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L'onesta canaglia
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E-book219 pagine2 ore

L'onesta canaglia

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Info su questo ebook

Tre fratelli, dopo la morte della mamma, s'accorgono del vuoto lasciato dalla sua scomparsa. Il maggiore, sposato, vanamente cerca di tenere uniti i legami; a soffrirne di più è il più giovane, solo quindicenne. L'altro fratello sottopone l'apatico padre e il piccolo a un sistema di vita tormentato. Protetto dal più grande, tolto da quell'inferno, il giovane arriverà a laurearsi, divenendo perno della struttura iniziata dal maggiore anni prima. La situazione diviene paradossale quando, ormai adulto, estromette il maggiore defraudandolo di ogni titolo e struttura. Dopo anni, però, questi risulterà il più adatto per un trapianto di midollo per la figlia dell'irriconoscente fratello.
LinguaItaliano
Data di uscita11 feb 2020
ISBN9788831617529
L'onesta canaglia

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    Anteprima del libro

    L'onesta canaglia - Carlo Toma

    lut­to.

    1

    Un po­me­rig­gio mio pa­dre te­le­fo­nò: quel­la se­ra avreb­be fat­to vi­si­ta il ca­po re­par­to di mio fra­tel­lo Lui­gi per un col­lo­quio in­for­ma­le, per chia­ri­re e ri­sol­ve­re una spia­ce­vo­le si­tua­zio­ne crea­ta­si in se­no al­la dit­ta ove la­vo­ra­va, in­ten­zio­na­ta a li­cen­ziar­lo.

    Le man­can­ze, sep­pi, era­no tan­te e gra­vi: per chi chie­de­va as­si­sten­za, la pre­mu­ra del­la So­cie­tà era di man­da­re quan­to pri­ma un tec­ni­co; ta­le ze­lo era va­ni­fi­ca­to se que­sti di­ser­ta­va l’im­pe­gno as­sun­to e non si pre­sen­ta­va.

    In ca­si si­mi­li, Lui­gi pre­fe­ri­va an­da­re sul la­go, ri­cor­dan­do, pe­rò, di far­si emet­te­re re­go­la­re quie­tan­za dal­la trat­to­ria do­ve pran­za­va, e con­se­gnar­la la se­ra stes­sa, in dit­ta, per poi ot­te­ne­re il rim­bor­so.

    Ti ren­di con­to che so­no qui per aiu­tar­ti, ve­ro? esor­dì l'in­ge­gner Stuc­chi la se­ra, con to­no se­rio ma con­ci­lian­te.

    Aiu­tar­mi? Ma io non ho bi­so­gno di aiu­to da nes­su­no! fu la ri­spo­sta al­te­ra.

    Siii…? Ti vo­glio­no fa­re fuo­ri per le stu­pi­da­te che hai com­bi­na­to, al­tro che non hai bi­so­gno di nes­su­no! Il gran­de ca­po è sta­to chia­ro... non ti vuo­le più in dit­ta.

    Ci pro­vi! Fac­cio uno di quei ca­si­ni...

    Ca­si­ni? Il ca­si­no tu già l’hai fat­to! Non sia­mo tan­ti ma nem­me­no po­chi. Via te, san­no già co­me so­sti­tuir­ti.

    In­ge­gne­re, so­sti­tui­re uno co­me me non sa­rà fa­ci­le fe­ce di ri­man­do mio fra­tel­lo, con­vin­to di es­se­re chis­sà qua­le co­lon­na por­tan­te nell’or­ga­ni­co dell’azien­da.

    "Ma scu­sa... par­lia­mo­ci chia­ro. Se con la vet­tu­ra azien­da­le ti bec­chi una mul­ta fuo­ri dal­la sa­la cor­se, do­ve eri a scom­met­te­re sui ca­val­li, nell’ora­rio di la­vo­ro, in­ve­ce di es­se­re a 160 chi­lo­me­tri di di­stan­za, e tu sai do­ve, co­me puoi di­mo­stra­re di non ave­re tor­to?… Ra­gio­nia­mo, por­cac­cia la mi­se­ria!" sbot­tò Stuc­chi, al­zan­do­si dal­la se­dia e pog­gian­do i pal­mi del­le ma­ni sul ta­vo­lo.

    Lui­gi gi­rò gli oc­chi ver­so di me per va­lu­ta­re che rea­zio­ne aves­si. Di­fat­ti lo fis­sa­vo, piut­to­sto at­to­ni­to. Guar­dò, poi, in di­re­zio­ne del pa­dre, as­si­so sul­la sua pol­tro­na, nel­la sua po­si­zio­ne abi­tua­le: as­sen­te, an­no­ia­to, mu­to. Le ma­ni in­trec­cia­te sul­la pan­cia. La pre­stan­za, la so­len­ni­tà di un ca­lo­ri­fe­ro in pie­no ago­sto.

    Os­ser­vai an­ch’io il por­ta­men­to di quell’uo­mo, e mi sov­ven­ne il pen­sie­ro di un’in­do­len­za con­ge­ni­ta, tra­man­da­ta da ge­ne­ra­zio­ni, del­la qua­le po­te­vo es­se­re de­po­si­ta­rio an­ch’io.

    … e non sto par­lan­do di una so­la vol­ta, al­tre vol­te so­no ar­ri­va­te mul­te da pa­ga­re in dit­ta, mi so­no mes­so di mez­zo io, ri­schian­do, di­cen­do al­la se­gre­ta­ria di pa­ga­re sen­za far sa­pe­re, e tu sai a chi… pro­rup­pe an­co­ra l’in­ge­gne­re.

    L’im­ba­raz­zo di Lui­gi era pa­le­se.

    …e sem­pre pre­se fuo­ri dal­la sa­la cor­se, con­ti­nuò il ca­po re­par­to, fis­san­do­mi.

    "Mmm… le co­se che di­ce l'in­ge­gne­re so­no gra­vi. È qui per far­ti un fa­vo­re, un pas­so in­die­tro sa­reb­be op­por­tu­no," escla­mai, ri­vol­to a mio fra­tel­lo con il più con­ci­lian­te pro­po­si­to di ren­de­re il cli­ma più pa­ca­to e di in­dur­lo a ra­gio­na­re.

    Fin­se di non aver udi­to.

    "Sen­ta, in­ge­gne­re, se è ve­nu­to qua per ti­ra­re in bal­lo ‘ste co­se so­lo per far­si bel­lo, ha sba­glia­to po­sto e mo­men­to… chia­ro? E non mi rom­pa più le bal­le con que­sti di­scor­si che non ser­vo­no a nes­su­no!" fri­gnò con vo­ce al­te­ra­ta .

    Sen­ti, fa' co­me vuoi! Sap­pi, pe­rò, che sto cer­can­do il tuo so­sti­tu­to…

    An­co­ra Stuc­chi po­sò gli oc­chi su di me, ne in­cro­ciai lo sguar­do e vi les­si, ol­tre lo scon­cer­to, an­che la de­lu­sio­ne di chi sa che non po­trà con­se­gui­re quel­lo che si era pro­po­sto.

    Nien­te, non c’è quin­di mo­do di ra­gio­na­re, Lui­gi? in­ter­ven­ni.

    Sto ra­gio­nan­do, re­pli­cò mio fra­tel­lo: È lui che non ha ca­pi­to di che pa­sta so­no fat­to.

    …vuol di­re? do­man­dai sem­pre più in­ter­det­to.

    Non m’in­te­res­sa quel che pen­sa­no gli al­tri, a me in­te­res­sa quel­lo che pen­so io!

    Si trat­ta del po­sto di la­vo­ro, è una ma­nie­ra tut­ta par­ti­co­la­re, la tua, di scu­sar­ti. Que­sti so­no de­ci­si, vo­glio­no la­sciar­ti a ca­sa e han­no de­gli ot­ti­mi mo­ti­vi dal­la lo­ro. E tu…

    Fat­ti gli af­fa­ri tuoi, che ai miei ci pen­so io! in­ti­mò Lui­gi, e ri­vol­to­si al suo su­pe­rio­re: Ar­ri­vi al dun­que. Co­sa vuo­le da me?

    Stuc­chi mi guar­dò nuo­va­men­te, poi qua­si sup­pli­che­vo­le ri­spo­se: Che tu ra­gio­ni un po­co di più. Non pren­de­re tut­to co­me un’of­fe­sa. Non puoi ne­ga­re l'evi­den­za. Qual­che li­ta­nia in tuo fa­vo­re pos­so an­co­ra dir­la, ma de­vi cam­bia­re mo­di, in dit­ta. Al­tri­men­ti tut­to sa­rà inu­ti­le.

    Lui­gi sem­brò non sen­ti­re. Di nuo­vo, adoc­chiò fur­ti­vo, il vec­chio ge­ni­to­re, co­mo­da­men­te se­du­to sul­la sua pol­tro­na, la cui vi­ta­li­tà era ri­scon­tra­bi­le so­lo dai mo­vi­men­ti del ca­po che rin­cor­re­va­no chi fra noi pren­des­se pa­ro­la.

    Ci fu un at­ti­mo di si­len­zio, e l’in­ge­gne­re, con­vin­to or­mai dell’inu­ti­li­tà del­la sua mis­sio­ne, ne ap­pro­fit­tò per al­zar­si e sa­lu­ta­re, non pri­ma di ave­re re­dar­gui­to per l'ul­ti­ma vol­ta il suo su­bal­ter­no.

    Pen­sa­ci, pen­sa­ci be­ne! Non de­vo dir­ti io l’im­por­tan­za dei fat­ti. Buo­na­se­ra a tut­ti.

    Lo sbuf­fo di Lui­gi fe­ce da pe­no­sa cor­ni­ce al fi­na­le di quel­la se­ra­ta.

    Men­tre lo ac­com­pa­gna­vo al­la por­ta, a mez­za vo­ce Stuc­chi mi dis­se: Ve­da se può con­vin­cer­lo, lo­ro so­no de­ci­si a li­cen­ziar­lo, ma qual­co­sa si può an­co­ra fa­re.

    Quel­lo che po­te­va fa­re, lei lo ha fat­to. La rin­gra­zio, in­ge­gne­re.

    Lo vi­di sa­li­re in mac­chi­na de­lu­so; di cer­to pre­sa­gi­va del­le ri­spo­ste di­ver­se.

    Rien­tra­to in ca­sa, mi col­se una tri­stez­za in­fi­ni­ta. Com­pre­si che non c’era­no pos­si­bi­li­tà di dia­lo­go. Mio pa­dre si era co­ri­ca­to, e Lui­gi sta­va guar­dan­do la tv.

    Ma che eme­ri­ti ‘pi­sto­la’! pen­sai.

    Con mia ma­dre sa­reb­be sta­to di­ver­so: si sa­reb­be di­bat­tu­to il pro­ble­ma. Con lei l’in­ten­to sa­reb­be sta­to di re­cu­pe­ra­re la trat­ta­ti­va con i di­ri­gen­ti e cer­ca­re di man­te­ne­re ad ogni co­sto il po­sto di la­vo­ro.

    Ora, in­ve­ce, l’apa­tia più com­ple­ta, il tor­po­re men­ta­le e un at­teg­gia­men­to spoc­chio­so e me­ne­fre­ghi­sta ver­so un pro­ble­ma di ca­pi­ta­le im­por­tan­za.

    E ora?chie­si.

    E ora che? È ora che te vai, ri­spo­se mio fra­tel­lo sen­za guar­dar­mi.

    De­so­la­to, mi av­viai al­la mia vet­tu­ra, con­sa­pe­vo­le che per me si apri­va un pe­rio­do di vi­ta dif­fi­ci­le, non ben de­fi­ni­bi­le, con­di­zio­na­to dal com­por­ta­men­to di per­so­ne in­ca­pa­ci di da­re la giu­sta im­por­tan­za a va­lo­ri fon­da­men­ta­li dell'esi­sten­za.

    La ver­ten­za che se­guì por­tò, dap­pri­ma, a le­git­ti­ma­re la so­spen­sio­ne dal la­vo­ro di Lui­gi e poi al li­cen­zia­men­to per col­pe gra­vi.

    2

    Co­no­scen­ti e ami­ci, in­con­tran­do­mi, m’in­for­ma­va­no di co­me Lui­gi e suo pa­dre fos­se­ro sem­pre in co­stan­te lot­ta; gli al­ter­chi tra i due, spes­so, si tra­mu­ta­va­no in ris­se e bot­te vi­cen­de­vo­li.

    Ve­de­va­no l’uo­mo con ec­chi­mo­si, li­vi­do per gli scon­tri fi­si­ci che do­ve­va so­ste­ne­re col fi­glio.

    Que­sti, or­mai sen­za la­vo­ro e con nes­su­na vo­glia di cer­car­se­ne uno nuo­vo, nel suo ozio quo­ti­dia­no eb­be la tro­va­ta di ri­sol­ve­re i suoi pro­ble­mi at­tin­gen­do al­la pen­sio­ne pa­ter­na.

    Dap­pri­ma con gi­ri di pa­ro­le e poi più chia­ra­men­te, fe­ce ca­pi­re al pa­dre che in­ten­de­va ser­vir­si del­la sua car­ta di cre­di­to ogni qual­vol­ta gli oc­cor­res­se­ro dei sol­di. Il ri­fiu­to ac­cen­de­va li­ti che fi­ni­va­no a per­cos­se, e ad ave­re la peg­gio era sem­pre il più an­zia­no, con ur­la udi­bi­li an­che da fuo­ri.

    Non pro­va­vo sen­ti­men­ti per mio pa­dre; non fa­ce­va nul­la per da­re di­ret­ti­va e lo­gi­ca al­la sua vi­ta.

    A far­ne le spe­se era Sa­ve­rio, che con la­men­te­le, pa­le­sa­va le pro­prie fru­stra­zio­ni per quel­lo che su­bi­va. Spes­so ve­ni­va a ca­sa mia e si ab­ban­do­na­va a pian­ti smi­su­ra­ti; la sua ri­chie­sta di aiu­to, an­che se mai espli­ci­ta, era com­pren­si­bi­le.

    Il pae­se era pic­co­lo e le vo­ci gi­ra­va­no in fret­ta. La pre­ca­rie­tà del­la si­tua­zio­ne ave­va var­ca­to gli stret­ti con­fi­ni fa­mi­lia­ri. Si sa­pe­va, si mor­mo­ra­va che in ca­sa dei miei or­mai vi­ge­va uno sta­to di anar­chia, una di­sor­ga­niz­za­zio­ne tra le più be­ce­re.

    I pri­mi tem­pi, Lal­la, un’ami­ca di mam­ma, mos­sa a pie­tà, die­de un aiu­to, per col­ma­re il ba­ra­tro di tri­stez­za e scon­for­to nel qua­le era­va­mo pre­ci­pi­ta­ti.

    Non man­ca­va­no gli aspet­ti buf­fi e pa­ra­dos­sa­li. Per ri­spar­mia­re tem­po e fa­ti­ca mio pa­dre cu­ci­nò sei bi­stec­che per il fi­glio più pic­co­lo, co­sic­ché ogni gior­no del­la set­ti­ma­na, di ri­tor­no dal­la scuo­la, aper­to lo spor­tel­lo del fri­go­ri­fe­ro, Sa­ve­rio tro­va­va pron­to il suo pa­sto: ba­sta­va ri­scal­dar­lo.

    Fu inu­ti­le com­men­ta­re che la car­ne, cot­ta gior­ni pri­ma, as­su­me­va una con­si­sten­za e un sa­po­re pes­si­mi; per no­stro pa­dre, il si­ste­ma ot­ti­miz­za­va tem­po, de­na­ro, fa­ti­ca e, per­ché no, an­che con­di­men­to. E, poi, fe­ce in­ten­de­re, non era il ca­so di fa­re gli schiz­zi­no­si. Lui, nel­le pri­me ore po­me­ri­dia­ne, bea­ta­men­te ri­po­sa­va, non de­si­ste­va dal­la sua pen­ni­chel­la, sen­za al­cun ri­mor­so per non aver al­le­sti­ta la ta­vo­la e per un mi­ni­mo di ac­co­glien­za per il fi­glio .

    Pro­vai a far­mi sen­ti­re, ma ogni mia re­cri­mi­na­zio­ne era tem­po per­so di fron­te all'apa­tia del vec­chio pa­dre e all’at­teg­gia­men­to stu­pi­do di Lui­gi. An­zi, ero vi­sto, co­me il sac­cen­te che vuo­le fic­ca­re il na­so in fac­cen­de non sue.

    Fu co­sì che fui co­stret­to a sti­la­re del­le prio­ri­tà pra­ti­che.

    In pri­mis, il mio pen­sie­ro an­dò a Sa­ve­rio. Con la mam­ma mor­ta da po­co, in­di­fe­so, pre­da del­le ire di Lui­gi e dell'in­dif­fe­ren­za del pa­dre, mia mo­glie ed io sta­va­mo di­ven­tan­do l’uni­ca sua an­co­ra di sal­vez­za.

    Era iscrit­to a una scuo­la pri­va­ta che pre­sen­tò agli esa­mi di Ma­tu­ri­tà i suoi alun­ni co­me sem­pli­ci pri­va­ti­sti. Ne fu pro­mos­so uno so­lo su ven­ti­due.

    Cer­cai di ca­pi­re. La si­tua­zio­ne era pa­le­se­men­te ano­ma­la, di­so­ne­sta: l’Isti­tu­to ave­va pre­te­so il pa­ga­men­to di fior di ret­te men­si­li per poi sot­to­por­re a una Com­mis­sio­ne fi­na­le di Ma­tu­ri­tà ester­na, dei sem­pli­ci pri­va­ti­sti, cioè gen­te che, in ter­mi­ni for­ma­li, si era pre­pa­ra­ta a ca­sa da so­la.

    Ot­ten­ni un col­lo­quio col vi­ce­pre­si­de per ave­re chia­ri­men­ti. Que­sti si na­sco­se die­tro a scu­san­ti piut­to­sto gof­fe: dis­se di es­se­re una sem­pli­ce pe­di­na di una scac­chie­ra ben più va­sta. In ter­mi­ni pra­ti­ci, con­clu­si, l’im­por­tan­te, per lo­ro, era aver in­cas­sa­to sol­di per an­ni.

    Pres­so un Isti­tu­to Sta­ta­le era­no aper­te le iscri­zio­ni per l’an­no se­guen­te. Il po­sto era per un cor­so se­ra­le. Chie­si al­la se­gre­ta­ria se era pos­si­bi­le iscri­ve­re mio fra­tel­lo a un ‘diur­no’, sot­to­vo­ce, ri­fe­rì che c’era un ul­ti­mo po­sto, ma l’iscri­zio­ne do­ve­va av­ve­ni­re al mo­men­to. Pri­vo dei do­cu­men­ti ne­ces­sa­ri, la pre­gai di ac­cet­ta­re l’iscri­zio­ne ver­ba­le.

    Ga­ran­tii che nel gi­ro di po­che ore avrei re­go­la­riz­za­to la po­si­zio­ne di Sa­ve­rio. La si­gno­ra fu com­pren­si­va. Non era la pras­si nor­ma­le ma, pro­met­ten­do di tor­na­re nel bre­ve, avreb­be con­ser­va­to il po­sto. Pri­ma del­la chiu­su­ra del­la se­gre­te­ria ero là con l’oc­cor­ren­te. La don­na mi aspet­ta­va e, con un sor­ri­so rin­cuo­ran­te, mi fe­ce ac­co­mo­da­re. Con­trol­lò i do­cu­men­ti, tut­to era re­go­la­re.

    Fu co­sì che mio fra­tel­lo più pic­co­lo non do­vet­te an­da­re a scuo­la di se­ra, rien­tran­do di not­te, ma fu am­mes­so ad un cor­so diur­no.

    E que­sto all’in­sa­pu­ta de­gli al­tri due fa­mi­lia­ri, pre­si eter­na­men­te dal lo­ro pen­sar per sé.

    3

    La com­pli­ca­ta con­di­zio­ne dei miei fa­mi­lia­ri com­pro­met­te­va e in­flui­va ne­ga­ti­va­men­te an­che sul­la mia at­ti­vi­tà pro­fes­sio­na­le.

    Da odon­to­tec­ni­co il la­vo­ro non mi man­ca­va. Nel pae­si­no ove la­vo­ra­vo, nei mean­dri del­la più schiet­ta Brian­za, mi ero fat­to una buo­na fa­ma; la vo­ce si era spar­sa e ar­ri­va­va gen­te an­che da lo­ca­li­tà vi­ci­ne.

    Ave­vo una buo­na clien­te­la, da­ta dal fat­to che svol­ge­vo man­sio­ni an­che di odon­to­ia­tra, con l’aiu­to di un me­di­co che as­si­cu­ra­va il suo ap­pog­gio in ca­so di ne­ces­si­tà. Il suo com­pi­to era quel­lo di for­mu­la­re giu­sti­fi­ca­ti­vi per dit­te e scuo­le e fir­ma­re le ri­cet­te quan­do ce n'era bi­so­gno. Il gros­so del la­vo­ro era svol­to da me.

    Era una si­tua­zio­ne al li­mi­te del­la le­ga­li­tà, che fi­no ad al­lo­ra era sta­ta tol­le­ra­ta. La no­stra ca­te­go­ria era espo­sta ora ai giu­di­zi dei me­dia di al­lo­ra: gior­na­li, te­le­vi­sio­ne, di­bat­ti­ci pub­bli­ci, ri­mo­stran­ze del­la ca­te­go­ria me­di­ca.

    Ciò che pri­ma fur­ti­va­men­te era con­sen­ti­to di­ven­ne inam­mis­si­bi­le.

    Ave­vo la­vo­ra­to, da ra­gaz­zo, in quat­tro stu­di, do­ve la man­sio­ne di den­ti­sta era svol­ta da odon­to­tec­ni­ci, tut­ti i gior­ni, tut­to il gior­no. Da gio­va­ne qual ero, mi sfor­za­vo d’im­pa­ra­re e mi ve­ni­va na­tu­ra­le pen­sa­re ‘an­ch’io un gior­no fa­rò quel­lo che ora fan­no lo­ro’.

    I no­stri in­se­gnan­ti, in buo­na fe­de, ri­fe­ri­va­no che man­ca­va­no pa­rec­chi den­ti­sti in Ita­lia, e che quin­di sa­rem­mo "ve­nu­ti buo­ni".

    Il den­ti­sta, a quei tem­pi, era con­si­de­ra­to un me­di­co di se­con­da fa­scia, il ca­va­den­ti, e quin­di in po­chi sce­glie­va­no que­sta bran­ca.

    An­che la ca­te­go­ria me­di­ca ci met­te­va del suo. Spe­cia­li­sti di ogni cam­po sta­va­no al gio­co: di­men­ti­chi di qual­sia­si ti­po di eti­ca, in­ca­me­ra­va­no sol­di sen­za fa­ti­ca.

    Tut­to con­tri­bui­va a crea­re una real­tà in­gan­ne­vo­le che pro­iet­ta­va le no­stre mi­re ver­so un fu­tu­ro fa­ci­le e di­sat­ten­te ai ri­schi che sa­reb­be­ro po­tu­ti sor­ge­re. Ma gli usi cam­bia­no: co­me è sem­pre sta­to, le so­cie­tà ten­do­no a mo­di­fi­ca­re e ri­ve­de­re le pro­prie strut­tu­re, i pro­pri mo­del­li; si­ste­mi va­li­di per an­ni so­no ri­mos­si per far po­sto ad al­tri più ade­gua­ti al tem­po cor­ren­te.

    Inol­tre, quan­do si è gio­va­ni, è fa­ci­le la­sciar­si in­fluen­za­re dal con­te­sto in cui si vi­ve; nel mio pic­co­lo bor­go la­vo­ra­va da an­ni un odon­to­tec­ni­co con la co­per­tu­ra del me­di­co con­dot­to del pae­se: il suo te­no­re di vi­ta non pro­prio spar­ta­no in­du­ce­va, chi aves­se un mi­ni­mo di am­bi­zio­ne, a se­guir­ne le or­me.

    Si pro­fi­la­va dun­que una de­ci­sa svol­ta nel cam­po den­ta­le: sta­va per esau­rir­si il pe­rio­do in cui me­di­co e tec­ni­co si as­so­cia­va­no per apri­re uno stu­dio den­ti­sti­co e il tut­to, an­che la par­te me­di­ca, era de­man­da­to al tec­ni­co; il me­di­co fa­ce­va da pre­sta­no­me, in­cas­san­do buo­na par­te dei gua­da­gni.

    L’an­sia di un ta­le cam­bia­men­to era tan­ta.

    La clien­te­la era fol­ta, e mi ser­vi­vo an­che di aiu­tan­ti per reg­ge­re il pe­so del la­vo­ro. Ave­vo, quin­di, da as­si­cu­ra­re lo sti­pen­dio ad al­tre per­so­ne.

    Que­sta pre­oc­cu­pa­zio­ne si som­ma­va al­la ap­pren­sio­ne per quan­to ac­ca­de­va al­la mia fa­mi­glia di ori­gi­ne, ac­cre­scen­do non po­co la mia in­quie­tu­di­ne.

    4

    Sa­ve­rio vi­ve­va

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