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Lo sguardo oltre
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E-book62 pagine45 minuti

Lo sguardo oltre

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Info su questo ebook

"LO SGUARDO OLTRE" è una brevissima antologia di cinque racconti che ruotano attorno al mondo della disabilità. Il punto di vista non è di chi vive la disabilità sulla sua pelle, ma di chi ci convive ogni giorno perché fratello, amico, genitore o terapeuta. Tutti siamo diversi, sia nell'aspetto che per abilità, per gusti e per pensiero. Allora perché non accettare anche chi lo è in modo più evidente? Perché non trovare un ponte di comunicazione senza pretendere che sia l'altro, con le sue difficoltà, a raggiungerci? Accettare la diversità in fondo è accettare a pieno noi stessi, diventare liberi e pronti a fare esperienze mai pensate. Ogni provento sarà devoluto a una organizzazione che si occupa della inclusione di persone con disabilità fisica e cognitiva.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2023
ISBN9791221468533
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    Anteprima del libro

    Lo sguardo oltre - Letizia Finato

    La ruota

    Dal vetro appannato si vedeva appena la lunga fila di auto scure sulla strada bianca. La neve scendeva così fitta da attaccarsi agli stop dell’auto davanti a noi, così copiosa da incollarsi anche al vetro anteriore della nostra auto, tanto che il tergicristallo faticava a pulirla. Mio padre con una mano passava il panno sul vetro e con l’altra teneva ben saldo il volante. Teso e silenzioso guidava, mentre io saltavo sul sedile posteriore, incapace di contenere la gioia.

    «Siamo arrivati, papà?» chiesi.

    «Stai buono, Edoardo» mi sgridò mia madre, spostandosi in cerca di una posizione più comoda, massaggiandosi il pancione. «Oddio, Giorgio! Quanto manca ancora?»

    «Sì, sì! quanto manca, papà?»

    Nessuna risposta.

    Mio padre frenò e sterzò brusco, per accaparrarsi il primo parcheggio disponibile. Scese rapido e corse ad aiutare mia madre, poi mi aprì la portiera e io uscii con un balzo. Mi affrettai a superarli.

    «Apro io la porta!» dissi, lanciandomi verso l’entrata, senza accorgermi di una spessa lastra di ghiaccio, nascosta da un sottile strato di neve.

    «Attento!» urlò mia madre.

    Evitai di cadere per un pelo e li aspettai all’ingresso.

    «Cosa ti è saltato in mente!» sbraitò lei, mentre mio padre mi faceva l’occhiolino, attento a non farsi scoprire.

    Ascensore, terzo piano, ginecologia ostetricia, il bacio di mia madre e poi l’attesa.

    Per un po’ dondolai le gambe seduto sulla panchina verde della sala d’aspetto. Alternavo gli occhi tra la porta e la finestra, mentre fuori continuava a nevicare e il cielo era ormai buio.

    Trovai nella tasca la mia macchinina preferita. La feci correre sulla panchina, mi alzai e continuai il viaggio lungo il muro, seguendo una striscia colorata che mi guidò fino alla porta della sala parto.

    «Quanto ci mette a nascere?» chiesi.

    «Vuoi stare un po’ fermo?» esclamò mio padre, venendo a recuperarmi per ricondurmi verso la panchina.

    «Hai fame?» cambiò discorso.

    Mi accarezzai lo stomaco brontolante, ripensando alla pasta lasciata sul piatto, prima di uscire. Ne sentivo quasi il profumo: pomodoro, basilico e una bella grattugiata di grana. Scossi la testa con energia.

    «Voglio restare qui» dissi impettito.

    Mio padre sorrise e mi scompigliò i capelli con una carezza.

    La porta della sala parto si spalancò. Vidi un medico e un infermiere trasportare a passo svelto un’incubatrice coperta da un telo verso l’ascensore.

    Arrivò un’infermiera e mio padre si alzò di scatto, raggiungendola prima che si avvicinasse.

    «È una bimba...» gli disse. Continuò a parlare, il viso serio, la voce gentile.

    Mio padre impallidì, vacillò e afferrò con una mano lo stipite della porta.

    Impaurito, mi aggrappai alla sua gamba.

    ***

    Trascorsi gli anni successivi tra nonni, parenti e amici.

    Vivevo letteralmente con la valigia sempre in mano e la sensazione di essere un pacco da depositare. Non che i miei genitori mi facessero mancare qualcosa, mi volevano bene, ma erano così presi tra visite mediche, ospedali e terapie da non rendersi conto di ferirmi. Dentro provavo una sorta di malessere e lo dimostravo anche fuori, ribelle e irrequieto, facevo dannare chiunque mi stesse accanto. Ogni cosa sembrava scivolarmi addosso, stavo con gli amici e questo sembrava bastarmi. Quando tornavo a casa, mi rifugiavo nei videogiochi, attirando le ire dei miei genitori. Ormai ero all’ultimo anno delle elementari, mia sorella al primo.

    Quel giorno la campanella suonò più squillante del solito, o così mi sembrò. Uscimmo tutti in cortile con l’energia di chi evade di prigione, rumorosi, allegri, con i sogni e i giochi dell’estate negli occhi. Il sole era ancora tiepido, ma le foglie avevano già cominciato a cadere.

    Ero seduto sugli scalini che portavano alla palestra con i miei amici. Il nostro punto di incontro fin dalla prima elementare.

    «Hai visto?» esordì Massimo.

    «Visto cosa?» gli chiese Sergio, il mio compagno di banco e

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