quell’an­no, quan­do i ra­gaz­zi, in­cu­ran­ti del­le sue pa­ro­le, ini­zia­ro­no a in­se­ri­re nel­le car­tel­le i lo­ro li­bri, qua­der­ni, no­tes, pen­ne.

    Ra­gaz­zi, ma non po­te­te … un at­ti­mo che fi­ni­sco.

    Dal fon­do dell’au­la si sen­tì un Seee, stai fre­sco, prof che lo la­sciò di stuc­co.

    Co­sa…? Chi è sta­to, chi è sta­to?

      Un’ap­pe­na ac­cen­na­ta per­nac­chia si sen­tì pro­ve­ni­re dal­la stes­sa po­sta­zio­ne, in fon­do.

    Ra­di­ci; sei sta­to tu, eh?

    Io, prof? Ma non mi so­gne­rei mai

      Dall’al­tra par­te un ‘Prrrr" an­co­ra più ab­boz­za­to, fe­ce gi­ra­re di no­van­ta gra­di la fac­cia al­li­bi­ta del pro­fes­sor Brio­si.

    Vi­sto che non ero io, prof! in­si­nuò Ra­di­ci.

    Un al­tro an­no con voi… om­ma­don­na­san­ta ri­spo­se Brio­si.

        La clas­se si svuo­tò pre­sto, pas­san­do da­van­ti al­la cat­te­dra.

        L’in­se­gna­te cer­cò di dar­si un to­no, un aspet­to di 'non of­fe­so’ an­che se era sec­can­te il mo­do di con­ge­dar­si dei ra­gaz­zi.

      Nel cor­ri­do­io, co­me l’an­no pri­ma, si for­ma­va­no i grup­pi: quel­lo dei lo­di­gia­ni - ar­ri­va­va­no ap­pun­to da Lo­di - che, tra di­squi­si­re su ora­ri dei tre­ni per quel­la se­ra e di­spet­ti da fa­re, non era­no se­con­di a nes­su­no;

    i lec­ca’, in­ten­ti, chi più chi me­no, ad adu­la­re i va­ri in­se­gnan­ti che in­con­tra­va­no; i ‘pre­pa­ra­ti ’ sem­pre pre­oc­cu­pa­ti del­la pros­si­ma ve­ri­fi­ca scrit­ta o di co­sa avreb­be po­tu­to chie­de­re il pro­fes­so­re al­la pros­si­ma in­ter­ro­ga­zio­ne.

        Neu­tri a ogni clan,’Wal­te­ri­no’ Moi­ra­ghi, pic­co­lo ma sem­pre all’avan­guar­dia in quan­to a sti­le e mo­da, con il suo ‘Uo­mo Vo­gue’ in ta­sca, Ro­di­ga­ri Fran­ce­sco che se ne sta­va in di­spar­te per fu­mar­si le sue ‘Ca­mel’ nei ba­gni.

    SANDRO MAINARDI

      Lui­gi Mel­li, con i suoi due com­pa­ri Fran­co Na­bor­ri e Ce­sa­re Cop­pi­ci, era­no un clan a par­te, ’pre­ci­so’- si fa per di­re - ne­gli ora­ri. En­tra­va in clas­se sem­pre in ri­tar­do, qua­si tut­te le vol­te do­po l’ini­zio del­le le­zio­ni.

          Il pro­fes­sor San­dro Mai­nar­di, sen­tì bus­sa­re al­la por­ta, in­ter­rup­pe la spie­ga­zio­ne, gi­rò la fac­cia ver­so la por­ta che si aprì e ap­par­ve Cop­pi­ci se­gui­to da­gli al­tri due.

    ... e sta­vol­ta che è suc­ces­so? chie­se guar­dan­do l’oro­lo­gio.

    Prof, scu­si il ri­tar­do.  Non ci cre­de­rà ma ab­bia­mo sal­va­to una vi­ta ri­bat­té de­ci­so Cop­pi­ci con oc­chi bo­vi­ni.

      L’in­se­gnan­te al­zò gli oc­chi al cie­lo, la­scian­do ca­de­re le brac­cia lun­go i fian­chi, e in uno sbuf­fo do­man­dò …na vi­ta? Voi tre?

    Sì, si prof e si vol­tò ver­so la clas­se per far in­ten­de­re di non ri­de­re se l’aves­se spa­ra­ta gros­sa: Sì, pro­fes­so­re…ve­ni­va­mo da via An­fos­si. Sa dov’è?

    No.

    Via An­fos­si, e dai prof, quel­la che dà …

    Non m’in­te­res­sa sa­pe­re dov’è via An­fos­si, spie­ga la vi­ta sal­va­ta.

    Sì, si … ades­so spie­go. Era­va­mo sul mar­cia­pie­de Fran­chi­no, io e il Gi­gi…

    " Il Gi­gi? Oheè ‘pi­sto­la’, par­la chia­ro."

    Io io, prof in­ter­ven­ne Mel­li.

    Mmm, ‘ndia­mo avan­ti ri­pre­se scoc­cia­to Mai­nar­di sen­za de­gna­re di un mi­ni­mo sguar­do chi ave­va pre­ci­sa­to chi fos­se.

    Da un por­to­ne è usci­to un ca­val­lo…

        Mai­nar­di sor­mon­tò il lab­bro su­pe­rio­re con quel­lo sot­to, di­la­tò le pu­pil­le, av­vi­ci­nan­do­si ai tre che, sin­cro­ni, fe­ce­ro un pas­so in­die­tro, men­tre il bru­sio del­la clas­se si tra­sfor­ma­va in ri­so sof­fo­ca­to ge­ne­ra­le. Ce­sa­ri­no Cop­pi­ci gi­ra­va i suoi oc­chi da ‘man­za ap­pe­na mun­ta’ ver­so i com­pa­gni al­zan­do e ab­bas­san­do ri­pe­tu­ta­men­te le so­pra­ci­glia in at­te­sa di so­li­da­rie­tà dal­la clas­se.

    Un ca-va-llo? si espres­se sil­la­ban­do per be­ne l’in­se­gnan­te.

    Un ca­val­lo, prof, un ca­val­lo. Sta­va uscen­do da un por­to­ne…

      Dal fon­do una ri­sa­ta mal con­te­nu­ta in­ne­scò un gra­ci­dar di sin­ghioz­zi che erup­pe in una col­let­ti­va sghi­gnaz­za­ta.

    Zit­ti, zit­ti ur­lò il Mai­nar­di: " ‘por­coz­zio’, zit­ti. … è usci­to un ca­val­lo! "

    …si è im­biz­zar­ri­to e si è mes­so a cor­re­re per la via con­ti­nuò Cop­pi­ci: sul mar­cia­pie­de c’era gen­te, prof, al­lo­ra il Gi­gi….

    Lui? fe­ce Mai­nar­di ad­di­tan­do col pol­li­ce l’ami­co.

    Sì, lui con­ti­nuò de­glu­ten­do l’in­ter­ro­ga­to, gi­ran­do gli oc­chi ver­so ‘la pla­tea’ che in­cu­rio­si­ta vo­le­va sa­pe­re do­ve an­da­va a pa­ra­re, trat­te­ne­va il re­spi­ro per poi, di si­cu­ro, esplo­de­re in una ri­sa­ta.

    … l’ha rin­cor­so e gli è sal­ta­to so­pra.

        La fac­cia del Mai­nar­di si fe­ce schi­fa­ta: L’ha rin­cor­so e gli è sal­ta­to so­pra?

        L’in­se­gnan­te si av­vi­ci­na­va sem­pre più a Cop­pi­ci che si cur­va­va all’in­die­tro, gi­ran­do la te­sta ver­so i com­pa­gni.

    Vuoi due pe­da­te nel cu­lo? fe­ce Mai­nar­di.

    No prof, mi cre­da… pro­prio men­tre il ca­val­lo sta­va per tra­vol­ge­re una don­na che spin­ge­va il pas­seg­gi­no.

    Vai al po­sto, an­da­te al po­sto ur­lò Mai­nar­di.

    Prof, mi de­ve cre­de­re, noi…

    Non fi­nì la fra­se: la car­tel­let­ta del prof  sor­vo­lò le te­ste dei ra­gaz­zi e si schian­tò sul mu­ro in fon­do all’au­la, con un ru­mo­re sec­co e fuo­ru­sci­ta di fo­gli e quant’al­tro con­te­nu­to.

    Voi tre, di si­cu­ro, boc­cia­ti tut­ti e tre fe­ce se­den­do­si  al­la cat­te­dra l’in­se­gnan­te.

    Ma an­che te, un ca­val­lo … ma dai sbot­tò a bas­sa vo­ce Vil­la a Cop­pi­ci men­tre rac­co­glie­va i fo­gli spar­si per ter­ra.

    SPAGNUOLO

      Me­no tol­le­ran­te era quel­lo di ma­te­ma­ti­ca: il pro­fes­sor Spa­gnuo­lo.

        Vi­so sem­pre im­bron­cia­to, il na­so gob­bo sor­mon­ta­va una chio­sa di den­ti gial­la­stri, la nu­ca e le tem­pie ri­co­per­te dai ca­pel­li spet­ti­na­ti, era esi­gen­te  du­ran­te le le­zio­ni quan­to ca­vil­lo­so nel­la pun­tua­li­tà dell’ini­zio e la fi­ne del­le le­zio­ni. En­tra­va in clas­se al­la cam­pa­nel­la e ap­pe­na sen­ti­va quel­la ‘fi­ne ora’ in­ter­rom­pe­va, la­scian­do il po­sto al col­le­ga do­po. 

      Era un brav’uo­mo, con lo spi­ri­to dell’one­sto, quel­la for­ma la­ten­te di one­stà di chi non vuo­le che si sap­pia, ma af­fio­ra sen­za sfor­zo. Pe­ren­to­rio quan­to ba­sta­va, ma al­la fi­ne com­pa­ri­va sem­pre quel­la sua cor­ret­tez­za mi­sta a be­ne­vo­len­za che spes­so ap­pa­re e si ri­scon­tra nel por­ta­men­to del­la gen­te cam­pa­na.

        Ori­gi­na­rio di Sor­ren­to, era ve­do­vo da me­no di un an­no e su­sci­ta­va quel­la for­ma di ri­spet­to che si con­vie­ne a chi sen­za col­pa ha do­vu­to rim­boc­car­si le ma­ni­che e ini­zia­re una vi­ta nuo­va.

      Ave­va una fi­glia, ve­do­va an­che lei, mam­ma di una bam­bi­na, in­na­mo­ra­ta di uno spo­sa­to.  Que­sto le­ga­me non gli era gra­di­to. La vo­ce gi­ra­va per l’Isti­tu­to, e an­che di que­sto il pro­fes­sor Er­ne­sto Spa­gnuo­lo se ne do­le­va.

      Non ave­va le­ga­to con i col­le­ghi - sta­va ap­par­ta­to a con­sul­ta­re i suoi re­gi­stri, an­che se era un mo­do di ap­pa­ri­re im­pe­gna­to, ma era sua prio­ri­tà quel­la di non par­la­re con nes­su­no – tan­to­me­no con i ra­gaz­zi.

      In­di­men­ti­ca­bi­le quel com­pi­to in clas­se su po­li­no­mi di al­ge­bra quan­do al suo co­man­do: Con­se­gna­re, tut­ti, ades­so nes­su­no si al­zò dal pro­prio po­sto con l’in­ten­to, ognu­no, di fi­ni­re al me­glio la pro­va; pre­sa la por­ta, uscì dal­la’au­la, la­scian­do gli alun­ni scon­cer­ta­ti, as­si­cu­ran­do che: Vi met­to due a tut­ti.

      Spe­ria­mo in un’am­ni­stia di­chia­rò Ro­di­ga­ri, ap­pe­na la por­ta fu chiu­sa.

      Fran­ce­sco, que­sto fa sul se­rio…ci boc­cia tut­ti fu la ri­spo­sta di una vo­ce tra le tan­te.

      Mac­chè, non può, non può… pre­ci­sò il ’Rò­di­ga’.

      La le­zio­ne do­po, sbir­cian­do sul re­gi­stro – es­sen­do al pri­mo ban­co – Wal­ter Moi­ra­ghi no­tò una suc­ces­sio­ne di ‘due’ che scen­de­va dall’al­to in bas­so an­no­ta­ta sul re­gi­stro del pro­fes­sor Spa­gnuo­lo, a ca­ri­co di ogni no­me.

    " Pvo­fes­so­ve, pe­v­met­te?" osò Vil­la da un ban­co a me­tà clas­se.

      Spa­gnuo­lo al­zò la te­sta in se­gno di me­ra­vi­glia, a far in­ten­de­re Ple­beo, co­me osi! e poi con un len­to mo­vi­men­to del­la te­sta as­sen­tì.

    "L’alt­va vol­ta, nell’usci­ve ci dis­se che met­te­va ‘due’ a tut­ti, e …"

    Fat­to ri­spo­se sec­co l’in­se­gnan­te, sen­za al­za­re lo sguar­do, in­fi­lan­do la ma­no nel­la car­tel­la di cuo­io mar­ro­ne al­la ri­cer­ca del­la so­li­ta pen­na a sti­lo.

        Vil­la se­det­te stor­pian­do le lab­bra guar­dan­do ver­so gli al­tri.

    " …‘vca­mad­do­sca" dis­se sot­to­vo­ce.

        Spa­gnuo­lo da­va vo­ce e ascol­to so­lo a don Ro­mo­lo, il pre­te dell’Isti­tu­to, che, ol­tre a in­se­gna­re re­li­gio­ne nell’ora fa­col­ta­ti­va, se­de­va spes­so nel­la pic­co­la cap­pel­la a pre­ga­re e se qual­cu­no aves­se avu­to vo­glia di par­lar­gli, in quei mo­men­ti era di­spo­sto all’ascol­to.

      Spes­so Er­ne­sto Spa­gnuo­lo se­de­va ac­can­to al sa­cer­do­te e i due par­lot­ta­va­no, nes­su­no ave­va mai in­te­so di co­sa.

    IL ‘VASCO’

      Va­sco Scot­ti in­se­gna­va bio­lo­gia: pic­co­let­to, sem­pre ben ve­sti­to, ca­pel­li im­po­ma­ta­ti ti­ra­ti all’in­die­tro, con quel fa­re di pre­sun­ta on­ni­po­ten­za che da­va fa­sti­dio, co­me se la sua va­lu­ta­zio­ne a fi­ne an­no fos­se il giu­di­zio uni­ver­sa­le, con con­se­guen­ze fa­ta­li per il pro­sie­guo del­la vi­ta dei suoi alun­ni.

      Si at­teg­gia­va e mo­stra­va quel­la for­ma di sup­po­nen­za che tra­va­li­ca­va il buon­gu­sto ed il buon­sen­so, spe­cie nei ri­guar­di de­gli stu­den­ti. In­ter­ro­ga­va pas­seg­gian­do fra i ban­chi con in­se­ri­ta la sua Marl­bo­ro nel boc­chi­no ai la­ti del­la boc­ca, con do­man­de tra­boc­chet­to per in­dur­re lo stu­den­te in er­ro­re con­se­guen­te al suo am­bi­guo mo­do di far do­man­de.   

        Se la ri­spo­sta era er­ra­ta, si fer­ma­va di scat­to, con le spal­le ver­so l’in­ter­ro­ga­to e pro­se­gui­va nel suo in­ten­to dis­sa­cra­to­re ar­ti­co­lan­do giu­di­zi non cer­to be­ne­vo­li, guar­dan­do il sof­fit­to con aria sac­cen­te e iro­ni­ca.

    Che dif­fe­ren­ze tro­vi tra il DNA cel­lu­la­re, il DNA mi­to­con­dria­le e quel­lo ri­bo­so­mia­le? chie­se.

    Il po­ve­ro Ro­di­ga­ri si gi­rò ver­so i com­pa­gni in at­te­sa di sug­ge­ri­men­ti. Il Va­sco, che sta­va an­dan­do ver­so il fon­do dell’au­la, si gi­rò per tro­va­re in ’fla­gran­za di sug­ge­ri­men­to’ quel­li ai pri­mi ban­chi.

    Es­sen­do tre com­po­sti del­la stes­sa na­tu­ra, so­no tre aci­di ri­spo­se Fran­ce­sco, sol­le­van­do il men­to a oc­chi sbar­ra­ti, ver­so i com­pa­gni per ave­re sug­ge­ri­men­ti.

    Già, tre aci­di. So­lo que­sto? os­ser­vò il Va­sco fer­man­do­si a sfo­glia­re, spa­gi­nan­do ve­lo­ce con un pol­li­ce il te­sto sul ban­co di Na­bor­ri.

      L’au­la si riem­pì di si­len­zio: all’im­prov­vi­so il Va­sco si gi­rò.

    Al­lo­ra? spic­cò de­ci­so.

        Ro­di­ga­ri era im­pie­tri­to, non sa­pe­va, non sa­pe­va.

    Scot­ti si av­vi­ci­na­va sem­pre più al ra­gaz­zo, che lo fis­sa­va.

    Mai sen­ti­to par­la­re di zuc­che­ri, di ri­bo­sio, di ba­si azo­ta­te? pro­se­guì al­te­ro il Va­sco, sod­di­sfat­to di po­ter sca­ri­ca­re la pro­pria in­do­le me­schi­na su gio­va­ni, per lui ‘igno­ran­ti co­me so­ma­ri’.

    Ve­ra­men­te ho so­lo let­to, prof ac­cen­nò il Ro­di­ga­ri.

    Non ba­sta. Stu­dia­re vuol di­re met­te­re in te­sta co­se, con­cet­ti, no­zio­ni, … leg­ge­re…?  So­no tut­ti buo­ni a leg­ge­re. Vai avan­ti.

    Avan­ti… ? Prof, so­no già fer­mo pri­ma di par­ti­re fe­ce il ‘Ro­dì­ga’.

    Pu­re spi­ri­to­so. Al po­sto, due.

    ‘stia mor­mo­rò il ra­gaz­zo, rien­tran­do al pro­prio ban­co.

        Nes­su­no ha mai sco­per­to ne sco­pri­rà mai il Dna ri­bo­so­mia­le, da­to che non esi­ste.

        Scot­ti abi­ta­va al pri­mo pia­no di un con­do­mi­nio di pe­ri­fe­ria, si spo­sta­va con i mez­zi pub­bli­ci non aven­do la pa­ten­te.

        Era in con­fi­den­za con la por­tie­ra del­lo sta­bi­le, l’Or­nel­la, la qua­le gli pro­cu­ra­va del vi­no del Mon­fer­ra­to es­sen­do es­sa di quel­le par­ti.

      Il be­re per il Va­sco era una sua pas­sio­ne. Non di ra­do su­pe­ra­va la so­glia del buon­sen­so per cui spes­so, di se­ra, lo si sen­ti­va can­ta­re nel mo­do più be­ce­ro e sgua­ia­to.

      I suoi Fi­ga­ro qui, Fi­ga­ro là sto­na­va­no per il pa­laz­zo, spe­cie in esta­te.

      L’Or­nel­la sa­li­va cer­can­do di dis­sua­der­lo dal­la esi­bi­zio­ne, se non al­tro per non ave­re rim­brot­ti, la mat­ti­na do­po, da­gli al­tri in­qui­li­ni del pa­laz­zo.

        Scot­ti in quei mo­men­ti non era cer­to do­ma­bi­le, spe­cie da una don­na. L’im­pre­sa ri­sul­ta­va ar­dua. L’uni­ca va­ria­zio­ne era uno sto­na­tis­si­mo Am­maz­za­te oh! che in­to­na­va per in­ter­rom­pe­re la mo­no­to­nia del­la me­lo­dia ros­si­nia­na.

      Non era cer­to ben vi­sto da­gli stu­den­ti.  La sua au­ste­ri­tà lo se­pa­ra­va da lo­ro, non esi­ste­va nes­su­na con­fi­den­za, an­zi emer­ge­va una an­ti­pa­tia re­ci­pro­ca.

    BELLOCCHIO

    Ar­man­do Bel­loc­chio in­se­gna­va di­se­gno; pas­sa­ti da po­co i trent’an­ni, ar­ri­va­va sem­pre po­co pri­ma dell’ini­zio del­le le­zio­ni con il suo ru­mo­ro­so mo­to­ri­no, la vec­chia car­tel­la sul ser­ba­to­io, in bi­li­co tra le co­sce, at­tra­ver­sa­va il cor­ti­le del­la scuo­la per por­re il suo due ruo­te nel cor­ri­do­io con­fi­nan­te con lo stan­zi­no del­la cal­da­ia.

      Era sem­pre ben pet­ti­na­to e cu­ra­va mol­to il pro­prio aspet­to .

      Ap­pa­ri­va su­bi­to la sua omo­ses­sua­li­tà, con quel ac­co­mo­dar­si i lun­ghi ca­pel­li die­tro le orec­chie ap­pe­na tol­to il ca­sco, le sciar­pe co­lo­ra­te lan­gui­de sul pet­to, il suo par­la­re con le ma­ni mos­se con sciol­tez­za in avan­ti nell’aria a de­fi­ni­re me­glio le idee espres­se.

      A vol­te i ra­gaz­zi era­no già in au­la e lo ve­de­va­no ar­ri­va­re sul­la sua strom­bet­tan­te mo­to­ret­ta e, usci­to dal cor­ri­do­io, pas­sa­va per il piaz­za­le per ac­ce­de­re al­le au­le. C’era an­che chi osa­va.

    Oc­chio­fi­no, sem­pre tar­di, eh!

      Ar­man­do Bel­loc­chio al­za­ti gli oc­chi al­le fi­ne­stre, ac­co­mo­da­ta la sciar­pa sul pet­to, ti­ran­do­la in tut­ti i mo­di, ac­ce­le­rò l’an­da­tu­ra.

      Aper­ta d’im­pe­to la por­ta dell’au­la, but­tò la car­tel­la sul­la scri­va­nia e sbot­tò: Eh, eh, chi è sta­to, chi è sta­to?

      ‘Wal­te­ri­no’ Moi­ra­ghi pre­se co­rag­gio e, con sot­tin­te­sa iro­nia, ri­spo­se per tut­ti:

    A fa­re ?

        Ar­man­do Bel­loc­chio si chi­nò su di lui Eh, eh, … a fa­re? Chi è sta­to, chi è sta­to? ri­pe­té con­ci­ta­to con la vo­ce ri­dot­ta rau­ca.

        Tut­ti era­no ri­go­ro­sa­men­te se­ri, sen­za un mi­ni­mo ac­cen­no al ri­so. Il ghi­gno dell’Ar­man­do era se­rio, mi­nac­cio­so, con vo­glia di far ma­le, non im­por­ta­va a chi.

        Hai vi­sto chi è sta­to? con­ti­nuò ri­vol­gen­do­si a Moi­ra­ghi.

      A fa­re co­sa, prof ? A fa­re co­sa? eb­be a ri­spon­de­re an­co­ra ‘Wal­te­ri­no’ Moi­ra­ghi.

    " Mmm" gru­gnì il prof gi­ran­do­si ver­so la cat­te­dra.

      Se­du­to­si, ac­ca­val­lò le gam­be, die­de una pa­no­ra­mi­ca su tut­ta la clas­se.

    Vi stan­go tut­ti a fi­ne an­no, tut­tiii….

    Dal fon­do si le­vò un : Per­ché, co­sa ab­bia­mo fat­to prof?

      Bel­loc­chio si al­zò di scat­to, an­dò ver­so il fon­do ro­tean­do gli oc­chi al­la ri­cer­ca di chi ave­va chie­sto quel­lo che lui ri­te­ne­va ov­vio.

      Si fer­mò in fon­do do­ve ave­va po­sto Ro­di­ga­ri.

    Co­sa ave­te fat­to? …Oc­chio­fi­no è il tuo vi­ci­no di ca­sa, ca­pi­to!

      Tor­na­to al­la cat­te­dra, as­se­stò un pe­san­te bot­to a pu­gno chiu­so sul pia­na­le del­la stes­sa. Dal­la car­tel­la sci­vo­lò fuo­ri la ‘Set­ti­ma­na Enig­mi­sti­ca’ che Bel­loc­chio usa­va quan­do i ra­gaz­zi ave­va­no il lo­ro da fa­re nel di­se­gno. Al­zò an­co­ra le in­fe­ro­ci­te pu­pil­le ver­so i ra­gaz­zi e se­det­te.

    Vil­la! Al­la la­va­gna! sen­ten­ziò.

        Wal­ter Vil­la uscì sen­za vo­glia, agi­tan­do ver­so di sé la ma­no a di­ta uni­te do­man­dan­do per­ché pro­prio lui.

      Ma non era gior­na­ta per l’Ar­man­do: si sen­tì bus­sa­re all’uscio.

    Avan­ti ri­spo­se­ro in più di uno.

    Bel­loc­chio si stiz­zì con un’oc­chia­tac­cia ver­so gli alun­ni, la por­ta si aprì e fe­ce in­gres­so il pre­si­de, pro­fes­sor Gre­go­rio Pla­to­ne

    Buon­gior­no esor­dì.

    In pie­di, ra­gaz­zi, in pie­di dis­se sten­to­reo Bel­loc­chio, rin­fo­de­ran­do di fret­ta il gior­na­le enig­mi­sti­co fra i due lem­bi del­la car­tel­la an­co­ra aper­ta.

      I gio­va­ni si al­za­ro­no più per ri­spet­to ver­so il di­ret­to­re che per l’or­di­ne da­to da Bel­loc­chio.

    Co­me va? chie­se ge­ne­ri­co Pla­to­ne, mes­so­si da­van­ti agli stu­den­ti.

    Non ma­le, non ma­le, prof si sen­tì una vo­ce in fon­do all’au­la.

    Bel­loc­chio al­zò gli oc­chi per ca­pi­re chi fos­se.

    Pla­to­ne si av­viò per i ban­chi, len­ta­men­te, con un sor­ri­so com­pia­ciu­to.

      Wal­ter Vil­la in­tan­to, scor­sa la ri­vi­sta enig­mi­sti­ca fa­cen­te ca­po­li­no dal­la car­tel­la, eb­be idea di grat­ta­re il pia­no di fin­ta pel­le del­la scri­va­nia e, co­me ti­ra­to da uno spa­go in­vi­si­bi­le, il gior­na­li­no sci­vo­lò fuo­ri dal­la car­tel­la esi­ben­do­si in bel­la vi­sta.

      Di scat­to l’Ar­man­do sa­lì sul­la pre­del­la e col dor­so del­la ma­no spin­se ve­lo­ce la ri­vi­sta nel­la bor­sa. Poi - Pla­to­ne era gi­ra­to – as­se­stò un’oc­chia­ta bru­cian­te al ra­gaz­zo, fa­cen­do ro­tea­re la ma­no con l’in­di­ce te­so in se­gno poi si­ste­mia­mo i con­ti.

    Ar­ri­va­to in fon­do all’au­la, il pre­si­de si gi­rò e vi­de che il pro­fes­sor Bel­loc­chio sor­ri­de­va, con­ten­to – co­sì pen­sa­va lui – dell’ina­spet­ta­ta vi­si­ta.

    Mi rac­co­man­do ra­gaz­zi, im­pe­gno e buo­na vo­lon­tà. L’Isti­tu­to vi è vi­ci­no, ma voi do­ve­te met­ter­ce­la tut­ta. D’ac­cor­do? dis­se con una cer­ta en­fa­si.

    An­dò poi ver­so l’am­pia ve­tra­ta che da­va sul cor­ti­le e ne uscì con uno dei suoi so­li­ti ser­mo­ni.

    Sap­pia­te che il sa­pe­re non gua­sta mai. Co­me di­ce­va­no gli an­ti­chi ‘sa­pe­re è po­te­re’.  Vi da­rà sod­di­sfa­zio­ne ol­tre che per­so­na­li, vi aiu­te­rà nel vo­stro fu­tu­ro la­vo­ro, an­che nell’am­bi­to fa­mi­glia­re. Sia­mo fat­ti per la co­no­scen­za non per l’igno­ran­za, quin­di, co­me di­ce­vo, il do­ve­re al­lo stu­dio sa­rà vo­stro men­tre l’one­re di aiu­tar­vi spet­ta al cor­po in­se­gnan­te. Ve­ro pro­fes­sor Bel­loc­chio?

    Cer­to, cer­to ri­spo­se la­co­ni­co il prof.

    Poi, Pla­to­ne, gi­ra­to­si per guar­da­re fuo­ri, dan­do le spal­le al­la clas­se, fe­ce: Già, ca­ro Bel­loc­chio. Da qui si ha una ve­du­ta co­me in nes­sun’al­tra au­la del­la scuo­la, ve­ro?

    Ve­ro ri­spo­se an­co­ra l’Ar­man­do av­vi­ci­nan­do­si al suo su­pe­rio­re.

      Ma un ru­mo­re lie­ve di graf­fi gli fe­ce gi­ra­re il ca­po. Si fer­mò.

        Vil­la sta­va an­co­ra ri­ten­tan­do nel­la sua im­pre­sa: con­cen­tra­to sul suo mal­sa­no in­ten­to, ra­schia­va con le un­ghie nei pa­rag­gi del­la car­tel­la per far usci­re an­co­ra quel­lo che sa­reb­be sta­to op­por­tu­no che il si­gnor pre­si­de non ve­des­se.

    De­lin­quen­te, por­co gli as­se­stò sot­to­vo­ce Bel­loc­chio. E ri­fe­ce il ge­sto del­la ma­no con l’in­di­ce ruo­tan­te.

      Pla­to­ne tor­na­to sui suoi bre­vi pas­si, sa­lì sul­la pre­del­la e aper­to il re­gi­stro di clas­se, les­se con tan­to di " Umh" e ri­pe­tu­ti se­gno di as­sen­so, sen­za che nes­su­no po­tes­se com­pren­de­re co­sa ci fos­se da ap­pro­va­re.

    Que­sto con tut­te que­ste as­sen­ze?do­man­dò a Bel­loc­chio, pun­tan­do l’in­di­ce su di un no­me del re­gi­stro.

        Bel­loc­chio si chi­nò per ve­de­re me­glio: Si è ri­ti­ra­to ri­spo­se.

    Si è ri­ti­ra­to. E quan­do? co­me mai?

      Bel­loc­chio non eb­be la ri­spo­sta pron­ta, poi con un so­spi­ro: Tem­po fa, die­ci gior­ni fa, for­se .

    Seee… di più, di più si udì dal­la clas­se.

    Il pre­si­de al­zò di scat­to gli oc­chi ver­so do­ve pro­ve­ni­va la vo­ce poi ver­so l’Ar­man­do. Di più?…ed io non ne sa­pe­vo nien­te? Ven­ga da me al­la fi­ne del­la le­zio­ne, pro­fes­sor Bel­loc­chio. E con un: Ar­ri­ve­der­ci ra­gaz­zi pre­se l’usci­ta sen­za de­gna­re di un sa­lu­to il po­ve­ro Bel­loc­chio, che fu­rio­so si sca­te­nò: Ma chi è sta­to quel pir­la, chi è sta­to…? Ra­di­ci?

    Ra­di­ci co­sa? Prof … io non ho par­la­to.

    Qui non par­la mai nes­su­no, ve­ro? Dov’è … Vil­la? Do­ve sei? Sei un vi­gliac­co ol­tre che un pir­la.

    " Pev co­sa? E’ sta­ta una bva­va­ta, pvof, dai, non mi pa­ve il ca­so…." ri­spo­se Vil­la, tor­na­to al pro­prio ban­co.

        Per ri­spo­sta Bel­loc­chio sce­se la pe­da­na e ve­lo­ce an­dò ver­so di lui e ini­ziò a ti­ra­re pe­da­te su­gli stin­chi del gio­va­ne sot­to il ban­co.

    I do­lo­ri del gio­va­ne Wal­ter fe­ce Si­bo­ni dal pri­mo ban­co.

      Wal­ter Vil­la si di­fen­de­va met­ten­do da­van­ti a sé la se­dia per non es­se­re ri­pe­tu­ta­men­te col­pi­to dai cal­ci che l’Ar­man­do as­se­sta­va.

    " Gra-ndi-ssi-mo ‘pi-sto-la’, te - la –

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