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I grandi condottieri del mare
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I grandi condottieri del mare
E-book1.197 pagine21 ore

I grandi condottieri del mare

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Info su questo ebook

La loro storia è scritta negli abissi

Le vere storie dei grandi uomini che hanno conquistato i sette mari

Trenta ammiragli, dall’antichità ai giorni nostri, trenta dettagliati ritratti di coloro che – da Temistocle a Michael Barkai – hanno condotto le grandi guerre sui mari.
Alle storie di questi leggendari personaggi si accompagna una minuziosa analisi dell’evoluzione delle tecniche della guerra navale e dei diversi scenari strategici e marittimi che Da Frè tratteggia abilmente. Così, per esempio, la storia di Formione (circa 480-428 a.C.) si associa inestricabilmente all’evoluzione dell’impiego della trireme ateniese; la carriera di Raymond Spruance (1886-1969) si interseca con la rivoluzione tecnica del 1900-1915 (corazzata monocalibro, radio, aereo, sommergibile…) e con il progredire della nuova dottrina aeronavale sviluppata tra le due guerre mondiali. Quasi 2500 anni di battaglie sui mari rivivono attraverso le gesta di coloro che ne hanno deciso le sorti.

Da Temistocle ad Agrippa
Da Almeida a Francis Drake

• “Trionfare con la flotta”: Temistocle, l’ammiraglio-statista
• I tre contro Cartagine: Duilio, Regolo, Catulo
• Un ammiraglio per l’impero: Marco Vipsanio Agrippa
• I “leoni” del mare: gli imperatori di Bisanzio e la guerra navale
• Capitani generali “da mar”: gli ammiragli veneziani Vettor Pisani e Carlo Zeno alla Guerra di Chioggia (1378-1381)
• Gli ammiragli dei nuovi mondi: Colombo e i condottieri dell’impero delle spezie
• I due vegliardi: Andrea Doria e Barbarossa 
• Al servizio (segreto) di Sua maestà: Francis Drake, l’ammiraglio-corsaro
• Scandali, feretri e gloria: Horatio Nelson e l’apogeo della Royal Navy
• Il primo ammiraglio a stelle e strisce: David G. Farragut 
• “Daghe dentro, che i butemo a fondi!”: Wilhelm von Tegetthoff 
•  L’ammiraglio samurai: Togo Heihachiro 
• I lupi degli abissi: Karl Dönitz e la battaglia dell’Atlantico
• Ammiragli in 3D: Raymond Spruance e la guerra aeronavale nel Pacifico
• Piccole marine crescono: S.M. Nanda e Barkai, gli assi dell’era missilistica
Giuliano Da Frè
giornalista, dal 1996 al 2013 ha lavorato come cronista presso periodici locali; collabora con varie testate specializzate nel settore militare tra cui «RID - Rivista Italiana Difesa» e «Rivista marittima». ha scritto articoli e alcuni saggi dedicati soprattutto alla storia navale e militare, ai conflitti internazionali e allo sviluppo delle forze armate di tutto il mondo. collabora con la rivista «Focus Wars». È già autore dei libri Storia delle battaglie sul mare, La marina tedesca 1939-45 e La guerra paraguayana 1864-1870. Con la Newton Compton ha pubblicato Le grandi battaglie della prima guerra mondiale e I grandi condottieri del mare.
LinguaItaliano
Data di uscita7 lug 2016
ISBN9788854196810
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    Anteprima del libro

    I grandi condottieri del mare - Giuliano Da Frè

    Introduzione

    Condottieri e ammiragli: quando ci si dimentica del tridente di Nettuno

    Quando si parla – genericamente – di condottieri¹ ci si riferisce sempre ai grandi leader militari, balzati agli onori, e spesso agli orrori, della storia. Da Alessandro a Cesare, da Gustavo Adolfo di Svezia a Napoleone, da Grant a Rommel, sotto i riflettori ci sono sempre loro: i brillanti ed esuberanti capi di un esercito.

    Molto spesso però ci si dimentica che, quasi sempre, gli eserciti sono trasportati e supportati, sbarcati o bloccati, dalle flotte da guerra. Senza navi, Alessandro non avrebbe invaso la Persia, dilagando in Asia Minore. Senza navi, Cesare non avrebbe potuto braccare Pompeo e i generali fedeli al Senato. Senza navi, Gustavo Adolfo sarebbe rimasto bloccato in quel buco di povertà e sobrietà luterana che era la penisola scandinava del xvii secolo. Sintomatico il caso di Napoleone: sebbene per quasi quindici anni all’inseguimento della vittoria definitiva in Europa non ebbe rivali sulla terraferma, allo stesso modo fu tenuto in scacco dalla Royal Navy, che già un secolo prima aveva mandato all’aria le analoghe ambizioni di potenza del Re Sole.

    La vittoria di Grant sul Sud ribelle, nella guerra di Secessione americana, fu supportata dalle flotte: fluviali, per controllare il Mississippi, spina dorsale della Confederazione; d’alto mare, per garantire che truppe e materiali giungessero a destinazione, e per strangolare il nemico, tagliandone le vitali vie di rifornimento con gli arsenali europei.

    Rommel, costretto più volte ad alternare avanzate fulminee a precipitose ritirate, in quel pendolo sanguinoso che fu la campagna Nord Africana dell’Asse, inveì spesso contro la Regia Marina che non gli garantiva i necessari rifornimenti. Accuse quasi sempre infondate, dato lo sforzo compiuto dalla flotta italiana per assicurare il supporto a uno degli ultimi condottieri carismatici del xx secolo: il quale, però, quando si parlava di logistica, si dimostrava decisamente meno brillante. E così, mentre i riflettori della storia sono (quasi) sempre puntati sui generali, agli ammiragli sembra restare ben poca attenzione.

    E dire che le radici della parola ammiraglio non sono meno antiche né tantomeno illustri. Il termine arabo al-amīr, da cui deriva ammiraglio, si traduce con emiro: una carica militare, paragonabile a comandante, o governatore, che assunse una definitiva connotazione navale quando a partire dall’827 d.C. si vide assegnata il comando della flotta dislocata nella Sicilia occupata dai saraceni; sebbene già in precedenza si fossero avuti casi analoghi, come vedremo più avanti nel capitolo dedicato alla guerra navale tra Bisanzio e gli arabi.

    Tuttavia, se si guarda alla genesi degli imperi creati nel corso dei secoli, non si può non notare come quelli nati dal saggio impiego del potere marittimo siano generalmente risultati più solidi e duraturi. E fu proprio analizzando uno dei maggiori successi in materia di imperi marittimi, quello britannico forgiato dalla Royal Navy, che Alfred Thayer Mahan (1840-1914), colui che sino ad allora era stato un oscuro ufficiale di quella us Navy destinata nel xx secolo a ereditare il dominio navale inglese, giunse a sintetizzare la questione con una delle sue affermazioni più icastiche: «È il tridente di Nettuno a dominare il mondo»².

    Proprio Mahan avrebbe avviato, col suo celebre e fondamentale L’influenza del potere marittimo sulla storia³, pubblicato nel 1892 e rapidissimamente diffusosi nei think tank navali di tutto il mondo, non solo una rivoluzione nel pensiero militare paragonabile a quella innescata nella prima metà del xix secolo da von Clausewitz e dal barone di Jomini, ma avrebbe gettato anche i germi dell’escalation navale che nei decenni successivi avrebbe surriscaldato i rapporti tra le grandi potenze; e che anche oggi caratterizza le ambizioni delle nazioni emergenti⁴.

    Pertanto, è forse venuto il momento di dedicare un ampio spazio ai grandi ammiragli della storia, ovvero quei condottieri del mare spesso marginalizzati al di fuori della storiografia navale specializzata – almeno tra gli autori italiani, pur con valide eccezioni, sebbene decisamente più blasonati nelle opere degli autori inglesi, non a caso appartenenti a una schiatta di dominatori dei mari.

    Un elemento di rilievo risiede nel fatto che i comandanti di una flotta, al contrario di quelli di un esercito, sono sempre al centro del mirino degli avversari. Un generale in capo può scegliere se porsi alla testa delle sue truppe, oppure no, nonostante che con il passare dei secoli, dalla guida eroica e trascinatrice (si pensi ad Alessandro, Annibale, Cesare) si sia passati a comandi più complessi e sempre più avulsi dalla prima linea di combattimento, proprio a causa delle profonde trasformazioni che i campi di battaglia hanno subito in ampiezza, profondità, e articolazione.

    Un ammiraglio sa, da sempre, che la sua nave di bandiera attirerà il nemico, sia che si presenti per speronarlo, abbordarlo, o bersagliarlo con artiglierie, missili e attacchi aerei. Il condottiero del mare è per definizione in prima linea, sebbene anche la guerra navale sia stata profondamente trasformata dall’introduzione di sistemi di comunicazione e di comando e controllo sempre più sofisticati, che hanno finito per separare gli ammiragli combattenti da quelli impegnati nella direzione strategica.

    Naturalmente, una volta intrapresa questa strada, occorre fare una selezione. Il che è facile quanto cercare di nuotare con dei pesi di piombo agganciati alle caviglie.

    I principi del potere marittimo sono saldi e (quasi) immutabili. Gli strumenti operativi destinati a renderli concreti, no. Tuttavia, tecnologie – e tattiche d’impiego – seguono, sino quasi alla metà del xix secolo, un percorso evolutivo lento e tortuoso, quasi ciclicamente segnato da corsi e ricorsi. Nei bacini marittimi chiusi, dal Mediterraneo al Mar Nero, dal Baltico ai mari della Cina e del Giappone, il naviglio propulso a remi rappresenterà il nocciolo delle flotte da guerra per millenni; in certi casi, sino alla fine del Settecento: proprio quando un altro sistema propulsivo indipendente dal vento, ma figlio di quella rivoluzione industriale e tecnica che stava per cambiare per sempre la guerra navale, inizia a fare le sue prime apparizioni.

    A partire dalla più remota antichità, ciò che gonfia le vele delle navi, da guerra e mercantili (e per secoli la differenza sarà spesso segnata solo dall’impiego che si fa della medesima imbarcazione) è il vento. Anche le unità a remi pensate prevalentemente per la guerra, simmetrica o corsara, utilizzano una più o meno modesta attrezzatura velica quando sono impegnate in lunghe navigazioni. Le imprese di quegli uomini di mare che, come i vichinghi, affrontano rotte eccentriche rispetto a quelle prevalenti nei mari chiusi, oltre allo svilupparsi dei commerci marittimi nel tardo Medioevo, richiedono sempre di più un sistema propulsivo che non sia alimentato col sudore – e spesso il sangue – dei rematori, unica benzina in circolazione all’epoca. Senza contare che tale apparato necessita di ampi spazi a bordo, sottraendoli al trasporto di merci o armi e armati.

    Le navi che dapprima timidamente, poi (a partire dal xv secolo) sempre più audacemente affrontano gli oceani, modificano le proprie strutture, sviluppandole in stretta connessione all’evoluzione dell’attrezzatura velica. Tra il xiii e il xiv secolo si assiste a uno dei più intensi momenti di innovazione nell’arte della navigazione prima dell’Ottocento: persino più radicale di quanto avvenuto nel iv secolo a.C., quando la nascita delle grandi poliremi a quattro, cinque e poi più ordini di remi, aveva consentito l’imbarco di artiglierie da lancio, nuove macchine belliche, robusti nerbi di truppe. Nascono o si affermano (spesso evolvendo da modelli in uso da tempo, anche a scopi commerciali o per la pesca) nuovi tipi di imbarcazione come la cocca e la caravella, realizzati con tecniche costruttive innovative.

    La stessa arte della navigazione segna un passo avanti nel xiii secolo, con la progressiva introduzione, nel giro di un paio di generazioni, di bussola, portolani e carta nautica. Nel Trecento fanno poi il loro esordio i primi cannoni navali, dopo che sei secoli prima i bizantini avevano impiegato accanto ai sifoni lanciafiamme – utilizzati per sfruttare al meglio la loro più micidiale arma segreta, il cosiddetto fuoco greco –, una sorta di tubo di lancio, non dissimile dai futuri pezzi d’artiglieria a polvere nera.

    Dopo il 1840, l’innovazione tecnologica inizia a correre, sulle ali della rivoluzione industriale: e da allora non si è più fermata. Se per venti secoli l’evoluzione delle armi e del naviglio da guerra era avanzata di pari passo con una modesta capacità tecnica – ma non marinaresca – di comandanti navali e inventori, in meno di due secoli si è passati da navi a vela in legno e armate con cannoni lisci a corta gittata, capaci di sparare palle piene di incerta precisione e limitata potenza (da impiegare pertanto in masse di decine di pezzi), a navi corazzate con artiglierie rigate precise installate su torri rotanti e a lunga gittata. Sino ad arrivare, dopo il 1940, a unità propulse dall’energia nucleare, capaci di proiettare potenza e devastazione a centinaia, a volte migliaia di chilometri, grazie ad aerei imbarcati e missili da crociera.

    Senza contare che non solo il naviglio di superficie si è andato articolando e specializzando, ma è anche finito in un campo di battaglia reso tridimensionale dalla presenza di aerei e sottomarini; mentre comunicazioni e intelligence destinate a supportare l’attività dei comandanti in mare passavano dalle prime, precarie radio-comunicazioni (il cui esordio bellico risale alla guerra russo-giapponese del 1904-1905), all’era dell’informatica criptata, della cyber-guerra, e delle reti satellitari su scala globale.

    Ovviamente, i nostri condottieri del mare hanno dovuto adattarsi. Per la verità, di ammiragli che siano uomini di mare a tutto tondo non si parlerà per molto tempo. E per molto tempo, a capo delle flotte vengono posti uomini di guerra capaci energici e carismatici, ma solo con una eventuale esperienza operativa navale.

    Certo, appare difficile credere che il Temistocle autore di un complesso e organico programma navale sviluppatosi negli anni precedenti Salamina, e poi abile ammiraglio durante la campagna del 480 a.C., non avesse qualche esperienza marittima. Sappiamo che a Maratona comandava uno dei reggimenti di fanteria oplitica ateniesi in qualità di stratego. Ma, essendo nato tra il 530 e il 525 a.C., si suppone che avesse l’età giusta per partecipare alla guerra contro Egina, iniziata nel 506, e proseguita a fasi alterne sino al 481, nella quale spiccarono incisivi aspetti navali; o per far parte della flotta spedita da Atene ad aiutare la Ionia insorta contro i persiani, nel 498.

    E se Caio Duilio, nel sorteggio per i comandi consolari del 260 a.C., si era visto affidare il comando delle legioni in Sicilia, salvo poi sostituire il collega ammiraglio catturato dai cartaginesi, gli altri due consoli navali della prima guerra punica, Attilio Regolo e Lutazio Catulo, potrebbero aver avuto a che fare già in precedenza con il potere marittimo e i suoi strumenti.

    A ogni modo, nel capitolo dedicato all’ammiraglio Togo, vedremo la flotta cinese comandata, ancora nel 1894, da un ex generale di cavalleria: arma quest’ultima caratterizzata da una mobilità apprezzata anche in mare, e che nell’antichità aveva fornito non pochi condottieri navali, come Marco Antonio, e il suo stesso vincitore ad Azio, Agrippa.

    Navigazioni più complesse e a lungo raggio, richiederanno sempre di più capi che fossero, innanzitutto, uomini di mare: lo vedremo con Vettor Pisani, nel xiv secolo, e con Cristoforo Colombo – navigatore per eccellenza – nel Quattrocento.

    Un secolo più tardi, sarà Francis Drake, ribaldo ammiraglio-corsaro della non meno audace Regina Vergine Elisabetta i d’Inghilterra, a tagliare definitivamente il nodo gordiano che ormai da tempo avviluppava i rapporti tra marinai specializzati e uomini d’arme a bordo delle navi. Tagliare, in senso letterale: poiché anticipando Mao Zedong, Drake nel 1578 decapitò il capitano delle truppe imbarcate sulla sua piccola flotta diretta a saccheggiare l’impero spagnolo delle Americhe, per educare altri cento gentiluomini ancora non convinti che, a bordo di una nave, solo Dio aveva più potere del marinaio chiamato a governarla.

    Queste sparse considerazioni sono solo alcune delle tracce che verranno approfondite nel libro. Tornando alla questione della scelta e della struttura data a questo saggio, si è deciso di seguire l’impianto della storia narrata, evitando di costruire capitoli troppo schematici, anche a causa della diversa mole delle informazioni a disposizione: sempre più cospicua man mano che ci si inoltra nei secoli ma di sconfortante limitatezza relativamente all’antichità, dove per tentare di ricostruire gli aspetti navali di alcuni dei condottieri presi in esame proporremo qualche ipotesi, basata sul contesto, e sul buon senso; poiché ammiragli non ci si improvvisa.

    La lista dei condottieri selezionati è lunga. Ufficialmente, i capitoli sono 23; ma i condottieri navali esaminati sono 34 – spesso parlando di uno di loro, si lascia spazio abbondante a un avversario di particolare levatura, ampliando così la platea. Molti capitoli si concentrano su più ammiragli, come in quello dedicato ai tre consoli-navali della prima guerra punica; o in quello relativo a Venezia e alla guerra di Chioggia, dove la Serenissima – per niente rasserenata dall’andamento del conflitto – si affidò a due comandanti di tempra eccezionale, ma dalle personalità e dai curricula molto differenti. Il sesto capitolo non vedrà peraltro protagonisti degli ammiragli, ma due leonini, ovvero gli imperatori bizantini (Leone iii e Leone vi) che seppero far uso con maestria della sofisticata flotta bizantina, codificandone con precisione la dottrina d’impiego.

    Nel decidere quali personaggi analizzare si è infatti cercato di bilanciare scelte tradizionali con qualche escursione in territori meno esplorati. E così, accanto agli ammiragli classici, quelli che non mancano mai nei libri a loro dedicati, abbiamo cercato di accostarne altri meno frequentati. Un allargamento sia in termini geografici, con i capitoli dedicati agli ammiragli-esploratori, spesso all’opera su altri mari, o ai condottieri non europei, come il cinese Zheng He, il coreano Yi Sun-sin, o il peruviano Grau, scelto per conferire un omaggio a un comandante valoroso per quanto sconfitto; sia in termini cronologici, spingendoci sino ai giorni nostri e dedicando spazio a un paio di condottieri dell’era del missile e del microchip, sinora quasi completamente negletti.

    Col passare del tempo, d’altra parte, la rapida evoluzione tecnologica innescata dalla rivoluzione industriale ha comportato una frantumazione e ricomposizione dei metodi di conduzione di un conflitto anche sui mari. L’ammiraglio carismatico, il condottiero trascinatore, che riesce a porre la sua abilità tattica e di leadership al servizio di un’ampia visione strategica, decidendo solitario – anche quando è affiancato da validi collaboratori, o da una band of brothers di caratura nelsoniana – il destino di una flotta, e della stessa guerra navale, è stato rapidamente riposto sugli scaffali della storia dalla tambureggiante raffica di novità che caratterizza gli ultimi due secoli.

    Mentre il campo di battaglia navale si appresta a divenire complesso, con l’introduzione di nuove tipologie di naviglio di superficie, di crescente mobilità – man mano che aumentano la velocità delle navi da guerra, e la gittata delle loro artiglierie –, per poi essere reso multidimensionale dall’entrata in scena di sommergibili e aerei, cambia il modo stesso di condurre la guerra navale. La creazione di stati maggiori sempre meglio strutturati inserisce i condottieri navali in organizzazioni che rimescolano e ridistribuiscono a vari livelli il processo decisionale, soprattutto sul piano strategico, operativo e organizzativo. L’introduzione poi di mezzi di comunicazione rapidi, capaci di collegare in tempo reale il comando navale con le varie unità, rappresenterà una vera scossa per la condotta della guerra sui mari. Centralizzarne il comando e controllo, integrandolo con una sempre più ampia rete informativa, diverrà una regola, caratterizzata però da luci e ombre, come si vedrà nei capitoli dedicati agli ammiragli del xx secolo. Con le guerre mondiali, tutto cambia. I grandi stati maggiori, militari e navali, coordinano macchine belliche di dimensioni e complessità sempre più gigantesche, impegnate in conflitti su scala globale. Selezionare gli ammiragli-simbolo di questo periodo è stato più difficile.

    Dalla Grande Guerra emerge un solo comandante, dotato di un curriculum che comprende sia la conduzione tattica in prima linea, sia quella strategica, a capo di un’intera marina: l’italiano Paolo Thaon di Revel. E non solo perché questo libro, seguendo un costume comune agli storiografi delle altre nazioni, tende a dare maggior spazio agli ammiragli di casa nostra. Revel infatti chiuse la sua battaglia dell’Adriatico con una schiacciante vittoria a più livelli: se analizziamo le prestazioni fornite dai suoi colleghi, delle potenze alleate o avversarie dell’Italia, non si trova nulla di paragonabile alla prestazione dell’ammiraglio italiano. Ampio spazio viene comunque concesso anche ai comandanti stranieri, come l’austriaco Tegetthoff, il vincitore della battaglia di Lissa di cui quest’anno ricorre il 150° anniversario (20 luglio 1866).

    Alla seconda guerra mondiale, considerato l’enorme impatto del conflitto, sono stati dedicati eccezionalmente tre capitoli, suddividendoli in relazione agli scacchieri bellici man mano attivatisi: l’Atlantico nel 1939, il Mediterraneo nel 1940, il Pacifico nel 1941.

    Nel primo caso, la scelta è stata quasi ovvia: Karl Dönitz, comandante dei letali U-boote tedeschi, e poi della Kriegsmarine, è infatti non solo il tipico esempio di ammiraglio impegnato in quegli anni a guidare le sue forze navali da un bunker di comando a terra, ma costituisce anche un ottimo spunto per parlare di guerra subacquea.

    Per la campagna del Pacifico, la selezione è stata più complicata, considerata la presenza di molti cavalli di razza in gara: alla fine la scelta è caduta su Raymond Spruance. Colui che sul campo vinse due decisive battaglie aeronavali – dandoci così modo di analizzare anche questo nuovo aspetto della guerra navale –, si distinse nella gestione di gigantesche operazioni anfibie e, in qualità di braccio destro di Nimitz, ebbe un ruolo fondamentale nella pianificazione strategica della controffensiva americana, da Midway a Okinawa⁵.

    La guerra mediterranea generalmente verte su due protagonisti principali: il comandante della Mediterranean Fleet inglese, l’ammiraglio Andrew B. Cunningham, e quello della flotta italiana, Angelo Iachino. Seguendo un criterio più istintivo e assecondando l’umana simpatia che questo semplice ammiraglio di divisione ispira (anche grazie alle sue bellissime memorie, da poco ripubblicate con ampie analisi critiche dall’Ufficio Storico della Marina), è stato dedicato un capitolo anche ad Alberto Da Zara, spesso ricordato solo per la limitata vittoria di Pantelleria: un esempio di quello che avrebbe potuto essere, e non fu, la grande flotta italiana del 1940-1943.

    Infine, nell’ultimo capitolo del libro, si parlerà dei due ammiragli che hanno assistito all’avvento dell’era missilistica: l’indiano Sardarilal Mathradas Nanda, che nel 1971 da capo di stato maggiore pianificò la guerra navale contro il Pakistan, caratterizzata dall’impiego innovativo della prima generazione di navi lanciamissili; l’israeliano Yomi Barkai, che nell’ottobre di due anni dopo, da commodoro al comando di una flottiglia di motomissilistiche, vinse due analoghe formazioni arabe nelle prime battaglie combattute a colpi di razzi.

    1 Etimologicamente parlando, si tratta dei comandanti di una condotta militare, con riferimento alle compagnie di ventura mercenarie tanto à la page a partire dal xiv secolo.

    2 Per la verità Mahan si rifaceva a un celebre aforisma di Antoine Marin Lemierre, poeta francese del Settecento, a sua volta riferito a una battuta di Luigi xiv.

    3 In Italia, benché recensito con tempestività, The Influence of Sea Power Upon History sarà tradotto, per iniziativa dell’Ufficio Storico della Marina e del compianto ammiraglio e teorico navalista italiano Antonio Flamigni solo nel 1994.

    4 Confronta g. da frè, La dimensione mediterranea nell’espansione navale di Cina e India, in «Rivista Marittima», novembre 2015; e. bonsignore, La gara navale nei mari della Cina, rid-Rivista Italiana Difesa, n. 8/agosto 2014.

    5 Anche in questo caso, abbiamo dato spazio a Spruance, a detrimento del più popolare ammiraglio americano della guerra del Pacifico, William Halsey. Più conosciuto, ma meno decisivo.

    Trionfare con la flotta

    Temistocle, l’ammiraglio-statista

    E se, come io spero che avvenga, vinceremo sul mare, i Barbari non si presenteranno […] e non avanzeranno […]; se ne ritorneranno in disordine.

    (Temistocle, citato in Erodoto, viii, 60)

    Formazione di un leader

    Anche se la spettacolare vittoria ottenuta nella battaglia navale di Salamina, combattuta nel settembre del 480 a.C.⁶ contro la flotta persiana del Gran Re Serse, e frutto più di una sapiente leadership strategica che non di una brillante conduzione tattica, lo inserisce di diritto tra i grandi condottieri navali della storia, l’ateniese Temistocle non è, tecnicamente parlando, un ammiraglio professionista.

    In realtà, le poche fonti di cui disponiamo, – su tutte Plutarco, il biografo dei grandi uomini del mondo antico ed Erodoto, il padre della storia che visse pochi anni dopo gli eventi che videro protagonista Temistocle –, non chiariscono come il condottiero e statista ateniese giungesse a una così precisa percezione dell’importanza che il potere marittimo avrebbe avuto per la sua città. I dati certi sulla sua vita sono pochi, al di là della certezza che, al pari di molti leader militari dell’antichità – e sino alle soglie dell’età contemporanea – la sua carriera era stata forgiata da un tipico intrecciarsi di incarichi pubblici e di comandi militari, tanto in mare quanto a terra.

    Se è vero che, come ipotizzano gli storici, Temistocle era nato attorno al 530-525 da una famiglia di lignaggio antico ma di recente declino, tanto che le origini straniere della madre ne avrebbero ostacolato i primi passi nella vita pubblica⁷, senza le riforme introdotte dal padre della democrazia attica Clistene, greci e ateniesi avrebbero cercato invano l’uomo destinato a portarli alla vittoria nel 480, visto che il trionfatore di Salamina nemmeno avrebbe goduto dei pieni diritti di cittadinanza.

    Clistene, che pur avendo esteso il voto a tutti gli uomini liberi o affrancati aveva mantenuto saldamente nelle mani dei ricchi possidenti il monopolio degli incarichi pubblici – definitivamente superato solo dalle riforme di Efialte e di Pericle mezzo secolo più tardi –, dovette lottare aspramente per imporre a un’élite orgogliosa e rissosa anche questo primo assaggio, aristocratico e imperfetto, di democrazia⁸. Una lotta ancora limitata all’Attica, finché si era trattato di rovesciare il tirannico regime dei Pisistratidi, nel 510; ma poi allargatasi col coinvolgimento di potenze straniere, quando Clistene si era scontrato con Isagora, il leader conservatore che intendeva tornare alla vecchia costituzione moderata di Solone.

    Atene godeva di una prosperità che le aveva alienato molte città-stato confinanti, che ora assistevano con soddisfazione ai travagli interni della rivale. Tebe, sconfitta dai mercenari dei tiranni ateniesi Ippia e Ipparco nel 519, ne aveva appoggiato gli oppositori negli anni successivi. Isagora invece si era rivolto a Sparta, che da decenni attraverso la Lega Peloponnesiaca interveniva contro i regimi tirannici per appoggiare le fazioni aristocratiche e conservatrici, più affini alla particolare struttura politica che reggeva la bellicosa città sull’Eurota. La guerra civile ateniese, che aveva visto Clistene prevalere nonostante l’arrivo di un piccolo contingente spartano, poi costretto a ritirarsi dall’Acropoli assieme a Isagora e ai suoi seguaci, si era così trasformata in un conflitto su larga scala: la cosiddetta guerra senza araldi, scoppiata nel 507, quasi un’ anticipazione della devastante guerra del Peloponneso che conflagrerà settant’anni più tardi.

    Anche se l’atteggiamento spartano si era fatto ambiguo, a causa dei crescenti dissidi tra l’ambizioso re Cleomene i, che appoggiava Isagora, e il suo collega Demarato, manovrato dal più prudente Consiglio degli efori (i cinque magistrati che bilanciavano il potere monarchico, sorta di commissari del popolo ante litteram), diversi membri della Lega Peloponnesiaca, e la Lega Beotica guidata da Tebe, scesero in campo per regolare con Atene vecchi contenziosi, territoriali e marittimi, che poco avevano a che fare con le questioni politiche interne alla polis attica.

    La guerra senza araldi, così definita perché gli avversari di Atene non si presero nemmeno la briga di annunciarla attraverso i tradizionali ambasciatori del mondo ellenico non riconoscendo legittimità al governo di Clistene⁹, fu rapidamente risolta sul terreno dalla fanteria ateniese, vittoriosa sui contingenti tebani e peloponnesiaci, dopo che gli invincibili guerrieri spartani erano stati richiamati in patria da Demarato¹⁰.

    Sul mare le cose andarono diversamente: tra i membri della Lega Peloponnesiaca, Egina si dimostrò la più implacabile nella lotta contro Atene. Isola-stato che nella seconda metà del vi secolo era stata costretta ad aderire all’alleanza guidata da Sparta, si era imposta come potenza marittima ed economica, gettando un’ombra sulla tradizionale supremazia commerciale corinzia. L’isola «montagnosa, vulcanica e quasi inaccessibile, si stendeva nel golfo Saronico, a metà strada tra l’Attica e il Peloponneso, in una posizione quindi che, nonostante una superficie di soli 86 chilometri quadrati, le aveva assicurato un ruolo importante nel commercio mediterraneo sin dai tempi più antichi»¹¹. Una posizione resa ancor più vantaggiosa nel vi secolo, grazie a un’attiva industria a base schiavista – dei 50.000 abitanti, due terzi erano lavoratori non liberi –, mentre le sue navi si davano al commercio e alle incursioni corsare, con pari abilità e intraprendenza. Attività che per secoli, sino a Drake e a John Paul Jones, contribuiranno a formare i quadri e le ossature delle flotte da guerra, le cui navi d’altra parte a lungo saranno impiegate in entrambi i compiti.

    Mentre i soldati-cittadini di Atene respingevano le forze d’invasione radunate dalla Lega Beotica, superando a loro volta lo stretto dell’Euripo per dilagare nell’isola Eubea (dove instaurarono un protettorato durato sino al 411), fu Egina a prendere l’iniziativa. La sua flotta, supportata da un’eccellente industria cantieristica, iniziò a colpire sistematicamente il network commerciale marittimo avversario, la cui crescente forza era stata valutata dall’esperto governo oligarchico degli egineti assai più pericolosa di quella ormai declinante dei vecchi rivali di Corinto. Nel mirino finirono così le attività ittiche e le navi mercantili che approdavano nei porti ateniesi del Pireo e del Falero, nelle cui rade i capitani di Egina si spinsero per portarvi morte e distruzione. Gli equipaggi delle navi sbarcavano per saccheggiare i ricchi magazzini dei mercanti ateniesi, e incendiare moli e strutture portuali avviluppandoli in fiamme i cui bagliori erano chiaramente visibili dall’Acropoli, ancora priva dello skyline che all’epoca di Pericle l’avrebbe resa famosa quanto poi lo diverranno altre capitali marittime e commerciali come Londra, New York e Shanghai.

    A questo punto, sorgono alcune domande che non possono essere tralasciate.

    Il primo quesito riguarda la potenza navale di Atene. Mancano infatti solo vent’anni alla grandiosa vittoria di Salamina, e una potenza marittima non si improvvisa: richiede tempo ed energie per essere non solo posta in mare, ma anche addestrata e trasformata in uno strumento efficace. Quegli egineti che stavano offrendo agli ateniesi un abile saggio di guerra navale, ci lavoravano almeno da mezzo secolo; e più tardi non basterà ai romani copiare una nave da guerra cartaginese, e porre ai remi sulle spiagge del Lazio i costituendi equipaggi delle proprie quadriremi, per diventare una potenza navale a tutti gli effetti.

    Umiliati sul mare durante la guerra senza araldi, gli ateniesi certamente trassero dal conflitto con Egina un’utile lezione, anche se questa fu appresa con fatica, e solo dopo che la leadership attica si ritrovò a valutare le proprie priorità.

    Chi comprese meglio il peso di questi eventi fu Temistocle; anche se sulle sue mosse, su come e quando il futuro vincitore di Salamina avesse incrociato il suo destino con quello marittimo di Atene possiamo solamente fare delle congetture, supportate dai pochi dati fornitici dalle fonti, almeno per gli anni immediatamente precedenti alla grande prova del 480.

    Una questione da chiarire subito, tuttavia, è che nonostante il parere (corretto, ma fuorviante nella sua classica concisione) di Tucidide, Temistocle non fu il padre del Sea Power ateniese; non l’unico, perlomeno.

    La grande rinascita, seguita a quella sorta di dark age che in Grecia (ma non solo) era stata innescata dalla caduta delle grandi potenze regionali dell’età del bronzo¹², fu certamente supportata dalla sfida lanciata sul mare ai fenici dalle città marittime elleniche di Samo e Focea, i cui marinai nel vii secolo se la giocavano alla pari anche lungo le rotte che collegavano il Levante mediterraneo ai centri commerciali occidentali, da cui provenivano materie prime strategiche come lo stagno e il rame.

    La battaglia per la talassocrazia, concetto che travalica e allo stesso tempo preannuncia l’ottocentesca dottrina mahaniana sul potere marittimo, non vede però Atene tra i protagonisti delle prime lotte sul mare tra greci e punico-fenici, sfociate nel vi secolo in feroci battaglie navali combattute al largo dell’attuale Marsiglia e della Corsica, all’epoca colonizzate dai focesi. Proprio la piccola Focea nel secolo precedente aveva creato un ramificato network di centri commerciali e insediamenti agricoli tra lo stretto dei Dardanelli e quello di Gibilterra, occupando Lampsaco e approdando a Tartesso. Nella Tarshish fenicia si incrociavano infatti le rotte commerciali tra i mercati mediterranei e le miniere di stagno e ambra del Nord Europa, con contatti che portavano alla Cornovaglia e alla Britannia fino alle leggendarie isole Cassiteridi¹³.

    All’inizio del vi secolo Atene attraversava al contrario una fase di crisi, socio-economica e militare, in parte risolta dall’intervento costituzionale di Solone, la cui riforma del 594, pur conservatrice nella sostanza, eliminava la persecuzione legale per debiti che stava portando i contadini sull’orlo della rivoluzione¹⁴. Una crisi aggravata dalla lunga guerra in corso con Megara per il dominio sulla fatidica isola di Salamina, più volte passata di mano tra il 610 e il 569, quando fu definitivamente conquistata dagli ateniesi guidati dal giovane arconte polemarco (generale in capo) Pisistrato. Proprio il vincitore della guerra emerse negli anni successivi come l’uomo forte di Atene, prendendo definitivamente il potere – dopo non poche traversie – nel 546.

    A caratterizzare la sua politica, astuta e prudente all’interno (dove Pisistrato seppe ben miscelare un’adesione formale alla costituzione di Solone a una sorta di principato populista), fu un metodico sviluppo del potere marittimo e delle relazioni internazionali ateniesi, che passava dal rilancio del commercio, grazie anche all’occupazione di posizioni-chiave sul golfo Termaico, come Recelo e le miniere del Pangeo, la colonizzazione del Chersoneso Tracico, e una vittoriosa campagna contro Megara in difesa di Salamina. Garantitosi il controllo del cortile di casa ateniese, anche sottomettendo l’isola di Delo (importante centro politico-religioso delle Cicladi), poco prima di morire, nel 527, Pisistrato combatté contro Lampsaco e Mitilene per il controllo del Sigeo, posto all’imboccatura dell’Ellesponto e chiaramente individuato dal tiranno come uno dei punti strategici focali per il futuro politico ed economico di Atene, che dalle regioni agricole del Mar Nero avrebbe ben presto visto dipendere la propria sopravvivenza¹⁵.

    Strumento a supporto di questa prima espansione marittima di Atene fu, accanto al boom economico simboleggiato dalla creazione della prima Acropoli monumentale – quella poi rasa al suolo dai persiani nel 480 –, la rivitalizzazione della flotta da guerra, attraverso l’intervento a carattere misto pubblico-privato delle naucrarie (naukrariva). Queste tradizionali associazioni, che si occupavano di molti aspetti della vita pubblica cittadina (compresa l’organizzazione di spettacoli e cerimonie religiose), erano state formate dai ricchi mercanti e imprenditori cittadini soprattutto per contrastare la pirateria che nel vii secolo insidiava i nascenti traffici commerciali ateniesi. Il sistema permetteva di armare sino a una cinquantina di navi: ma dopo la morte di Pisistrato, la guerra con Tebe prima, e poi la crisi economica e politica sfociata nella caduta del regime ereditato dai suoi due ambiziosi figli, Ippia e Ipparco, mandarono in crisi uno strumento delicato e costoso come la flotta, che necessitava di risorse, addestramento e manutenzione anche quando non veniva impiegata.

    L’incapacità di Atene nel difendersi dalle incursioni di Egina sottolinea il livello di crisi in cui era caduta la sua marina: tuttavia, il seme non era stato gettato al vento, e di lì a poco, due eventi avrebbero dimostrato che la vera potenza navale, quella capace di influenzare per decenni, o per secoli, gli sforzi di un paese, non si improvvisa, e che Temistocle avrebbe edificato su una base solida.

    Temistocle, la Persia, e la guerra sul mare

    Nell’estate del 499 scoppiava la cosiddetta rivolta ionica, ossia l’insurrezione delle città greche dell’Asia Minore sottomesse mezzo secolo prima dal fondatore dell’impero persiano, Ciro il Grande.

    Anche se covava da tempo (i capi delle colonie greche dominate dalla Persia avevano già complottato per tagliare le linee di ritirata del nuovo sovrano Dario i, quando questi si era avventurato al di là dello stretto dei Dardanelli per combattere gli sciiti nel 514), la rivolta era stata innescata, secondo Erodoto, dalla rivalità tra l’ambizioso tiranno protempore di Mileto Aristagora¹⁶, e i generali imperiali inviati ad appoggiarne l’attacco contro Nasso.

    Secondo Erodoto, uno dei consiglieri di Aristagora, lo storico e geografo Ecateo, «Sconsigliò in un primo tempo (i capi della rivolta) […] di intraprendere una guerra contro il Re dei Persiani […] e, non essendo riuscito a convincere, consigliò, in un secondo tempo, di fare in modo di avere il dominio del mare»¹⁷.

    Alla flotta allestita dalla Lega Ionica si aggiunsero anche 5 navi inviate da Eretria e una squadra di 20 unità provenienti da Atene. Due dati vanno sottolineati: primo, l’invio del 40% delle proprie forze navali nell’Egeo orientale dimostra, oltre all’interesse di Atene per quella regione strategica, l’esistenza di una tregua nel conflitto con Egina, scoppiato ormai da una decina di anni. In secondo luogo, un accenno di Erodoto relativo a uno scontro navale avvenuto alla foce del fiume Piramo (l’odierno Ceyhan, che sbocca nel golfo di Alessandretta) esalta il valore di tutte le navi ioniche, ateniesi comprese.

    Nel 496 uno dei tanti giri di valzer che caratterizzavano l’Atene democratica (era stato eletto arconte eponimo¹⁸ Ipparco, congiunto del vecchio tiranno Ippia, rifugiatosi presso i persiani dopo essere stato defenestrato) portò al ritiro del contingente navale che combatteva il Gran Re: due anni più tardi, tuttavia, veniva eletto arconte per il 493-492 proprio Temistocle, poco più che trentenne.

    All’epoca della rivoluzione democratica e dello scoppio della guerra senza araldi l’ammiraglio-statista aveva presumibilmente venti anni, età in cui come gli altri cittadini abbienti di Atene sarà stato chiamato a servire tra gli opliti, i fanti pesanti equipaggiati con l’armatura in bronzo che solo i possidenti potevano permettersi. Probabilmente Temistocle partecipò agli scontri terrestri con beoti ed eubei e sicuramente osservò dall’alto dell’Acropoli gli incendi provocati dalle incursioni navali di Egina.

    Come arconte, un decennio più tardi, proporrà il primo programma di potenziamento navale ateniese dai tempi di Pisistrato, comprendente la creazione di una base navale fortificata e attrezzata nel porto del Pireo, ritenuto superiore all’aperta e vulnerabile rada del Falero e la costruzione di 100 navi da guerra. Il piano, che sarebbe stato finanziato dai proventi delle miniere del Laurio e del Pangeo, ricorda molto – come presto vedremo – il programma poi effettivamente avviato dieci anni più tardi dallo stesso Temistocle, a quel punto nel suo ruolo di stratego¹⁹. Molti storici, in effetti, ritengono che Erodoto e le fonti successive abbiano confuso i due periodi, e che durante il suo arcontato Temistocle si sia limitato a proporre, alla luce della sconfitta navale subita dagli ioni a Lade l’anno precedente (quando la flotta persiana aveva schiacciato la rivolta con un decisivo successo sul mare), soltanto un modesto potenziamento della flotta, magari rinnovando il sistema delle naucrarie.

    Resta da spiegare il perché l’arconte trentenne nel 493, o il più maturo stratego del 483, si dimostrasse un così acuto conoscitore delle problematiche legate al potere marittimo. Vista anche la capacità di penetrare nei piani militari e navali persiani²⁰, più volte dimostrata nella campagna del 480, viene da pensare che Temistocle abbia partecipato alle operazioni della squadra inviata a combattere a fianco degli ioni, nel 498-496; forse come trierarca (comandante di una nave), o magari nello stato maggiore di Melanzio, il «cittadino sotto ogni aspetto ragguardevole»²¹, nominato ammiraglio del contingente ateniese.

    Come che sia, l’attività di ministro della marina svolta da Temistocle nelle vesti di arconte eponimo non sembra lasciare una traccia concreta: lui stesso fu impegnato, durante la campagna militare culminata nell’agosto 490 con la vittoria ateniese a Maratona, a guidare una delle dieci brigate di fanteria pesante come stratego, al pari dell’ex tiranno del Chersoneso Tracico Milziade, il generale che dirigerà lo scontro, e al futuro rivale e capo del partito conservatore Aristide. L’anno successivo, inoltre, il fallimento della spedizione contro Paro, mirata a riprendere il controllo del cortile di casa ateniese portò Milziade a essere destituito, poco prima di morire a causa di una ferita infettatasi, lasciando a Temistocle la guida della fazione popolare.

    Ma al di là della differente conclusione delle due campagne anti-persiane, in ambo i casi la flotta ateniese si era rivelata, a meno di dieci anni dall’appoggio fornito alla rivolta ionica, incapace sia di contrastare la crociera dell’armata anfibia persiana nelle sue acque di casa, sia di supportare le operazioni di riconquista nell’Egeo. L’elezione di Aristide ad arconte eponimo, nel 489/488, oltre a rappresentare la reazione dei conservatori al fallimento del leader democratico Milziade, portò a un rafforzamento della fanteria pesante, espressione di potere dei possidenti terrieri. Di lì a poco, tuttavia, la ripresa della guerra contro Egina provocata dal governo ateniese, che rinfocolò la tensione mischiando all’atteggiamento di arrogante superiorità, seguito alla vittoria di Maratona, odiose accuse di medismo (il termine greco col quale all’epoca si bollava il collaborazionismo coi persiani), avrebbe dimostrato che con la sola fanteria pesante le ambizioni di Atene non avrebbero fatto molta strada.

    Il nuovo scontro, consumatosi tra il 488 e il 484, vide infatti gli ateniesi non solo ricorrere all’affitto di 20 navi fornite da Corinto (che così intendeva vendicarsi di una vecchia rivalità con gli egineti, mai sopita nonostante la comune appartenenza alla Lega Peloponnesiaca) per supportare uno sbarco di opliti favorito da una contemporanea insurrezione filo-democratica²²; ma anche soccombere la loro flotta in una battaglia navale rovinosamente combattuta nelle acque di Egina.

    Nella mutevole forma democratica di governo che reggeva Atene, il nuovo disastro portò alla ribalta Temistocle: nei panni del capo-popolo e dell’infiammato oratore, egli iniziò a sfidare tutti i leader conservatori, riuscendo a farli condannare all’ostracismo uno dopo l’altro, sino a eliminarne i rappresentanti più prestigiosi tra cui lo stesso Aristide, esiliato nel 483.

    Al centro della contesa ritroviamo il programma navale che lo stesso Temistocle aveva presentato da arconte un decennio prima: che si trattasse di una riproposizione di tesi ormai maturate, o di un nuovo piano, premettendo che gli «Ateniesi avevano l’abitudine di distribuire i proventi delle miniere d’argento del Laurio», Plutarco ricorda che «Temistocle osò presentarsi al popolo da solo e affermare che bisognava rinunciare alla distribuzione di questo denaro e di devolverlo alla costruzione di triremi da guerra contro gli Egineti (nel conflitto che) ardeva allora […] al massimo grado, e gli isolani detenevano l’egemonia del mare per il grande numero delle loro navi»²³.

    In effetti, più che lo spauracchio dei persiani, o la stessa guerra con Egina – che all’epoca del duello finale tra Temistocle e Aristide era per la verità entrata in una fase di stanca –, a sancire la vittoria del capo democratico fu probabilmente l’aver vellicato gli interessi di importanti gruppi di potere alternativi al blocco conservatore, formato da quei possidenti terrieri che, in campo militare, formavano la tradizionalista classe degli opliti. La costruzione di una grande flotta, con un primo investimento di 100 talenti d’argento, favoriva le élite finanziarie e mercantili, liete di veder finalmente difesi i loro interessi, nonché padroni e addetti alla cantieristica, gli artigiani e gli operai, e infine lo stesso proletariato urbano dei teti, che avrebbe fornito i volontari – retribuiti regolarmente – da porre ai remi.

    Superata brutalmente l’ultima opposizione inscenata da Aristide, nei cantieri ateniesi si iniziò pertanto a costruire le prime 100 triremi, che si andavano ad aggiungere alle 50 già pronte grazie al vecchio sistema delle naucrarie, e che più tardi saranno affiancate da un secondo lotto di navi.

    Non si partiva dal nulla. L’evoluzione del naviglio da guerra all’epoca era lenta – lo sarebbe stata sino all’inizio del xix secolo –, e i progettisti navali ingaggiati da Temistocle per il primo programma organico di riarmo della storia molto probabilmente si ispirarono alle triremi corinzie acquisite in leasing per l’attacco a Egina del 487. Nonostante Corinto fosse entrata da tempo in una fase di declino, il prestigio dei suoi costruttori navali restava infatti intatto, e ancora nel 414 sarebbero stati loro a introdurre modifiche nelle triremi impiegate nello scontro con la flotta ateniese nel porto di Siracusa. D’altra parte, secondo Tucidide il primo a realizzare una trireme sarebbe stato proprio un ingegnere navale corinzio, Aminocle, attorno al 704 a.C., con 4 navi di nuovo tipo allestite per Samo. La questione è controversa: secondo diversi studiosi della guerra navale nell’antichità, proprio in quel periodo a Ninive venne istoriato per il re assiro Sennacherib (sul trono dal 705 al 681) un bassorilievo raffigurante per la prima volta una trireme, benché nella raffigurazione si vedano navi con due soli ordini di remi operanti, ma con uno spazio soprastante capace di accogliere un terzo ordine.

    A questo punto però occorre fare un passo indietro.

    Sino alla fine dell’viii secolo, a solcare il Mediterraneo furono navi non molto differenti dai legni della tarda età del bronzo: si trattava di galee a 30, 40 e 50 remi che i greci definivano rispettivamente triakóntores, tessarakóntores e pentekóntores²⁴, posti su un solo ordine, e descritte all’epoca anche nel Catalogo delle navi dell’Iliade omerica. La loro evoluzione nella bireme, una galea a 50 remi ma su due ordini, permetteva un modesto incremento nella velocità della nave, che in battaglia si traduceva non solo in un miglior margine di maneggevolezza, ma anche in una accresciuta forza d’urto per lo sperone, adottato verosimilmente nel ix secolo, e destinato a danneggiare e agganciare l’unità avversaria, mentre i più evoluti modelli in bronzo o ferro, lunghi sino a 4 metri, ne consentiranno più tardi l’affondamento.

    Come ricorda ancora Lionel Casson «così gli architetti navali realizzarono un nuovo tipo di scafo nel quale i 24 rematori erano divisi in due ordini sovrapposti […] per far posto a tutti, i remi furono sfalsati in modo che quelli dell’ordine superiore fossero posti sopra lo spazio libero tra i due inferiori. Le nuove imbarcazioni erano più corte di quelle di vecchio tipo di almeno un terzo […] più compatte e robuste, molto più idonee alla navigazione, e offrivano allo sperone del nemico un bersaglio inferiore del 33 per cento. Eppure nemmeno un rematore era stato sacrificato: il terreno era pronto per […] l’introduzione di un terzo ordine di rematori»²⁵, avvenuto però un secolo più tardi.

    Aminocle fu quindi in realtà il primo a realizzare delle biremi, e non il modello più evoluto? Anche se il progetto della bireme viene generalmente ascritto ai fenici, come dimostrerebbe la loro presenza in una flotta assira in navigazione all’inizio del vii secolo, l’accenno alle triremi realizzate per Samo deve farci riflettere. Attorno alla metà del vii secolo i mercanti (a volte corsari) dell’isola dell’Egeo orientale scorrazzavano per tutto il Mediterraneo, e avevano raggiunto le linee commerciali dell’estremo Ovest, dominate proprio dai fenici. Casson tuttavia sottolinea come le triremi venissero realizzate a cavallo tra i secoli vii e vi, e che raggiunsero la piena maturità solo mezzo secolo più tardi, quando «tra il 550 e il 535 […] un qualche geniale architetto […] aggiunse in alto su ogni lato un buttafuori come scalmiere (parexeresia, o apparecchio per remare come lo chiamarono i greci) che si proiettava in fuori oltre la falchetta»²⁶, rendendo efficiente l’introduzione di un terzo ordine di remi che sino a quel momento aveva dato più noie che vantaggi. Incidentalmente, la novità fu introdotta proprio quando l’ambizioso Policrate, tiranno di Samo dal 540 al 522, creava una potente flotta corsara, che Erodoto ci spiega essere stata formata da 100 navi a 50 remi, identificando l’uomo forte dei samii nel «primo degli Elleni da noi conosciuti che abbia pensato al dominio del mare» dai tempi del leggendario re di Creta Minosse²⁷. Ambizione che poteva fondarsi sull’esperienza navale già accumulata da Samo: fu quindi forse per Policrate che un corinzio di nome Aminocle, o un altro ingegnere, realizzò le 4 triremi di nuovo e definitivo modello? Impegnato nelle sue campagne corsare e in varie guerre marittime, tutte conclusesi vittoriosamente (Policrate fu poi destituito e ucciso a tradimento da un generale persiano), questo talassocrate modello potrebbe aver apprezzato la novità.

    Sta di fatto che avviando il suo programma navale del 483, Temistocle lavorava su solide basi, di sicuro copiando l’ultimo modello di trireme corinzia, anche se secondo alcuni storici il secondo lotto di navi realizzate a guerra iniziata, nel 480, potrebbe essere stato incentrato su una versione modificata e semplificata, per affrettarne la consegna, tanto che secondo Tucidide le triremi di Salamina sarebbero state prive di ponte continuo. Approfondiremo i nodi dell’evoluzione di questo modello di nave nel secondo capitolo: anche perché, costruire le navi e le necessarie infrastrutture logistiche era solo un tassello, per quanto vitale, nella formazione di un completo ed efficace strumento bellico navale.

    «Se trionferemo con la flotta non ci saranno i barbari a minacciarci»

    Narra Plutarco, con una di quelle vivide immagini mirate a illuminare il carattere dei protagonisti delle sue biografie – un abile miscuglio di aneddotica e penetrazione psicologica –, che Neocle, l’oscuro e apolitico padre di Temistocle, per dissuadere il figlio dalla carriera pubblica gli avesse indicato un gruppo di triremi abbandonate sulla spiaggia: metafora del destino dei leader politici prima esaltati e poi dimenticati dal popolo.

    Visto il successivo sviluppo della carriera di Temistocle, possiamo pensare che il consiglio paterno venisse eclissato dalla più prosaica visione delle costose e sofisticate triremi spiaggiate senza manutenzione. L’aver infatti insistito, da arconte nel 493, e da stratego dieci anni dopo, per la realizzazione di una munita base navale al Pireo ne attesta la corretta comprensione del problema logistico. Rivelando quindi le sue doti organizzative, Temistocle riformò le naucrarie, trasferendo le funzioni manutentive al «Consiglio (che) provvede […] al mantenimento delle triremi già pronte, degli attrezzi e degli attracchi»²⁸.

    Per far funzionare una flotta, oltre alla manutenzione delle navi occorre prepararne il cuore e il cervello: ossia addestrare adeguatamente quadri di comando ed equipaggi. Al di là dei dubbi sulla possibile partecipazione di Temistocle al contingente inviato da Atene in appoggio alla rivolta ionica, nella mente dello stratego doveva essere ben presente un episodio che aveva negativamente influenzato il decisivo scontro navale di Lade, perso dagli insorti greci nel 494. Prima della battaglia, gettate le ancore in un porto antistante la capitale ionica Mileto, i capi della sempre più rissosa e pericolante alleanza anti-persiana si accapigliavano su chi doveva comandare le 353 navi della flotta coalizzata. Mentre già agenti persiani erano all’opera per corrompere gli avversari (all’inizio della battaglia quasi tutta la squadra di Samo diserterà, assestando un grave colpo al morale degli insorti), alla fine ci si accordò sul navarco della minuscola flotta di Focea, Dionisio.

    La sua città esibiva ottime referenze nautiche: nel vii secolo aveva dato filo da torcere tanto a Samo quanto ai fenici lungo le perigliose rotte occidentali, fondando colonie dal Mar Nero allo stretto di Gibilterra, per poi battersi più volte contro i cartaginesi nel vi secolo. Al contrario, la sua successiva decadenza, che ora non le permetteva di schierare più di tre navi da guerra, non dava ombra ai membri più forti della Lega.

    Scelta prima politica che tecnica, Dionisio si dimostrò però anche un degno erede dei navigatori focesi che avevano fondato Marsiglia e respinto dopo una cruenta mischia la flotta punico-etrusca all’Alalia²⁹. Costui infatti mise subito gli equipaggi al lavoro per prepararli in maniera realistica, tra l’altro esercitandoli a tecniche di combattimento incentrate più sullo speronamento che sul tradizionale abbordaggio: tattica evidentemente intesa come extrema ratio contro una flotta più numerosa.

    Come efficacemente narrerà Erodoto, il neo-ammiraglio «faceva ogni volta avanzare le navi in linea: per esercitare, operando il passaggio forzato di una schiera di navi contro l’altra, i rematori, e per mettere in assetto di battaglia i soldati imbarcati; e il rimanente del giorno teneva le navi all’ancora, e affaticava gli Ioni da mattina a sera»³⁰.

    Dionisio aveva ben chiari i fondamenti delle nuove tattiche legate all’impiego di navi più veloci e maneggevoli dei modelli del passato: ma gli sforzi e la disciplina necessari non facevano parte del bagaglio degli ioni, già divisi da gelosie, rivalità e diffidenze. In pochi giorni l’entusiasmo iniziale lasciò quindi il posto alla stanchezza, presto generata in aperta insubordinazione: «[Gli Ioni] non abituati a tali fatiche, esausti dagli strapazzi e dal sole, […] quasi fossero un esercito terrestre, piantarono le tende nell’isola, e se ne stavano all’ombra, rifiutando di imbarcarsi e di fare manovre»³¹.

    Temistocle aveva a che fare con uomini non meno intrisi di testardo individualismo: ma la paga fornita al proletariato nullatenente che ciondolava tra Atene e la campagna, oltre allo spauracchio di Egina prima, di Serse poi, gli permisero di non sprecare il proprio tempo, mentre già era partito il conto alla rovescia dell’attacco persiano.

    Serse infatti non aveva dimenticato gli affronti che i greci avevano inflitto alla sua casata, per vendicare i quali si era impegnato alla vendetta insieme al padre Dario, scomparso nel 485. Atene, in particolare, era nel mirino: non solo le si imputava l’aiuto fornito agli ioni nel 498, o la sconfitta inferta al primo corpo d’invasione persiano a Maratona, otto anni più tardi³², ma anche (e forse ciò fu l’elemento maggiormente offensivo per l’orgoglioso senso di dominio che caratterizzava l’impero persiano) l’alleanza chiesta da Atene alla Persia nel 507, nel pieno della guerra senza araldi, sancita dalla prammatica offerta di terra e acqua. Un gesto senza valore, per gli ambasciatori inviati da Clistene, ma vincolante per Dario, che si era legato al dito il successivo intervento di Atene nella rivolta ionica, tanto da accusare gli ateniesi di ingratitudine e di ribellione, in quanto già formalmente assoggettatisi al suo dominio dieci anni prima.

    Ne erano pertanto seguite le fallimentari spedizioni del 492 e del 490, e il noto aneddoto sull’ormai vecchio Dario che si faceva accompagnare, negli ultimi anni di vita, da un cortigiano incaricato di «ricordargli gli ateniesi», mantenendone vivo il desiderio di vendetta, trasmesso poi al figlio Serse.

    Domate alcune rivolte seguite alla morte del padre, il nuovo Gran Re – un trentacinquenne ambizioso e megalomane, ma dotato di un’energica e carismatica leadership – si diede a organizzare un’invasione su larga scala, al cui confronto le spedizioni guidate da Dario e dai suoi generali sul territorio europeo contro sciiti, traci e greci impallidivano.

    Nella tarda estate del 481, mentre l’arma segreta di Temistocle – quella che poi l’oracolo della Pizia di Delfi (corrotta dall’astuto statista ateniese) avrebbe indicato come «l’inespugnabile vallo di legno» – stava ultimando allestimento ed esercitazioni, informatori e mercanti greci iniziarono a fornire allarmanti notizie circa l’immensa forza radunata da Serse.

    Non è improbabile che il sovrano achemenide, circondato da abili consiglieri che ben conoscevano la rivalità che divideva le rissose città-stato greche, pronte a farsi la guerra per filari di viti lungo un confine mal definito³³, lasciasse filtrare ad arte quelle stesse informazioni che poi Erodoto avrebbe usato per gonfiare la minaccia che incombeva sui greci, scrivendo di un’armata dai numeri mirabolanti (1.700.000 soldati, 80.000 cavalli): probabilmente l’intero contingente persiano – marinai, schiavi e salmerie inclusi – non oltrepassava le 250.000 unità, un numero comunque ragguardevole, al punto da prosciugare i fiumi per dissetarsi. Tale armata era seguita da una flotta adeguata, che secondo il padre della storia contava 1207 navi da guerra e 3000 da carico.

    Le forze radunate da Serse, inserendosi tra le rivalità del mondo ellenico, spaccarono comunque il fronte avversario: il regno di Macedonia (già sottomessosi a Dario nel 512) e altre regioni nord-orientali si schierarono con gli invasori, mentre Tebe mantenne un atteggiamento ambiguo: rimane un’ipotesi non confermata, ma non certo peregrina, l’alleanza tra Persia e Cartagine, che stava contemporaneamente progettando un attacco contro gli insediamenti greci in Sicilia, dopo decenni di crescenti tensioni³⁴. A Corinto, dove si erano radunate le città della Lega Peloponnesiaca (che qui avevano il loro Sinedrio, il consiglio federale creato alla fine del vi secolo), oltre ad Atene e alle altre poleis ostili alla Persia, le discussioni si fecero subito incandescenti: da un lato c’era chi temeva di non poter parare l’assalto nemico, dall’altro chi intendeva resistere ad oltranza. Anche quest’ultimo partito era però diviso: i peloponnesiaci proponevano di trincerarsi lungo l’istmo di Corinto, mentre Atene, forte della sua nuovissima arma navale – la cui consistenza sorprese negativamente gli egineti –, proponeva un’azione combinata a lungo raggio tra esercito e flotta.

    Il compromesso raggiunto, che mirava a schierare un’armata di opliti in Tessaglia, sbarrando la valle di Tempe per evitare la defezione dei beoti, rischiò di far cadere in trappola i greci, aggirati dalle truppe di Serse.

    Temistocle e il re spartano Leonida imposero allora un ripiegamento più a sud. L’attenzione fu calamitata da un piccolo valico al confine tra Focide e Tessaglia, stretto tra il monte Eta e il golfo Maliaco: il passo delle Termopili, sbarrato da un vecchio muro difensivo realizzato dai focesi.

    La posizione appariva formidabile: poteva essere tenuta da un piccolo reparto di fanteria, permettendo a Temistocle di ancorare la flotta (nominalmente al comando del navarca spartano Euribiade, che l’ammiraglio ateniese controllava però grazie alla maggiore esperienza, e con qualche donativo) presso il Capo Artemisio, all’estremità nord dell’isola Eubea, permettendogli così di chiudere l’accesso al golfo Maliaco e allo stretto dell’Euripo che separava l’isola dal continente.

    La vicenda della difesa del passo è nota. Si può qui solo far notare come i 7000 opliti schierati non erano certo una forza modesta, se paragonata ai 10.000 inviati poche settimane prima in Tessaglia; e come il riadattamento del vecchio muro focese voluto da Leonida rendesse le Termopili un terreno di scontro decisamente favorevole per i greci. Gli assalti frontali della fanteria leggera persiana potevano così essere contenuti almeno sino all’arrivo dei rinforzi promessi da Sparta e dalla Lega Peloponnesiaca³⁵, a patto di disporre di riserve da appostare lungo il valico montano poi indicato a Serse da un traditore.

    Mentre Leonida bloccava le Termopili sino al sacrificio finale (non solo semplice atto di eroismo degli spartani, in ossequio alle severe leggi della loro città come poeticamente scriverà Simonide nel celebre epitaffio dei Trecento, ma lucida azione mirata a coprire il ripiegamento dei contingenti alleati), Temistocle affrontava la sua prima prova come ammiraglio, con una serie di scontri che si protrarranno per tre giorni a cavallo tra agosto e settembre.

    Questa prima azione, contrassegnata da diverse schermaglie e da un tentativo di aggirare le posizioni della flotta ellenica – frustrato dagli espedienti tattici greci e dall’ennesima tempesta³⁶ –, risultava in effetti improntata alla prudenza tattica. La flotta di Serse era arrivata quasi integra alla prova del fuoco; e sebbene fosse stata affidata ad alcuni generali privi di esperienza navale ma leali alla casata regnante, era incentrata sulle eccellenti squadre fenice, con quadri ed equipaggi esperti, e in parte sicuramente veterani delle precedenti campagne navali del decennio 499-490. Per contro, le navi guidate da Temistocle ed Euribiade – un tandem di comando non ancora affiatato, nemmeno in virtù delle mazzette passate dalle mani dello statista ateniese a quelle del navarco spartano – appartenevano a flotte poco amalgamate, prive di riferimenti addestrativi e organizzativi comuni e divise da rivalità campanilistiche. Inoltre, al di là della drammatica disparità numerica (Erodoto calcola che i greci disponessero di 271 navi contro una flotta quattro volte più grande), i difensori avevano a che fare con non pochi problemi logistici: gli stessi ateniesi, che armavano 127 unità e fornivano parte degli equipaggi anche alle 20 triremi di Calcide, avevano avuto difficoltà a completare l’armamento di navi che richiedevano 200 uomini ciascuna, 170 dei quali da porre ai remi. La mobilitazione riguardò tutti i maschi validi dai 20 ai 40 anni: ma anche mettendo ai remi gli uomini generalmente destinati alla fanteria pesante³⁷, stando al cosiddetto Decreto di Temistocle – un’epigrafe relativa ai provvedimenti presi nel 480 (forse una tarda ricostruzione di controversa veridicità) –, alla vigilia di Salamina la flotta attica, forte ormai di circa 200 navi, poteva contare solamente su una media di 120 uomini per equipaggio, tanto da dover ricorrere a migliaia di schiavi³⁸.

    Lo scontro dell’Artemisio, sebbene dimostratosi indeciso sul piano tattico, e poco favorevole ai greci sul piano strategico – lo sfondamento effettuato al passo delle Termopili obbligava anche l’armata navale a ripiegare verso sud, perturbando i già agitati rapporti nell’alleanza –, rappresentò tuttavia una preziosa esperienza operativa.

    Prima di poter elaborare le lezioni apprese, il Temistocle ammiraglio dovette lasciar posto allo scaltro statista: buona parte dei membri della Lega Peloponnesiaca, in testa il reggente succeduto a Leonida, Cleombroto, non intendevano correre nuove avventure al di là dell’istmo di Corinto, dove fu accelerata la costruzione di un muro difensivo. Simbolo della volontà di resistere con la fanteria pesante, la linea Cleombroto assegnava alle squadre navali alleate il compito di incrociare nel golfo Saronico, difendendo il fianco destro dello schieramento panellenico. Peccato che dal perimetro difensivo restassero escluse Atene, Egina e Megara. Temistocle, che già aveva ordinato di evacuare la città irrimediabilmente esposta all’avanzata persiana, non poteva certo far ingoiare ai suoi concittadini anche la perdita della prospiciente isola di Salamina, dove la maggior parte dei profughi si stava accampando. Potendo contare sull’appoggio di due vecchi avversari come Egina e Megara, altrettanto esposte (e pure impegnate ad accogliere i fuggiaschi dell’Attica), l’uomo forte di Atene giocò due carte di straordinaria audacia: da una parte, minacciò di ritirare dalla flotta le squadre attica, eginetica e megarese, che da sole contavano ormai 250 delle quasi 400 triremi radunate dalla Lega. In secondo luogo, dopo aver corrotto parte degli ammiragli peloponnesiaci, li costrinse a restare nelle acque di Salamina, sfruttate per le esercitazioni congiunte, nonostante ormai i persiani avessero occupato Atene e tutta la costa dal Falero al Pireo. Quando il comando alleato rischiò di spaccarsi nel corso di nuove, virulente discussioni, con le rovine dell’Acropoli ancora fumanti e la flotta persiana schierata fuori dall’angusto stretto tra Salamina e la costa attica, Temistocle ricorse a un ultimo disperato espediente: inviò un proprio uomo di fiducia a Serse, per ingannarlo circa le intenzioni della flotta greca. Fingendosi pronto al doppio gioco (che già aveva favorito la Persia a Lade e alle Termopili), l’astuto³⁹ stratego ateniese incoraggiò il Gran Re ad avanzare subito negli stretti, prima che la flotta greca ripiegasse verso l’istmo, sfuggendogli. In effetti Temistocle mentì sino a un certo punto: il panico generato dall’incendio di Atene aveva condotto sull’orlo dell’ammutinamento molti comandanti peloponnesiaci, timorosi di restare tagliati fuori dalle proprie linee di comunicazione; ma l’ammiraglio, sempre manovrando il navarca spartano, trasformò una situazione apparentemente fuori controllo in un preludio di vittoria.

    Anche se la ricostruzione erodotea è ampiamente lacunosa, integrandola con altre fonti prende corpo il piano delineato da Temistocle. Estendendo al campo delle operazioni tattiche l’inganno strategico perpetrato ai danni di Serse (che aveva infatti distaccato dal grosso la squadra egiziana, inviata a chiudere lo sbocco occidentale della baia di Eleusi per impedire la supposta fuga del nemico), l’ammiraglio ateniese concordò col collega corinzio Adimanto di far simulare alle sue 40 navi una fuga.

    Il Gran Re, che assisteva all’attacco da un trono d’oro assiso su un rilievo della costa attica, abboccò, distaccando dal grosso la squadra egiziana, forte di 100 triremi. D’altra parte, la sua flotta era tutt’altro che in forma: navi ed equipaggi avevano subito l’attrito di una campagna iniziata sei mesi prima. Già decimato dalle tempeste, lo schieramento navale persiano non contava ormai più di 800 navi da guerra efficienti, mentre la flotta greca poteva disporre di circa 385 triremi: ma se il rapporto numerico si era dimezzato, quello qualitativo segnava per i persiani un decremento ancor meno valutabile. Le navi erano in pessime condizioni, anche se si era cercato di raddobbarle sul posto, e gli equipaggi avevano sofferto fame e malattie, dovendo dipendere da lunghe linee di rifornimento che assorbivano almeno un centinaio di unità per assicurare gli approvvigionamenti provenienti dai magazzini impiantati in Macedonia. Inoltre, proprio mentre le forze greche si erano fatte un’utile esperienza nella battaglia dell’Artemisio, rafforzata dalle esercitazioni combinate effettuate nelle acque di Salamina – di cui ormai ben conoscevano il gioco del vento e delle correnti⁴⁰ –, l’incapacità dell’alto comando persiano, formato a partire dall’ammiraglio in capo Ariabigne da generali e principi di sangue i quali, privi di esperienza navale pretendevano di ordinare la flotta come un esercito di terra, si fece sentire. Inutilmente i ben più esperti ammiragli fenici consigliarono al sovrano di non inoltrarsi negli stretti, mentre la stessa Artemisia, la bella e scaltra regina di Alicarnasso che partecipava alla spedizione con 5 navi, aveva tentato senza successo di dissuadere Serse da un attacco a fondo, tratteggiando un piano alternativo basato su un blocco navale, per attendere che i dissidi nel campo avversario – che ben conosceva, lei stessa una mezza greca cresciuta in un infido mondo politico – prendessero il sopravvento.

    Pertanto, quando all’alba di un giorno compreso

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