L'onesta canaglia
Di Carlo Toma
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L'onesta canaglia - Carlo Toma
lutto.
1
Un pomeriggio mio padre telefonò: quella sera avrebbe fatto visita il capo reparto di mio fratello Luigi per un colloquio informale, per chiarire e risolvere una spiacevole situazione creatasi in seno alla ditta ove lavorava, intenzionata a licenziarlo.
Le mancanze, seppi, erano tante e gravi: per chi chiedeva assistenza, la premura della Società era di mandare quanto prima un tecnico; tale zelo era vanificato se questi disertava l’impegno assunto e non si presentava.
In casi simili, Luigi preferiva andare sul lago, ricordando, però, di farsi emettere regolare quietanza dalla trattoria dove pranzava, e consegnarla la sera stessa, in ditta, per poi ottenere il rimborso.
Ti rendi conto che sono qui per aiutarti, vero?
esordì l'ingegner Stucchi la sera, con tono serio ma conciliante.
Aiutarmi? Ma io non ho bisogno di aiuto da nessuno!
fu la risposta altera.
Siii…? Ti vogliono fare fuori per le stupidate che hai combinato, altro che non hai bisogno di nessuno! Il grande capo è stato chiaro... non ti vuole più in ditta.
Ci provi! Faccio uno di quei casini...
Casini? Il casino tu già l’hai fatto! Non siamo tanti ma nemmeno pochi. Via te, sanno già come sostituirti.
Ingegnere, sostituire uno come me non sarà facile
fece di rimando mio fratello, convinto di essere chissà quale colonna portante nell’organico dell’azienda.
"Ma scusa... parliamoci chiaro. Se con la vettura aziendale ti becchi una multa fuori dalla sala corse, dove eri a scommettere sui cavalli, nell’orario di lavoro, invece di essere a 160 chilometri di distanza, e tu sai dove, come puoi dimostrare di non avere torto?… Ragioniamo, porcaccia la miseria!" sbottò Stucchi, alzandosi dalla sedia e poggiando i palmi delle mani sul tavolo.
Luigi girò gli occhi verso di me per valutare che reazione avessi. Difatti lo fissavo, piuttosto attonito. Guardò, poi, in direzione del padre, assiso sulla sua poltrona, nella sua posizione abituale: assente, annoiato, muto. Le mani intrecciate sulla pancia. La prestanza, la solennità di un calorifero in pieno agosto.
Osservai anch’io il portamento di quell’uomo, e mi sovvenne il pensiero di un’indolenza congenita, tramandata da generazioni, della quale potevo essere depositario anch’io.
… e non sto parlando di una sola volta, altre volte sono arrivate multe da pagare in ditta, mi sono messo di mezzo io, rischiando, dicendo alla segretaria di pagare senza far sapere, e tu sai a chi…
proruppe ancora l’ingegnere.
L’imbarazzo di Luigi era palese.
…e sempre prese fuori dalla sala corse,
continuò il capo reparto, fissandomi.
"Mmm… le cose che dice l'ingegnere sono gravi. È qui per farti un favore, un passo indietro sarebbe opportuno," esclamai, rivolto a mio fratello con il più conciliante proposito di rendere il clima più pacato e di indurlo a ragionare.
Finse di non aver udito.
"Senta, ingegnere, se è venuto qua per tirare in ballo ‘ste cose solo per farsi bello, ha sbagliato posto e momento… chiaro? E non mi rompa più le balle con questi discorsi che non servono a nessuno!" frignò con voce alterata .
Senti, fa' come vuoi! Sappi, però, che sto cercando il tuo sostituto…
Ancora Stucchi posò gli occhi su di me, ne incrociai lo sguardo e vi lessi, oltre lo sconcerto, anche la delusione di chi sa che non potrà conseguire quello che si era proposto.
Niente, non c’è quindi modo di ragionare, Luigi?
intervenni.
Sto ragionando,
replicò mio fratello: È lui che non ha capito di che pasta sono fatto.
…vuol dire?
domandai sempre più interdetto.
Non m’interessa quel che pensano gli altri, a me interessa quello che penso io!
Si tratta del posto di lavoro, è una maniera tutta particolare, la tua, di scusarti. Questi sono decisi, vogliono lasciarti a casa e hanno degli ottimi motivi dalla loro. E tu…
Fatti gli affari tuoi, che ai miei ci penso io!
intimò Luigi, e rivoltosi al suo superiore: Arrivi al dunque. Cosa vuole da me?
Stucchi mi guardò nuovamente, poi quasi supplichevole rispose: Che tu ragioni un poco di più. Non prendere tutto come un’offesa. Non puoi negare l'evidenza. Qualche litania in tuo favore posso ancora dirla, ma devi cambiare modi, in ditta. Altrimenti tutto sarà inutile.
Luigi sembrò non sentire. Di nuovo, adocchiò furtivo, il vecchio genitore, comodamente seduto sulla sua poltrona, la cui vitalità era riscontrabile solo dai movimenti del capo che rincorrevano chi fra noi prendesse parola.
Ci fu un attimo di silenzio, e l’ingegnere, convinto ormai dell’inutilità della sua missione, ne approfittò per alzarsi e salutare, non prima di avere redarguito per l'ultima volta il suo subalterno.
Pensaci, pensaci bene! Non devo dirti io l’importanza dei fatti. Buonasera a tutti.
Lo sbuffo di Luigi fece da penosa cornice al finale di quella serata.
Mentre lo accompagnavo alla porta, a mezza voce Stucchi mi disse: Veda se può convincerlo, loro sono decisi a licenziarlo, ma qualcosa si può ancora fare.
Quello che poteva fare, lei lo ha fatto. La ringrazio, ingegnere.
Lo vidi salire in macchina deluso; di certo presagiva delle risposte diverse.
Rientrato in casa, mi colse una tristezza infinita. Compresi che non c’erano possibilità di dialogo. Mio padre si era coricato, e Luigi stava guardando la tv.
Ma che emeriti ‘pistola’!
pensai.
Con mia madre sarebbe stato diverso: si sarebbe dibattuto il problema. Con lei l’intento sarebbe stato di recuperare la trattativa con i dirigenti e cercare di mantenere ad ogni costo il posto di lavoro.
Ora, invece, l’apatia più completa, il torpore mentale e un atteggiamento spocchioso e menefreghista verso un problema di capitale importanza.
E ora?
chiesi.
E ora che? È ora che te vai,
rispose mio fratello senza guardarmi.
Desolato, mi avviai alla mia vettura, consapevole che per me si apriva un periodo di vita difficile, non ben definibile, condizionato dal comportamento di persone incapaci di dare la giusta importanza a valori fondamentali dell'esistenza.
La vertenza che seguì portò, dapprima, a legittimare la sospensione dal lavoro di Luigi e poi al licenziamento per colpe gravi.
2
Conoscenti e amici, incontrandomi, m’informavano di come Luigi e suo padre fossero sempre in costante lotta; gli alterchi tra i due, spesso, si tramutavano in risse e botte vicendevoli.
Vedevano l’uomo con ecchimosi, livido per gli scontri fisici che doveva sostenere col figlio.
Questi, ormai senza lavoro e con nessuna voglia di cercarsene uno nuovo, nel suo ozio quotidiano ebbe la trovata di risolvere i suoi problemi attingendo alla pensione paterna.
Dapprima con giri di parole e poi più chiaramente, fece capire al padre che intendeva servirsi della sua carta di credito ogni qualvolta gli occorressero dei soldi. Il rifiuto accendeva liti che finivano a percosse, e ad avere la peggio era sempre il più anziano, con urla udibili anche da fuori.
Non provavo sentimenti per mio padre; non faceva nulla per dare direttiva e logica alla sua vita.
A farne le spese era Saverio, che con lamentele, palesava le proprie frustrazioni per quello che subiva. Spesso veniva a casa mia e si abbandonava a pianti smisurati; la sua richiesta di aiuto, anche se mai esplicita, era comprensibile.
Il paese era piccolo e le voci giravano in fretta. La precarietà della situazione aveva varcato gli stretti confini familiari. Si sapeva, si mormorava che in casa dei miei ormai vigeva uno stato di anarchia, una disorganizzazione tra le più becere.
I primi tempi, Lalla, un’amica di mamma, mossa a pietà, diede un aiuto, per colmare il baratro di tristezza e sconforto nel quale eravamo precipitati.
Non mancavano gli aspetti buffi e paradossali. Per risparmiare tempo e fatica mio padre cucinò sei bistecche per il figlio più piccolo, cosicché ogni giorno della settimana, di ritorno dalla scuola, aperto lo sportello del frigorifero, Saverio trovava pronto il suo pasto: bastava riscaldarlo.
Fu inutile commentare che la carne, cotta giorni prima, assumeva una consistenza e un sapore pessimi; per nostro padre, il sistema ottimizzava tempo, denaro, fatica e, perché no, anche condimento. E, poi, fece intendere, non era il caso di fare gli schizzinosi. Lui, nelle prime ore pomeridiane, beatamente riposava, non desisteva dalla sua pennichella, senza alcun rimorso per non aver allestita la tavola e per un minimo di accoglienza per il figlio .
Provai a farmi sentire, ma ogni mia recriminazione era tempo perso di fronte all'apatia del vecchio padre e all’atteggiamento stupido di Luigi. Anzi, ero visto, come il saccente che vuole ficcare il naso in faccende non sue.
Fu così che fui costretto a stilare delle priorità pratiche.
In primis, il mio pensiero andò a Saverio. Con la mamma morta da poco, indifeso, preda delle ire di Luigi e dell'indifferenza del padre, mia moglie ed io stavamo diventando l’unica sua ancora di salvezza.
Era iscritto a una scuola privata che presentò agli esami di Maturità i suoi alunni come semplici privatisti. Ne fu promosso uno solo su ventidue.
Cercai di capire. La situazione era palesemente anomala, disonesta: l’Istituto aveva preteso il pagamento di fior di rette mensili per poi sottoporre a una Commissione finale di Maturità esterna, dei semplici privatisti, cioè gente che, in termini formali, si era preparata a casa da sola.
Ottenni un colloquio col vicepreside per avere chiarimenti. Questi si nascose dietro a scusanti piuttosto goffe: disse di essere una semplice pedina di una scacchiera ben più vasta. In termini pratici, conclusi, l’importante, per loro, era aver incassato soldi per anni.
Presso un Istituto Statale erano aperte le iscrizioni per l’anno seguente. Il posto era per un corso serale. Chiesi alla segretaria se era possibile iscrivere mio fratello a un ‘diurno’, sottovoce, riferì che c’era un ultimo posto, ma l’iscrizione doveva avvenire al momento. Privo dei documenti necessari, la pregai di accettare l’iscrizione verbale.
Garantii che nel giro di poche ore avrei regolarizzato la posizione di Saverio. La signora fu comprensiva. Non era la prassi normale ma, promettendo di tornare nel breve, avrebbe conservato il posto. Prima della chiusura della segreteria ero là con l’occorrente. La donna mi aspettava e, con un sorriso rincuorante, mi fece accomodare. Controllò i documenti, tutto era regolare.
Fu così che mio fratello più piccolo non dovette andare a scuola di sera, rientrando di notte, ma fu ammesso ad un corso diurno.
E questo all’insaputa degli altri due familiari, presi eternamente dal loro pensar per sé.
3
La complicata condizione dei miei familiari comprometteva e influiva negativamente anche sulla mia attività professionale.
Da odontotecnico il lavoro non mi mancava. Nel paesino ove lavoravo, nei meandri della più schietta Brianza, mi ero fatto una buona fama; la voce si era sparsa e arrivava gente anche da località vicine.
Avevo una buona clientela, data dal fatto che svolgevo mansioni anche di odontoiatra, con l’aiuto di un medico che assicurava il suo appoggio in caso di necessità. Il suo compito era quello di formulare giustificativi per ditte e scuole e firmare le ricette quando ce n'era bisogno. Il grosso del lavoro era svolto da me.
Era una situazione al limite della legalità, che fino ad allora era stata tollerata. La nostra categoria era esposta ora ai giudizi dei media di allora: giornali, televisione, dibattici pubblici, rimostranze della categoria medica.
Ciò che prima furtivamente era consentito divenne inammissibile.
Avevo lavorato, da ragazzo, in quattro studi, dove la mansione di dentista era svolta da odontotecnici, tutti i giorni, tutto il giorno. Da giovane qual ero, mi sforzavo d’imparare e mi veniva naturale pensare ‘anch’io un giorno farò quello che ora fanno loro’.
I nostri insegnanti, in buona fede, riferivano che mancavano parecchi dentisti in Italia, e che quindi saremmo "venuti buoni".
Il dentista, a quei tempi, era considerato un medico di seconda fascia, il cavadenti
, e quindi in pochi sceglievano questa branca.
Anche la categoria medica ci metteva del suo. Specialisti di ogni campo stavano al gioco: dimentichi di qualsiasi tipo di etica, incameravano soldi senza fatica.
Tutto contribuiva a creare una realtà ingannevole che proiettava le nostre mire verso un futuro facile e disattente ai rischi che sarebbero potuti sorgere. Ma gli usi cambiano: come è sempre stato, le società tendono a modificare e rivedere le proprie strutture, i propri modelli; sistemi validi per anni sono rimossi per far posto ad altri più adeguati al tempo corrente.
Inoltre, quando si è giovani, è facile lasciarsi influenzare dal contesto in cui si vive; nel mio piccolo borgo lavorava da anni un odontotecnico con la copertura del medico condotto del paese: il suo tenore di vita non proprio spartano induceva, chi avesse un minimo di ambizione, a seguirne le orme.
Si profilava dunque una decisa svolta nel campo dentale: stava per esaurirsi il periodo in cui medico e tecnico si associavano per aprire uno studio dentistico e il tutto, anche la parte medica, era demandato al tecnico; il medico faceva da prestanome, incassando buona parte dei guadagni.
L’ansia di un tale cambiamento era tanta.
La clientela era folta, e mi servivo anche di aiutanti per reggere il peso del lavoro. Avevo, quindi, da assicurare lo stipendio ad altre persone.
Questa preoccupazione si sommava alla apprensione per quanto accadeva alla mia famiglia di origine, accrescendo non poco la mia inquietudine.
4
Saverio viveva