Pazzie di classe
Di Carlo Toma
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Anteprima del libro
Pazzie di classe - Carlo Toma
633/1941.
PRIMO GIORNO
Quel terzo anno di liceo sarebbe stato indimenticabile per tutti.
Quel primo giorno di scuola la campanella di fine lezioni suonò in orario.
Il professore di Lettere, Giulio Briosi, seduto alla cattedra, stava ultimando di illustrare il programma di quell’anno, quando i ragazzi, incuranti delle sue parole, iniziarono a inserire nelle cartelle i loro libri, quaderni, notes, penne.
Ragazzi, ma non potete … un attimo che finisco.
Dal fondo dell’aula si sentì un Seee, stai fresco, prof
che lo lasciò di stucco.
Cosa…? Chi è stato, chi è stato?
Un’appena accennata pernacchia si sentì provenire dalla stessa postazione, in fondo.
Radici; sei stato tu, eh?
Io, prof? Ma non mi sognerei mai
Dall’altra parte un ‘Prrrr" ancora più abbozzato, fece girare di novanta gradi la faccia allibita del professor Briosi.
Visto che non ero io, prof!
insinuò Radici.
Un altro anno con voi… ommadonnasanta
rispose Briosi.
La classe si svuotò presto, passando davanti alla cattedra.
L’insegnate cercò di darsi un tono, un aspetto di 'non offeso’ anche se era seccante il modo di congedarsi dei ragazzi.
Nel corridoio, come l’anno prima, si formavano i gruppi: quello dei lodigiani - arrivavano appunto da Lodi - che, tra disquisire su orari dei treni per quella sera e dispetti da fare, non erano secondi a nessuno;
i ‘ lecca’, intenti, chi più chi meno, ad adulare i vari insegnanti che incontravano; i ‘preparati ’ sempre preoccupati della prossima verifica scritta o di cosa avrebbe potuto chiedere il professore alla prossima interrogazione.
Neutri a ogni clan,’Walterino’ Moiraghi, piccolo ma sempre all’avanguardia in quanto a stile e moda, con il suo ‘Uomo Vogue’ in tasca, Rodigari Francesco che se ne stava in disparte per fumarsi le sue ‘Camel’ nei bagni.
SANDRO MAINARDI
Luigi Melli, con i suoi due compari Franco Naborri e Cesare Coppici, erano un clan a parte, ’preciso’- si fa per dire - negli orari. Entrava in classe sempre in ritardo, quasi tutte le volte dopo l’inizio delle lezioni.
Il professor Sandro Mainardi, sentì bussare alla porta, interruppe la spiegazione, girò la faccia verso la porta che si aprì e apparve Coppici seguito dagli altri due.
... e stavolta che è successo?
chiese guardando l’orologio.
Prof, scusi il ritardo. Non ci crederà ma abbiamo salvato una vita
ribatté deciso Coppici con occhi bovini.
L’insegnante alzò gli occhi al cielo, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi, e in uno sbuffo domandò …na vita? Voi tre?
Sì, si prof
e si voltò verso la classe per far intendere di non ridere se l’avesse sparata grossa: Sì, professore…venivamo da via Anfossi. Sa dov’è?
No
.
Via Anfossi, e dai prof, quella che dà …
Non m’interessa sapere dov’è via Anfossi, spiega la vita salvata
.
Sì, si … adesso spiego. Eravamo sul marciapiede Franchino, io e il Gigi…
" Il Gigi? Oheè ‘pistola’, parla chiaro."
Io io, prof
intervenne Melli.
Mmm, ‘ndiamo avanti
riprese scocciato Mainardi senza degnare di un minimo sguardo chi aveva precisato chi fosse.
Da un portone è uscito un cavallo…
Mainardi sormontò il labbro superiore con quello sotto, dilatò le pupille, avvicinandosi ai tre che, sincroni, fecero un passo indietro, mentre il brusio della classe si trasformava in riso soffocato generale. Cesarino Coppici girava i suoi occhi da ‘manza appena munta’ verso i compagni alzando e abbassando ripetutamente le sopraciglia in attesa di solidarietà dalla classe.
Un ca-va-llo?
si espresse sillabando per bene l’insegnante.
Un cavallo, prof, un cavallo. Stava uscendo da un portone…
Dal fondo una risata mal contenuta innescò un gracidar di singhiozzi che eruppe in una collettiva sghignazzata.
Zitti, zitti
urlò il Mainardi: " ‘porcozzio’, zitti. … è uscito un cavallo! "
…si è imbizzarrito e si è messo a correre per la via
continuò Coppici: sul marciapiede c’era gente, prof, allora il Gigi…
.
Lui?
fece Mainardi additando col pollice l’amico.
Sì, lui
continuò deglutendo l’interrogato, girando gli occhi verso ‘la platea’ che incuriosita voleva sapere dove andava a parare, tratteneva il respiro per poi, di sicuro, esplodere in una risata.
… l’ha rincorso e gli è saltato sopra.
La faccia del Mainardi si fece schifata: L’ha rincorso e gli è saltato sopra?
L’insegnante si avvicinava sempre più a Coppici che si curvava all’indietro, girando la testa verso i compagni.
Vuoi due pedate nel culo?
fece Mainardi.
No prof, mi creda… proprio mentre il cavallo stava per travolgere una donna che spingeva il passeggino.
Vai al posto, andate al posto
urlò Mainardi.
Prof, mi deve credere, noi…
Non finì la frase: la cartelletta del prof sorvolò le teste dei ragazzi e si schiantò sul muro in fondo all’aula, con un rumore secco e fuoruscita di fogli e quant’altro contenuto.
Voi tre, di sicuro, bocciati tutti e tre
fece sedendosi alla cattedra l’insegnante.
Ma anche te, un cavallo … ma dai
sbottò a bassa voce Villa a Coppici mentre raccoglieva i fogli sparsi per terra.
SPAGNUOLO
Meno tollerante era quello di matematica: il professor Spagnuolo.
Viso sempre imbronciato, il naso gobbo sormontava una chiosa di denti giallastri, la nuca e le tempie ricoperte dai capelli spettinati, era esigente durante le lezioni quanto cavilloso nella puntualità dell’inizio e la fine delle lezioni. Entrava in classe alla campanella e appena sentiva quella ‘fine ora’ interrompeva, lasciando il posto al collega dopo.
Era un brav’uomo, con lo spirito dell’onesto, quella forma latente di onestà di chi non vuole che si sappia, ma affiora senza sforzo. Perentorio quanto bastava, ma alla fine compariva sempre quella sua correttezza mista a benevolenza che spesso appare e si riscontra nel portamento della gente campana.
Originario di Sorrento, era vedovo da meno di un anno e suscitava quella forma di rispetto che si conviene a chi senza colpa ha dovuto rimboccarsi le maniche e iniziare una vita nuova.
Aveva una figlia, vedova anche lei, mamma di una bambina, innamorata di uno sposato. Questo legame non gli era gradito. La voce girava per l’Istituto, e anche di questo il professor Ernesto Spagnuolo se ne doleva.
Non aveva legato con i colleghi - stava appartato a consultare i suoi registri, anche se era un modo di apparire impegnato, ma era sua priorità quella di non parlare con nessuno – tantomeno con i ragazzi.
Indimenticabile quel compito in classe su polinomi di algebra quando al suo comando: Consegnare, tutti, adesso
nessuno si alzò dal proprio posto con l’intento, ognuno, di finire al meglio la prova; presa la porta, uscì dalla’aula, lasciando gli alunni sconcertati, assicurando che: Vi metto due a tutti.
Speriamo in un’amnistia
dichiarò Rodigari, appena la porta fu chiusa.
Francesco, questo fa sul serio…ci boccia tutti
fu la risposta di una voce tra le tante.
Macchè, non può, non può…
precisò il ’Ròdiga’.
La lezione dopo, sbirciando sul registro – essendo al primo banco – Walter Moiraghi notò una successione di ‘due’ che scendeva dall’alto in basso annotata sul registro del professor Spagnuolo, a carico di ogni nome.
" Pvofessove, pevmette?" osò Villa da un banco a metà classe.
Spagnuolo alzò la testa in segno di meraviglia, a far intendere Plebeo, come osi!
e poi con un lento movimento della testa assentì.
"L’altva volta, nell’uscive ci disse che metteva ‘due’ a tutti, e …"
Fatto
rispose secco l’insegnante, senza alzare lo sguardo, infilando la mano nella cartella di cuoio marrone alla ricerca della solita penna a stilo.
Villa sedette storpiando le labbra guardando verso gli altri.
" …‘vcamaddosca" disse sottovoce.
Spagnuolo dava voce e ascolto solo a don Romolo, il prete dell’Istituto, che, oltre a insegnare religione nell’ora facoltativa, sedeva spesso nella piccola cappella a pregare e se qualcuno avesse avuto voglia di parlargli, in quei momenti era disposto all’ascolto.
Spesso Ernesto Spagnuolo sedeva accanto al sacerdote e i due parlottavano, nessuno aveva mai inteso di cosa.
IL ‘VASCO’
Vasco Scotti insegnava biologia: piccoletto, sempre ben vestito, capelli impomatati tirati all’indietro, con quel fare di presunta onnipotenza che dava fastidio, come se la sua valutazione a fine anno fosse il giudizio universale, con conseguenze fatali per il prosieguo della vita dei suoi alunni.
Si atteggiava e mostrava quella forma di supponenza che travalicava il buongusto ed il buonsenso, specie nei riguardi degli studenti. Interrogava passeggiando fra i banchi con inserita la sua Marlboro nel bocchino ai lati della bocca, con domande trabocchetto per indurre lo studente in errore conseguente al suo ambiguo modo di far domande.
Se la risposta era errata, si fermava di scatto, con le spalle verso l’interrogato e proseguiva nel suo intento dissacratore articolando giudizi non certo benevoli, guardando il soffitto con aria saccente e ironica.
Che differenze trovi tra il DNA cellulare, il DNA mitocondriale e quello ribosomiale?
chiese.
Il povero Rodigari si girò verso i compagni in attesa di suggerimenti. Il Vasco, che stava andando verso il fondo dell’aula, si girò per trovare in ’flagranza di suggerimento’ quelli ai primi banchi.
Essendo tre composti della stessa natura, sono tre acidi
rispose Francesco, sollevando il mento a occhi sbarrati, verso i compagni per avere suggerimenti.
Già, tre acidi. Solo questo?
osservò il Vasco fermandosi a sfogliare, spaginando veloce con un pollice il testo sul banco di Naborri.
L’aula si riempì di silenzio: all’improvviso il Vasco si girò.
Allora?
spiccò deciso.
Rodigari era impietrito, non sapeva, non sapeva.
Scotti si avvicinava sempre più al ragazzo, che lo fissava.
Mai sentito parlare di zuccheri, di ribosio, di basi azotate?
proseguì altero il Vasco, soddisfatto di poter scaricare la propria indole meschina su giovani, per lui ‘ignoranti come somari’.
Veramente ho solo letto, prof
accennò il Rodigari.
Non basta. Studiare vuol dire mettere in testa cose, concetti, nozioni, … leggere…? Sono tutti buoni a leggere. Vai avanti.
Avanti… ? Prof, sono già fermo prima di partire
fece il ‘Rodìga’.
Pure spiritoso. Al posto, due.
‘stia
mormorò il ragazzo, rientrando al proprio banco.
Nessuno ha mai scoperto ne scoprirà mai il Dna ribosomiale, dato che non esiste.
Scotti abitava al primo piano di un condominio di periferia, si spostava con i mezzi pubblici non avendo la patente.
Era in confidenza con la portiera dello stabile, l’Ornella, la quale gli procurava del vino del Monferrato essendo essa di quelle parti.
Il bere per il Vasco era una sua passione. Non di rado superava la soglia del buonsenso per cui spesso, di sera, lo si sentiva cantare nel modo più becero e sguaiato.
I suoi Figaro qui, Figaro là
stonavano per il palazzo, specie in estate.
L’Ornella saliva cercando di dissuaderlo dalla esibizione, se non altro per non avere rimbrotti, la mattina dopo, dagli altri inquilini del palazzo.
Scotti in quei momenti non era certo domabile, specie da una donna. L’impresa risultava ardua. L’unica variazione era uno stonatissimo Ammazzate oh!
che intonava per interrompere la monotonia della melodia rossiniana.
Non era certo ben visto dagli studenti. La sua austerità lo separava da loro, non esisteva nessuna confidenza, anzi emergeva una antipatia reciproca.
BELLOCCHIO
Armando Bellocchio insegnava disegno; passati da poco i trent’anni, arrivava sempre poco prima dell’inizio delle lezioni con il suo rumoroso motorino, la vecchia cartella sul serbatoio, in bilico tra le cosce, attraversava il cortile della scuola per porre il suo due ruote nel corridoio confinante con lo stanzino della caldaia.
Era sempre ben pettinato e curava molto il proprio aspetto .
Appariva subito la sua omosessualità, con quel accomodarsi i lunghi capelli dietro le orecchie appena tolto il casco, le sciarpe colorate languide sul petto, il suo parlare con le mani mosse con scioltezza in avanti nell’aria a definire meglio le idee espresse.
A volte i ragazzi erano già in aula e lo vedevano arrivare sulla sua strombettante motoretta e, uscito dal corridoio, passava per il piazzale per accedere alle aule. C’era anche chi osava.
Occhiofino, sempre tardi, eh!
Armando Bellocchio alzati gli occhi alle finestre, accomodata la sciarpa sul petto, tirandola in tutti i modi, accelerò l’andatura.
Aperta d’impeto la porta dell’aula, buttò la cartella sulla scrivania e sbottò: Eh, eh, chi è stato, chi è stato?
‘Walterino’
Moiraghi prese coraggio e, con sottintesa ironia, rispose per tutti:
A fare ?
Armando Bellocchio si chinò su di lui Eh, eh, … a fare? Chi è stato, chi è stato?
ripeté concitato con la voce ridotta rauca.
Tutti erano rigorosamente seri, senza un minimo accenno al riso. Il ghigno dell’Armando era serio, minaccioso, con voglia di far male, non importava a chi.
Hai visto chi è stato?
continuò rivolgendosi a Moiraghi.
A fare cosa, prof ? A fare cosa?
ebbe a rispondere ancora ‘Walterino’ Moiraghi.
" Mmm" grugnì il prof girandosi verso la cattedra.
Sedutosi, accavallò le gambe, diede una panoramica su tutta la classe.
Vi stango tutti a fine anno, tuttiii….
Dal fondo si levò un : Perché, cosa abbiamo fatto prof?
Bellocchio si alzò di scatto, andò verso il fondo roteando gli occhi alla ricerca di chi aveva chiesto quello che lui riteneva ovvio.
Si fermò in fondo dove aveva posto Rodigari.
Cosa avete fatto? …Occhiofino è il tuo vicino di casa, capito!
Tornato alla cattedra, assestò un pesante botto a pugno chiuso sul pianale della stessa. Dalla cartella scivolò fuori la ‘Settimana Enigmistica’ che Bellocchio usava quando i ragazzi avevano il loro da fare nel disegno. Alzò ancora le inferocite pupille verso i ragazzi e sedette.
Villa! Alla lavagna!
sentenziò.
Walter Villa uscì senza voglia, agitando verso di sé la mano a dita unite domandando perché proprio lui.
Ma non era giornata per l’Armando: si sentì bussare all’uscio.
Avanti
risposero in più di uno.
Bellocchio si stizzì con un’occhiataccia verso gli alunni, la porta si aprì e fece ingresso il preside, professor Gregorio Platone
Buongiorno
esordì.
In piedi, ragazzi, in piedi
disse stentoreo Bellocchio, rinfoderando di fretta il giornale enigmistico fra i due lembi della cartella ancora aperta.
I giovani si alzarono più per rispetto verso il direttore che per l’ordine dato da Bellocchio.
Come va?
chiese generico Platone, messosi davanti agli studenti.
Non male, non male, prof
si sentì una voce in fondo all’aula.
Bellocchio alzò gli occhi per capire chi fosse.
Platone si avviò per i banchi, lentamente, con un sorriso compiaciuto.
Walter Villa intanto, scorsa la rivista enigmistica facente capolino dalla cartella, ebbe idea di grattare il piano di finta pelle della scrivania e, come tirato da uno spago invisibile, il giornalino scivolò fuori dalla cartella esibendosi in bella vista.
Di scatto l’Armando salì sulla predella e col dorso della mano spinse veloce la rivista nella borsa. Poi - Platone era girato – assestò un’occhiata bruciante al ragazzo, facendo roteare la mano con l’indice teso in segno poi sistemiamo i conti
.
Arrivato in fondo all’aula, il preside si girò e vide che il professor Bellocchio sorrideva, contento – così pensava lui – dell’inaspettata visita.
Mi raccomando ragazzi, impegno e buona volontà. L’Istituto vi è vicino, ma voi dovete mettercela tutta. D’accordo?
disse con una certa enfasi.
Andò poi verso l’ampia vetrata che dava sul cortile e ne uscì con uno dei suoi soliti sermoni.
Sappiate che il sapere non guasta mai. Come dicevano gli antichi ‘sapere è potere’. Vi darà soddisfazione oltre che personali, vi aiuterà nel vostro futuro lavoro, anche nell’ambito famigliare. Siamo fatti per la conoscenza non per l’ignoranza, quindi, come dicevo, il dovere allo studio sarà vostro mentre l’onere di aiutarvi spetta al corpo insegnante. Vero professor Bellocchio?
Certo, certo
rispose laconico il prof.
Poi, Platone, giratosi per guardare fuori, dando le spalle alla classe, fece: Già, caro Bellocchio. Da qui si ha una veduta come in nessun’altra aula della scuola, vero?
Vero
rispose ancora l’Armando avvicinandosi al suo superiore.
Ma un rumore lieve di graffi gli fece girare il capo. Si fermò.
Villa stava ancora ritentando nella sua impresa: concentrato sul suo malsano intento, raschiava con le unghie nei paraggi della cartella per far uscire ancora quello che sarebbe stato opportuno che il signor preside non vedesse.
Delinquente, porco
gli assestò sottovoce Bellocchio. E rifece il gesto della mano con l’indice ruotante.
Platone tornato sui suoi brevi passi, salì sulla predella e aperto il registro di classe, lesse con tanto di " Umh" e ripetuti segno di assenso, senza che nessuno potesse comprendere cosa ci fosse da approvare.
Questo con tutte queste assenze?
domandò a Bellocchio, puntando l’indice su di un nome del registro.
Bellocchio si chinò per vedere meglio: Si è ritirato
rispose.
Si è ritirato. E quando? come mai?
Bellocchio non ebbe la risposta pronta, poi con un sospiro: Tempo fa, dieci giorni fa, forse .
Seee… di più, di più
si udì dalla classe.
Il preside alzò di scatto gli occhi verso dove proveniva la voce poi verso l’Armando. Di più?…ed io non ne sapevo niente? Venga da me alla fine della lezione, professor Bellocchio.
E con un: Arrivederci ragazzi
prese l’uscita senza degnare di un saluto il povero Bellocchio, che furioso si scatenò: Ma chi è stato quel pirla, chi è stato…? Radici?
Radici cosa? Prof … io non ho parlato.
Qui non parla mai nessuno, vero? Dov’è … Villa? Dove sei? Sei un vigliacco oltre che un pirla.
" Pev cosa? E’ stata una bvavata, pvof, dai, non mi pave il caso…." rispose Villa, tornato al proprio banco.
Per risposta Bellocchio scese la pedana e veloce andò verso di lui e iniziò a tirare pedate sugli stinchi del giovane sotto il banco.
I dolori del giovane Walter
fece Siboni dal primo banco.
Walter Villa si difendeva mettendo davanti a sé la sedia per non essere ripetutamente colpito dai calci che l’Armando assestava.
" Gra-ndi-ssi-mo ‘pi-sto-la’, te - la –