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1945 Noi difendiamo Berlino
1945 Noi difendiamo Berlino
1945 Noi difendiamo Berlino
E-book285 pagine3 ore

1945 Noi difendiamo Berlino

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Info su questo ebook

Berlino, aprile 1945; la città è stretta nella tenaglia sovietica. Chi

può fugge; invece alcuni reparti della divisione francese Charlemagne

raggiungono la capitale, decisi a difendere quello che considerano

l'ultimo bastione europeo. Amanti del vecchio continente, si sentono

infatti fratelli degli uomini che si batterono a Poitiers, Maratona,

Lepanto, Vienna.

Presi in mezzo tra il fanatismo di un regime morente

e la ferocia di una guerra senza quartiere, i francesi vivono le ore

finali di una città in agonia. Dietro ai mucchi di macerie o nei palazzi

devastati, i superstiti aspettano l'ultimo assalto dei russi.
LinguaItaliano
Data di uscita17 feb 2021
ISBN9791220321655
1945 Noi difendiamo Berlino

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    Anteprima del libro

    1945 Noi difendiamo Berlino - Valentino Appoloni

    dell’autore.

    A BERLINO

    DOVE GLI ALTRI FUGGONO

    Là in mezzo ai nemici la loro bandiera fiammeggia e là si scaglia l’armata.

    R. M. Rilke, Canto d’amore e morte dell’alfiere Christoph Rilke

    Wohin gehen sie? Das ist Wahnsinn¹, gracchia un vecchio cachettico e scrofoloso mentre tutto il battaglione gli passa accanto. Il reparto è sul ponte di Pichelsdorf sul fiume Havel e punta al cuore di Berlino, mentre tutto il mondo sembra fuggire dalla città stritolata dalla tenaglia sovietica. Caro vecchio, pensa il sergente Paul Moreau e sa di interpretare anche il pensiero dei camerati, là si combatte e allora ci si può ben andare e non è pazzia. Infatti, non è un posto dove vivere che cercano, ma uno dove morire se necessario, facendo il loro dovere di devoti della vecchia Europa, come nel milleduecento altri sentivano il dovere di prendere le armi e andare in Terrasanta. A Berlino ormai ci sono i bolscevichi e allora si deve fermarli; la crociata nell’aprile del 1945 si compie sotto la Porta di Brandeburgo. Nugoli di civili passano accanto; un carretto è tirato da un uomo e sopra, nascosto tra coperte e stracci, spunta un braccino bianco, forse di un bimbo morto. Tutti hanno premura e i volti scavati scrivono un poema di fame e miseria. Solo le cannonate nemiche fanno muovere questi rottami umani. E la Charlemagne fieramente va in direzione opposta canticchiando i propri inni. Il vecchio di prima gesticola e farnetica; non si convince che qualcuno possa andare di buon passo verso l'inferno.

    Quanto manca a Berlino?, chiede uno dei francesi a un profugo. Ogni volta che si parla con uno di loro, bisogna pazientare per farsi capire; anche se si domanda in buon tedesco, loro ti osservano increduli e incerti. Non si tratta di follia, è la nostra volontà che ci guida, risponderebbero se servisse a qualcosa. Davvero è così infiacchito il popolo tedesco? Maurice Kosou, caporalmaggiore, nato in Lorena, di solito più anticomunista che filotedesco, ha la risposta immediata. Questa è la parte bassa e mediocre del popolo. I migliori sono nella loro capitale e combattono tra le macerie contro l'invasore. Una colata di disprezzo gli viene spontanea; passano ancora dei laceri civili che si strascinano a bordo della strada. Alcuni stringono in bocca steli d'erba per placare lo stomaco. D'altronde, cosa accadde a Parigi nel 1940? Il comandante di battaglione, capitano Claude Fené ricorda bene la resa di cinque anni prima; il governo tradì i propri doveri con la sua pochezza, non mise l’esercito in condizioni adeguate e quindi consegnò frettolosamente al nemico il paese. Qui il governo resiste ma è il popolo che scappa, riflette guardando la massa di gente; difenderemo noi SS francesi la capitale del Reich e d'Europa. Passano ancora gruppi di sbandati, famiglie cariche di stracci, qualche bambino isolato. Si filtra tra questo squallore mentre la sensazione di caldo cresce. Sono stati preceduti dai camion con le mitragliatrici e le munizioni. Due poliziotti vogliono liberare la strada ma sono simili ad alberelli in mezzo al mare nero. Si fa una breve sosta a lato mentre si cercano indicazioni sul percorso da seguire. Maurice è riuscito chissà come a procurarsi un uovo e se lo succhia seduto su un mucchio di sassi, circondato da ragazzini affamati.

    Il comandante di battaglione, Claude Fenet, discute con alcuni ufficiali e poco dopo ordina di ripartire; chi ha mangiato ha mangiato, ora non c'è più tempo. Paul guarda i gusci di uovo che l’altro ha lasciato a terra e che i bambini si contendono.

    Il cielo di aprile è chiaro. I francesi sono pronti a combattere, perché è giusto così, in quanto coerente col loro recente impiego sul fronte orientale contro lo stesso nemico. Già sanno che l’approdo a Berlino può essere l’ingresso nell’Ade, passando sotto i cieli di Ares percorsi da aerei sovietici. La capitale della Prussia, dell'impero e ora del Reich è un grande cimitero e i palazzoni sembrano enormi monumenti funebri, ormai fatiscenti. Ci si muove inquieti tra questi tumuli; in certi punti il fuoco delle bombe al fosforo è ancora forte e ci si ricorda di quei popoli celtici che bruciavano i defunti sulle pire. Che cosa siamo venuti a fare, forse i guardiani di questa sorta di Pompei dei tempi moderni? La domanda si aggira tra i francesi. Anche i persiani devastarono il sole della sapienza antica ossia l’Attica, pensa il capitano Fené, ma la città e la sua civiltà non crollarono. Claude si aggrappa alla storia, l’amica dei sentimentali di ogni epoca.

    Le distruzioni dell'aviazione hanno aperto artificialmente delle piazze; pietre e cemento formano alti mucchi irregolari a punta, con squadre di anziani che conducono lente operazioni di sgombero, con pochissimi mezzi. Nell'aria girano sciami di polveri e particelle; all'ombra si vedono i raggi del sole che fendono i fumi provenienti dai fuochi appena spenti. È questo il destino delle capitali dei grandi conquistatori? Da Persepoli a Cartagine, a Mosca ... tutto finisce in briciole. Ma non è un buon motivo per ritirarsi e stare a guardare quelli che la storia la fanno, riflette ancora Fené.

    Da una finestra col telaio rotto una signorina guarda giù piena di tristezza. Alcuni la salutano con sorrisi stupidi. Lei non si scompone, è l'anima stessa della malinconia che si alimenta osservando il falò della città. Ma sono qui anche per difendere te, vorrebbe dirle Paul. Maurice ha visto che la stava guardando e allora accenna a fargli uno sgambetto per scherzo.

    Il comandante e gli altri ufficiali fanno un discorso duro ora che si entra nei sobborghi: Ricordatevi che siete SS e non semplici soldati; collaborerete come avete già fatto con la Wehrmacht, ma prenderete ordini solo dal nostro comando. Avete giurato fedeltà a Hitler, non alla Germania.

    Perché questo ammonimento così netto? Molti battaglioni hanno già combattuto in Pomerania e Russia, tanto che queste parole sembrano superflue. Alcuni, infatti, restano perplessi, ma evidentemente la battaglia di Berlino che si sta vivendo è una pagina nuova. Qui, in queste strade, nel crepuscolo d'Europa illuminato dalle lingue di fuoco, le SS dovranno agire come esercito autonomo, superiore ai semplici coscritti, perché loro sono volontari per ragioni spirituali; difendono l'Europa dal bolscevismo e per questo dovranno serrare i ranghi. Superano un ponte sulla Sprea e si affrettano mentre un vivace fuoco di contraerea si alza in un quartiere vicino. Veloci! urla Claude.

    Com'è la Sprea, il fiume della capitale? Scorre nero e burroso, pieno di ciarpame e schifo, è il riflesso della capitale sofferente. Il caporalmaggiore Maurice conversa con l’amico e vuole vederla diversamente: Io penso, caro Paul, che il fiume fa uscire il peggio dalla città, mentre noi, il meglio, entriamo.

    Gli sfugge però che un battaglione affidato a un capitano è un’anomalia; in attesa che venga reintegrato dopo le ultime battaglie, lo scarno reparto sarà ancora affidato, infatti, al capitano Fené.

    Mancano gli autocarri e se ci fossero, potrebbe mancare la benzina. Gli uomini devono usare il cavallo di San Francesco. D'altronde è ben difficile muoversi; sassi e masserizie inondano le strade come in una qualsiasi città europea nel 1848, durante le insurrezioni. Un palazzo perde pezzi che si staccano, simili a lunghe fette; si vedono le interiora delle case, i mobili, gli armadi, i pavimenti tagliati e piegati dalle esplosioni. Quello è il miglior hotel di Berlino, fa il lorenese Maurice indicando un condominio sventrato e fumante. Si buttano in modo brusco in un parco che è il Tiergarden; le piante sono rigogliose e si respira finalmente aria vera. È primavera! La stagione buona per le guerre da sempre. Una pattuglia di SS viene incontro al reparto; alla sua testa c’è un Obersturmführer². Segue un breve parlottio con gli ufficiali, poi la marcia riprende. Certi tedeschi sembrano non avere gli occhi da tanto che sono freddi, dice il caporalmaggiore. Giungono alcuni uomini goffi e strani; bisogna spingerli via per non essere rallentati, dato che cercano di aggrapparsi alle braccia dei francesi. Hanno fame?

    Alcuni, spaventati, si nascondono maldestramente dietro ad alcuni alberelli carichi di fiori. È enorme il parco. Echeggiano alcuni colpi di pistola; Paul e gli altri si voltano e vedono dei nazisti sparare con le Lüger a breve distanza su quei poveracci che senz’altro erano dei malati, fuggiti da qualche clinica. Morire tra i rami fioriti di un albero sano, è una morte da invidiare per un soldato, di ieri o di oggi. Si muore ma il mondo resta, riflette Paul; pensa che sia importante che qualcuno rimanga per raccontare della Charlemagne, perché la storia d'Europa è fatta di esempi di passione che hanno nomi di re ma anche di combattenti indomiti. All'est invece c'è la massa senza definizione, il formicaio in cui gli schiavi anonimi si affannano per il despota. Raskòl’nikov, l’eroe di Delitto e Castigo, apprezzava Napoleone come uomo che aveva saputo elevarsi al di sopra del formicaio umano.

    Si esce dal parco e si torna nelle strade. È la Wilheimstrasse ridotta a una via terremotata; gruppi di Volksturm si aggirano tra le macerie. Si distinguono solo per una fascia scura sul braccio, oltre che per l'età avanzata e la palese inattitudine alle armi. Si muovono a caso, forse si nascondono per non combattere contro i russi. Hanno già scritto sulle rughe del volto che o i sovietici o gli uomini di Himmler li stenderanno come animali.

    Colpi di armi automatiche si accompagnano a tonfi enormi che scuotono il gruppo, come se alcune case collassassero improvvisamente, diffondendo note di sconforto in tutti i quartieri vicini. Nessun francese ha sparato un colpo, ma nemmeno si è visto un nemico nei paraggi. Si appostano in un angolo di una piazza abbastanza intatta; sono stati concessi dei permessi speciali per avere viveri dai tedeschi. Potrebbe essere l'ultimo rifornimento dice un sottufficiale, poi bisognerà arrangiarsi e trovare il cibo sul campo, come mercenari del '600. Un palazzo neoclassico si staglia davanti a loro, ergendosi a poema di bellezza che non teme accuse di presunzione. Si ammirano le grandi finestre, gli stucchi, le statue di divinità che emergono con fiero biancore sul cielo scuro. È miracolosamente integro e Paul vorrebbe indicarlo a tutti, come se fosse una rara farfalla che stasera sarà già al crepuscolo. Ma si accorge che solo la facciata del palazzo è viva; dietro c'è il nulla della distruzione. Dopo la bellezza, il vuoto. Vorrebbe non averlo scoperto e aver creduto nell'eternità della bellezza. Avanti, urla il comandante, sbracciandosi. Lasciano la Heerendstrassse per prendere una vecchia stradina fuori dal tempo in cui qualche negozio è ancora aperto. Ma un colpo centra alcune finestre al secondo piano di una casa e le macerie prendono la coda del reparto. È tutto il gruppo che sente il dolore, come se fosse un corpo solo.

    Il tenente Cauet è l'ufficiale più vicino e cerca di mettere ordine; ci sono almeno sei uomini sommersi tra sassi e pezzi di cemento. Ne estraggono due che ancora urlano, con una fatica che toglie il fiato, mentre da un balconcino una signora strepita, pare una vecchia pazza; continua a gridare finché non si sono spostati. Le sparerei volentieri, esclama Maurice. È curioso come certi suoni, pur nel caos sonoro di un bombardamento, vengano percepiti più fastidiosi di altri ben più forti.

    Al Rathouse di Neukölln c'è un ospedaletto; i feriti vengono portati là, mentre il resto del reparto avanza. I palazzi sono nerastri o color cenere e molti portano segni di colpi, come se fossero il corpo di San Sebastiano. Dal municipio entra ed esce gente in continuazione; la scalinata monumentale un po’ malconcia, fa pensare a un palazzo del '600. Corrono fuori civili armati, entrano soldati feriti, poi viene convocato lì anche Claude Fené. Gli altri aspettano fuori, con l'occhio verso il cielo ormai scuro, temendo i bombardamenti. Quando torna, il comandante è furioso; gli hanno chiesto rinforzi da mandare all'aeroporto. La Nordland e la Charlemagne devono mandare alcune compagnie là dove i russi stanno per prevalere. Il capitano a fatica si domina; che se la sbrighi Göring³, pensa. Sa di avere pochi uomini. Inoltre vuole difendere il cuore di Berlino; l'aeroporto interessa a chi ha in mente di fuggire. I francesi hanno già accettato il destino che li attende. Altro che vie di fuga!

    ___________________

    ¹ Dove vanno? Questa è pazzia

    ² Tenente

    ³ Ministro del Reich per l’Aviazione.

    SECONDO GIORNO A BERLINO

    Capituliren nie!

    Mai arrendersi! (Scritta sui muri di Berlino)

    Arriva la notizia che l’aeroporto Tepelhof è caduto. Fené sospira. Tanto meglio! Chi voleva scappare ora non lo può più fare. Giulio Cesare in Britannia bruciò le navi prima della battaglia, per indicare agli uomini che non c’erano vie di fuga. Gli hanno riferito la prodezza astuta di alcuni ragazzini della Hitlerjugend. Hanno preso un carro armato Renault e lo hanno coperto di sassi e macerie; da lontano sembrava solo un mucchio di calcinacci dovuti a un crollo. Quando i russi si sono avvicinati, la mitragliatrice e il cannone hanno spazzato la strada come il gibli nel deserto. Per un po’ hanno tenuto la linea.

    Le Flak⁴ sparano con continuità, suscitando l'ammirazione del tenente Cauet. Sono alte, quelle torri superbe tengono libero il cielo ma possono tirare anche in basso contro le fanterie. C'è anche un gran chiasso di MG 42, segno che il nemico non è lontano. Si incrociano squadre di lavoratori che raggiungono un punto, dove parecchi prigionieri stanno scavando una trincea sulla strada zeppa di crateri. Alcuni riprendono la scena per un cinegiornale e poi puntano la macchina da presa verso un vicino palazzo annerito, dove campeggia la scritta bianca: Capituliren nie!.

    Il tenente schiera la compagnia tra le macerie e un residuo di autoblindo dalle ruote scoppiate. Bisogna prendere il collegamento con la Nordland da cui ora si dipende e, soprattutto, cercare di non farsi massacrare. Si vede in lontananza un T-34 in avvicinamento; blaterano le MG 42 ma il carro avanza. Alcuni fanti con Panzerfaust passano accanto per raggiungere una specie di tunnel tra le macerie. Tira il blindato e i tedeschi volano per aria come stracci.

    Maledizione! urla il giovane francese. Bisogna che altri provino. I punti deboli dei carri sono di lato, ma ci vogliono tempra e sangue freddo. Si vedono bene i russi che camminano a testa bassa, sparano verso le finestre e prendono a baionettate i corpi già a terra.

    Bombe a mano!, urla Cauet.

    Lanciano quello che hanno e si crea un enorme fumo mentre bruciano mucchi di masserizie. Il tenente blocca dei ragazzi della Hitlerjugend e poi un paio di poliziotti berlinesi. Li caccia avanti con foga e li fa lavorare a una barricata malconcia. Le bombe non hanno fermato nulla, si sentono i cigolii del mezzo e i tiri di fucile. Forza, fate come ho detto, grida l’ufficiale mentre una mitragliatrice viene fatta a pezzi. Fumo e fiamme decrescono, mentre l’animale di ferro e acciaio urta contro uno spigolo di palazzo che va in frantumi; poi, sbanda per qualche momento e ripunta verso la barricata. I ragazzi sono davanti con i poliziotti e cercano di sistemare delle lamiere; il carro si impenna sulla barricata mentre uno dei berlinesi si alza in piedi, resta immobile per qualche secondo, quindi si volta di scatto e cammina verso i francesi come un automa, poi inciampa e resta in ginocchio, con la fronte squarciata.

    Avanti il Panzerfaust, urla il tenente. Il T-34 si alza sul materiale ammucchiato e mostra la parte che di norma sfiora il terreno.

    Ora, mira sotto!, grida Cauet.

    Il blindato indugia e arranca con i cingoli che stanno per salire sulla barricata. La pancia, quello adesso è il punto debole. La granata lo prende bene e il mostro si blocca avvolto nelle fiamme. Ma non ci si può fermare; il comandante manda altri ragazzi col Panzerfaust nei palazzi vicini. Vanno colpiti di lato o sotto, si ribadisce; davanti è difficoltoso riuscire a bloccarli.

    Maurice e Paul si buttano lungo un muro, approfittando del fumo che si alza dalla barricata; sono vicini al carro che brucia, sudano come martiri, intravedono gli attaccanti che sparano ritirandosi. Si lanciano in un pertugio della barricata. I fanti sono di spalle a parte due o tre che coraggiosamente si trattengono. Le raffiche corte li bersagliano e non possono che andare a segno; muoiono contorcendosi, simili a fiamme scosse dal vento.

    Appena al riparo, il caporalmaggiore urla: Salsicce alla brace e patate dolci, Paul!.

    Ha già scelto il suo premio. Forse non si rendono conto di quello che hanno fatto; mettersi allo scoperto e sparare su una dozzina di fanti a venti metri di distanza è pazzia pura. Il tenente ha visto e dice che li proporrà per la Croce di ferro; così potrebbero essere decorati due mortali francesi per l’eroismo contro le infinite schiere degli immortali che come i persiani avanzano e muoiono mentre già altri prendono il loro posto, come se nascessero direttamente dalla terra su cui si combatte. Ma il lorenese pensa ancora alle salsicce e alle patate.

    Spero mi diano una croce più grossa dato che io ero un metro più avanti di te, lo stuzzica Paul.

    Due salsicce dovrebbero darti, una in bocca e l’altra nel .., gli risponde subito. Il fuoco per scaldarle c'è in effetti. E gli Sturmgewehr⁵ sono stati micidiali.

    La Nordland e la Charlemagne devono avanzare per mettere qualche chilometro tra la Cancelleria e il nemico. Si andrà verso l'Università. Il posto di comando è vicino al Tiergarden; ci sarà l’appoggio dei resti delle truppe che sull’Oder si sono inutilmente battute contro i russi, alcune settimane prima. Ma soprattutto con loro ci sarà il fantasma di Wench, il comandante dell’armata che a detta di tutti sta venendo da ovest per liberare Berlino. Arriva Wench, si sussurra nei momenti di sconforto, davanti al caffè amaro o all’acqua piovana raccolta con gli elmetti ... arriva Wenck ... Paul si augura che il refrain non diventi come quel noto arrive Grouchy;⁶ sorride notando che in quel momento sono vicini al lungomare Waterloo, purtroppo.

    Una volta trovato sulla Sprea un palazzo in buone condizioni dove porre il comando di battaglione, Fené manda il caporalmaggiore Maurice, con pochi uomini, a fare una ricognizione. Nel giro di poche ore sono state segnalate varie infiltrazioni russe.

    La pattuglia si spinge fino alla Landsberger Strasse, trovando un precario rifugio in una casa dai muri martirizzati dai segni delle fucilate. Ci sono già delle perdite. Inizia il bombardamento dell’artiglieria. I fumi delle esplosioni sono altissimi, diventano forme grigie che salgono lentamente nell’aria. Maurice dal suo angolo nel palazzo li osserva. Guarda la strada, sforza gli occhi, cerca di individuare le sagome scure che si affacciano. Uno scroscio di colpi sbriciola alcune lamiere. Ecco un’ombra che supera alcuni corpi a terra, poi mentre il fumo e la polvere sembrano sbattere contro i muri, altre figure con la testa piegata appaiono. Il caporalmaggiore respira male, è stordito, qualcosa rimbalza sul suo elmetto e lo scuote. I russi sono vicinissimi e si stanno infilando in una viuzza cercando di circondare lo stabile. In un attimo si porta fuori attraverso una finestra del primo piano, insieme a tre uomini. Si infilano nella via dove due persone a stento possono stare affiancate; pare di essere in un calle veneziano. Nel viale principale ci sono martellate tremende, come se bande di cavalieri medievali si scontrassero con un gran cadere di scudi e fracassarsi di corazze. La polvere delle esplosioni si infila nella strettoia con nubi grigiastre.

    Occupate la strada, forza!.

    È un ordine che esce dalla foschia grigia. I tre commilitoni corrono tra muri scrostati e finestre basse con le inferriate. Ma i nemici spuntano dalla nuvolaglia e sparano a bruciapelo. Maurice si schiaccia a terra, mentre lo scontro si fa atroce. Un compagno estrae una granata mentre sta disteso; si vede il braccio perpendicolare rispetto al suolo farsi indietro per caricarsi prima del lancio, ma un grosso proiettile gli fa saltare la mano. L’uomo grida e si contorce in un fazzoletto di terra. La granata non era innescata, ma i russi sono sempre più aggressivi. Non c’è neanche lo spazio per sollevare il mitra; nel cadere di corpi si forma una sorta di tappo che fa da scudo a Maurice che si allontana strisciando mentre il ferito urla alzando il braccio colpito.

    Ti cureranno loro, pensa il caporalmaggiore.

    Poi una detonazione fa assordare tutti e la vista si fa grigia. Lui è atterrato più in là di pochi metri e ancora sente il compagno urlare.

    Portate una mitragliatrice, grida. Quando si riprende, vede ancora l’uomo contorcersi mentre anche l’elmetto rotola a terra. Non ci sono medicinali, non c’è morfina, ci sono solo i russi e i loro medici cui affidarsi. Un barbaglio di fuoco sale dagli occhi del sofferente; quello è dolore puro e il francese che guarda ha un sussulto. Una raffica bassa parte quasi da sola e il ferito si fa subito muto, come se non avesse atteso altro. La mitragliatrice! Finalmente si trascina una Maxim di preda bellica all’imboccatura della stradina.

    Forza, spazzate tutto, ordina il lorenese che non è ancora riuscito ad alzarsi come se temesse di avere qualche ferita. È certo che qualche mitra russo si sia inceppato, altrimenti non sarebbe vivo. Poi riesce a sollevarsi di scatto, si appoggia al muro e nota una scaletta esterna allo stabile che porta al secondo piano, danneggiata da un colpo d’artiglieria. Ma può bastare! Si fa dare alcune granate e sale con un camerata che gli guarda le spalle. Nel budello stradale si riaccende la sparatoria. Un aereo sovietico passa tremando come un volatile ferito; ha perso un grosso frammento di ala e viene da pensare a quell’uomo che prima aveva perso una mano. Stride l’aria e pare di sentire ancora la sofferenza del compagno e lo strazio dell’aereo che ondeggia ancora per un minuto, piegato su un lato, come incerto sul punto da scegliere per andare a morire. Sale la scala con l’agilità di un ragazzino, mentre i cecchini prendono la mira e abbattono il soldato

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