La Decima M.A.S. in Friuli. Il processo a Remigio Rebez
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Anteprima del libro
La Decima M.A.S. in Friuli. Il processo a Remigio Rebez - Flavio Rovere
Flavio Rovere
La Decima M.A.S. in Friuli
Il processo a Remigio Rebez
Librinmente
Copyright
© Copyright Librinmente
© Copyright Prospettiva editrice
Civitavecchia, ottobre 2020
1° edizione
Tutti i diritti sono riservati. Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171
della legge 22 aprile 1941, n. 633).
ISBN 9788897911814
I lettori che desiderano informazioni possono visitare il sito internet:
www.prospettivaeditrice.it
Prefazione
Il confine orientale
e la storia dei ragazzi di Salò
sono stati al centro del dibattito politico e storico del nostro paese negli ultimi decenni; le foibe, il vento del nord
e la vendetta partigiana che colpì molti sconosciuti fascisti o pseudo fascisti alla fine del conflitto sono stati il fulcro, legittimamente, di un’interessante riflessione che ha dissipato numerosi dubbi e lacune sedimentatesi nel tempo. Solo da pochi anni, ad esempio, la storiografia ha iniziato ad occuparsi scientificamente
ed organicamente dei reparti della Repubblica Sociale che hanno partecipato alla guerra civile. La storia è, come qualsiasi fenomeno umano, mutevole e per questo suscettibile di revisione e cambiamento, a patto che essa non venga stravolta nelle sue linee generali.
Nel nordest, principale area protagonista delle vicende narrate in questo libro, così come accade indubbiamente in molte aree del nostro paese, resistono ancora delle ferite difficilmente rimarginabili, figlie di una stagione bellica che ha segnato notevolmente le coscienze e gli spiriti di chi l’ha vissuta, nonché dei figli dei reduci o delle vittime.
Chiunque si soffermasse nella lettura di un quotidiano locale avrebbe la possibilità di ripercorrere, attraverso le lettere pubblicate in diverse circostanze, un po’ di storia del luogo incentrata principalmente su due nomi: Decima M.A.S. e Porzûs. Conosciuti o meno, questi due termini sono legati indissolubilmente a Junio Valerio Borghese, famoso comandante della Decima, e all’Osoppo
, le famose brigate partigiane cattolico-azioniste friulane di cui fecero parte i martiri di Porzûs. Decima M.A.S. e Porzûs, una formazione militare ed un luogo che in seguito fecero la storia segreta della Prima Repubblica nata dalle ceneri della guerra.
La RSI è stata la culla del doppio stato che ne scaturì e numerosi sono i contributi di rispettabili studiosi italiani e stranieri che ne hanno indagato i famosi 600 giorni di vita: da Collotti a Ganapini, passando per Lepre, Deakin, Klinkhammer, Bertoldi, Bocca, fino agli annali della Fondazione Micheletti di Brescia in cui molti documenti rievocano quel buio periodo di guerra e di occupazione. Innumerevoli sono, inoltre, gli studi ed i documenti raccolti dai due enti regionali del Friuli Venezia Giulia preposti alla memoria storica della Resistenza, l’Istituto Regionale per la storia del Movimento di Liberazione di Trieste ed il suo omologo Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione di Udine associato all’A.N.P.I. cittadino, sulla questione del confine orientale durante la seconda guerra mondiale e dei suoi principali protagonisti.
La tesi da cui prende spunto questo libro, discussa presso la facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Udine con i professori Paolo Ferrari ed Umberto Sereni, narra le vicende di uno dei personaggi principali della lotta alla Resistenza messa in atto dai nazifascisti in Friuli sul finire del 1944: il sergente della Decima M.A.S. Remigio Rebez. Il paracadutista triestino fu lasciato dal suo reparto nella bassa friulana e venne assoldato da una compagnia della Milizia Difesa Territoriale posta sotto il comando della polizia nazista, adibita al mantenimento dell’ordine pubblico ed alla polizia militare nella zona di Palmanova, famosa città fortificata di origine veneziana situata al centro della pianura friulana.
Le circostanze ripercorse utilizzano come principali fonti documentali gli incartamenti custoditi presso l’Archivio di Stato di Udine, relativi al processo avvenuto nel dopoguerra contro i soldati della compagnia, e le numerose testimonianze della memorialistica resistenziale custodita presso l’Istituto friulano per la storia del Movimento di Liberazione. Il quadro generale dipinto dalle fonti esaminate descrive una situazione drammatica.
La dominazione nazista sulle province del nordest fu pesante: il reclutamento della forza lavoro nelle opere di fortificazione e di costruzione, le retate poliziesche contro partigiani ed ebrei, i campi di internamento per slavi
a Gonars e a Visco ereditati dal governo fascista e funzionali fino al settembre 1943, la Risiera di San Sabba ed il suo forno crematorio, l’afflusso di brigate serbe, croate, slovene, bosniache, russe, centroasiatiche, spagnole richiamate sul territorio dai gerarchi tedeschi, l’arrendevolezza dei comandi militari della RSI, l’asservimento di numerosi italiani prostrati al servizio volontario o obbligatorio alla causa nazista fecero del Friuli e della Venezia Giulia una specie di piccola terra di sperimentazione diretta della futura dominazione nazista in Occidente.
I tedeschi si ritrovarono schiacciati da est dopo la disfatta di Stalingrado nel ‘42 - ‘43 e da sud in seguito all’invasione del ventre molle
italiano nel luglio ‘43. Una lenta ma inesorabile risalita alleata li costrinse a resistere nel Nord Italia, ricostituendovi un governo collaborazionista neofascista che permettesse l’opera di sfruttamento sistematico messa in atto nei successivi due anni sul territorio settentrionale della penisola. Il Nordest cadde sotto la dominazione diretta dei gerarchi nazisti, che lo sottrassero all’amministrazione repubblicana facendone, di fatto, la via diretta per la strategica ritirata verso la Germania. Lo sbarco in Normandia e quello in Provenza del giugno - agosto ‘44, nono- stante avessero dato il via ad una forte emorragia di truppe allea- te dal fronte secondario italiano, stritolarono il Reich in una morsa ancor più dirompente costringendo i tedeschi ad una ser- rata battaglia che scongiurasse l’invasione del suolo patrio.
In questa situazione il confine orientale italiano divenne strategico in quanto punto di congiunzione fra Balcani, Italia ed il loro confine meridionale: il passo del Brennero e i valichi di Tarvisio, con le loro ferrovie, divennero arterie principali del possibile reflusso verso le terre tedesche, al fine di provare l’ultima resistenza possibile. Ed è proprio in questa piccola fetta di terra, minacciata di sbarco alleato secondo le intenzioni di Churchill, che le vie di comunicazione quali strade e ferrovie, le infrastrutture quali telefoni, elettricità, porti, depositi di carburante, piste di aviazione divennero di vitale importanza per la prosecuzione del conflitto. Tutto doveva servire per la grande causa millenaria del Terzo Reich, ed il Friuli divenne il retro del fronte di battaglia dove la pullulante resistenza delle brigate partigiane doveva esse- re soffocata in ogni modo e a qualunque costo. Oltre alla Wehrmacht, alle SS e alla loro opera di polizia, le forze fasciste sorte con la RSI furono utilizzate principalmente per fare il cosiddetto lavoro sporco: lo spionaggio e la cattura, nonché l’esecuzione dei ribelli.
I tedeschi, infatti, mantennero sempre la direzione delle operazioni militari annichilendo l’autorità repubblicana e privandola di ogni decisione sull’argomento, ma si affidarono al personale italiano per la repressione della minaccia partigiana come unico punto di contatto
con la popolazione civile ed unico viatico per poter recepire le informazioni necessarie alla distruzione dell’avversario; infatti, i sopravvissuti a questa purga
trovarono sempre un motivo di rancore maggiore verso i connazionali coinvolti con i tedeschi piuttosto che con gli invasori stessi, relegandoli ad un livello quasi bestiale e non considerandoli più uomini ma quasi demoni.
Lo stesso avvenne per i fascisti coinvolti nella guerra civile: i partigiani erano infedeli e spie al soldo di un esercito di neri ed ebrei, sicari ed assassini traditori della patria e dei suoi morti, di cui non bisognava avere nessuna pietà. Tuttavia ci furono anche in alcuni casi dei distinguo: per quanto riguarda i partigiani bianchi
catturati nelle operazioni, la loro sorte alle volte non era la fucilazione ma solo
la deportazione, nel caso non collaborassero nel controspionaggio, mentre i partigiani delle brigate comuniste avevano invece un destino segnato nella maggioranza dei casi. Quest’ultimi venivano fucilati sul posto oppure torturati negli interrogatori e poi giustiziati, dato che essi erano accomunati agli ebrei e ne dovevano seguire la stessa sorte.
Palmanova fu un caso come altri nell’Italia occupata, in cui le direttive dei comandanti di sicurezza tedeschi venivano eseguite dalle forze militari o di polizia politico - militare della RSI. Nel caso specifico di Palmanova un capitano della disciolta M.V.S.N., fascista di vecchia data e fervente seguace del regime mussoliniano, guidò un’eterogenea compagnia della Milizia Difesa Territoriale (la G.N.R. delle altre regioni della RSI) nella lotta senza quartiere ai partigiani, in una zona in cui essi avevano creato una grandiosa intendenza (l’intendenza Montes), la più grande d’Italia sviluppata tra il Friuli e l’Emilia, per l’approvvigionamento delle brigate italiane ed addirittura slovene ed in cui operavano diverse formazioni nel sabotaggio delle infrastrutture vitali, fra tutti snodi ferroviari e strade, per i collegamenti con la Germania. I componenti delle brigate partigiane di pianura scesi dalle montagne durante il duro inverno del 1944, non vivendo in clandestinità e svolgendo compiti di vettovagliamento o approvvigionamento per i compagni ancora sulle alture, furono scovati nelle loro abitazioni e nei loro rifugi, portati nella caserma adibita a comando e costretti a rivelare tutto ciò che sapevano.
Per estorcere ai prigionieri le confessioni i miliziani utilizzano metodi infimi e brutali, umiliando le proprie vittime, causando loro danni fisici permanenti e in certi casi anche la morte.
Tutto ciò purtroppo non deve stupire: scacciati dal colpo di stato reale senza colpo ferire subendo l’onta del ripudio badogliano dell’alleanza che loro avevano stipulato, sentirsi definire traditori dai vecchi alleati e vedere come i propri compagni morti in battaglia avessero perso la vita inutilmente, fu per i fascisti in genere uno choc da vendicare il prima possibile. Nondimeno, se da un lato il Re fu riconosciuto legittimo continuatore dello Stato, condizione in seguito applicata anche ai cittadini e militari che vollero resistere al Nord, dall’altro i tedeschi occupanti il suolo patrio misero in piedi un governo collaborazionista che regolarizzò
la posizione dei fascisti, i quali vedevano ancora la Germania quale loro fedele alleato e non, come i partigiani, un invasore oppure un intruso che ostacolava i loro piani di rinascita. Le formazioni militari e poliziesche della RSI si considerarono formazioni regolari, continuatori dello Stato disciolto in seguito alla fuga del Re che li aveva abbandonati, contro cui si era scatenata l’invasione alleata ed il ribellismo; banditi, o fuorilegge, era il nome dei partigiani e proprio questi termini ci permettono di capire quale fosse il loro modus operandi. La legge stava dalla loro parte - come Ganapini spiega nel suo libro, nell’Italia fasci- sta repubblicana venne meno il consesus juris che costituisce la base della legittimità della giustizia - e questo lasciava campo libero, soprattutto in guerra: legittimo era catturare ed interrogare i nemici, legittimo fucilarli, legittimo eseguire retate. Dopo vent’anni di stato di polizia sotterraneo, questo emergeva prepotentemente alla ribalta rivelando tutta la sua reale crudeltà. In contrapposizione a questo pensiero agivano i partigiani: la loro guerra, come scrive il Pavone, civile, di classe, nazionale di liberazione fu combattuta con un grande spirito di rivalsa, di volontà di cambiare quel regime iniziato vent’anni prima e cristallizzato nel clientelarismo, nell’autoritarismo, nella negazione democratica, nella retorica, nel controllo delle masse attraverso la propaganda e l’indottrinamento sociale, nello stato di polizia.
Come non dare atto, dopo l’8 settembre, ad un popolo di resistere ai soprusi, perpetrati a loro danno non più da uno stato nazionale, ma da uno straniero occupatore? Di operare una scelta così radicale in un momento in cui in Italia non esisteva più un’autorità superiore, eccezion fatta per il Papa, in cui il Re fuggiva lasciando migliaia di soldati in balìa dell’ex alleato? La lotta di classe iniziata dagli scioperi operai del marzo ‘43, tramutata in seguito in aperta opposizione armata, guidò idealmente la prima battaglia partigiana svolta a Gorizia: manovali dei cantieri di Monfalcone, uniti ai partigiani sloveni, diedero molto filo da torcere alla Wehrmacht subito dopo l’armistizio. Lotta al Regime, lotta alla borghesia fascista, al Re connivente, alla burocrazia statale, al nemico teutonico, furono i primi ideali di una Resistenza non ancora politicizzata come lo fu in seguito, ma i cui componenti eterogenei, provenienti dagli strati sociali operai, contadini oppure militari, preferirono salire in montagna piuttosto che scontare la propria condanna in Germania.
Tutto ciò nacque da varie domande, a cui tutti gli italiani dovettero dare una risposta precisa e netta: dopo l’8 settembre, che fare? Era giusto mantenere fedeltà al Re o all’alleato con cui si era combattuto da tre anni a quella parte? Era giusto schierarsi con chi fino a pochi giorni prima uccideva in combattimento i nostri soldati o le nostre famiglie durante i bombardamenti? Come ci si poteva fidare nuovamente del sovrano e dei vertici militari dopo che essi, con tutto il loro entourage, erano fuggiti al Sud lasciando l’esercito e la nazione allo sbando senza direttive? Come poteva Mussolini ritornare alla ribalta dopo che aveva por- tato la nazione alla rovina? Come potevano i fascisti accampare velleità di rinascita all’ombra delle baionette tedesche mentre il loro alleato razziava e distruggeva l’Italia? A tutte queste domande, che rappresentano solo un piccolo scorcio dello stato d’animo che un italiano medio poteva ponderare, ogni cittadino tentò di dare una risposta che fosse la più giusta e coerente possibile. Da questi responsi alcuni decisero di combattere per la RSI, altri per la Resistenza, altri per gli Alleati. Anche nel Friuli.
Tutto ciò ci aiuta a comprendere come in una regione dell’Italia fascista in guerra, sia stato possibile importare da parte tedesca l’apparato poliziesco repressivo, come la vita degli abitanti sia stata sconvolta da questa violazione della loro normalità
, anche se in periodo bellico e come siano risorti gli apparati italiani e quale sia stato il loro utilizzo nella repressione.
Come scrisse giustamente Browning nel suo bel trattato Uomini Comuni
, spiegare non significa scusare, comprendere non significa perdonare: l’immedesimazione nel campo di questa circoscritta ricerca storica è un rischio a cui bisognava andare incontro, rifiutando dove possibile la demonizzazione o l’agiografia dei personaggi, per non perdere di vista il piccolo contributo che è necessario per una testimonianza dei fatti scevra da qualsiasi dogma.
Gli incartamenti dell’Archivio di Stato di Udine raccolgono le testimonianze dei soldati della Milizia e della Decima, contrapposti alle denunce fornite dalle vittime sopravvissute alle violenze verbali e fisiche. Le prime, essendo il processo in corso l’anno successivo al termine del conflitto, sono poco attendibili in quanto ogni imputato tendeva a minimizzare la propria posizione, per molti insostenibile in confronto alle denunzie ricevute, al fine di evitare la condanna a morte propria e dei vecchi compagni. Le responsabilità maggiori venivano addossate solitamente al capitano tedesco Packebusch, la cui sorte è tutt’ora un mistero, e ad altri miliziani non presenti al processo e fuggiti all’estero. Le deposizioni delle vittime o dei parenti sono sconcertanti per l’accuratezza nei dettagli: le sofferenze patite erano rimaste talmente impresse nelle loro menti da non poterle cancellare minimamente; cosi come, in un contesto estremamente diverso, i ricordi degli internati nei campi di concentramento sono solitamente impressionanti per la loro cruda autenticità.
La scelta di riportare quasi fedelmente ciò che le vittime hanno dichiarato è un doveroso tributo alla memoria di quanti hanno perso la vita per un ideale di libertà ma soprattutto per quanti per quell’ideale hanno combattuto ed a cui la nostra generazione deve molto.
Tutto ciò avvicina questo tema a quanto negli ultimi tempi è emerso riguardo alle carceri di Guantanamo e dell’Afghanistan, o delle retate e torture dell’esercito israeliano a Gaza o dell’OAS in Algeria negli anni ‘60. Questo ci aiuta a capire che non esiste una divisione netta del mondo, soprattutto in guerra che è distruzione della vita che lo compone: bontà e malvagità sono due facce dell’essere umano stesso. La domanda principale che ognuno si dovrebbe porre è: cosa avremmo fatto nella medesima situazione? Di che parte o fazione avremmo fatto parte? Partendo da questi interrogativi e contestualizzando le nostre scelte nel clima dell’epoca a cui ci riferiamo, forse riusciremmo a capire, almeno in parte, quali siano state le motivazioni che hanno spinto determinati soggetti ad agire in modi diversi fra loro e a scegliere quale parte rappresentare e a quali ideali aderire.
Introduzione. L’invasione dell’Italia
Prima dell’armistizio: dal 25 luglio all’8 settembre 1943.
Le residue forze dell’Asse avevano capitolato in Tunisia il 13 maggio ‘43, lasciando vulnerabili le coste meridionali dell’Italia ad un eventuale sbarco alleato.
L’Oberkommando der Wehrmacht/Wehrmachtführungsstab (comando supremo forze armate/comando operativo),¹ nella persona del Generaloberst (generale d’armata) Alfred Jodl, consapevole dell’intrinseca debolezza delle armate italiane, della velata disponibilità dell’Italia ad uscire dalla guerra e della forte disaffezione della popolazione per il conflitto,² aveva da subito elabora- to i preparativi per un piano operativo (Fall Alarich
, piano Alarico) di: disarmo completo del Regio Esercito, occupazione del paese e difesa dell’Italia settentrionale da possibili operazioni alleate attraverso l’occupazione e la protezione delle vie di comunicazione stradali e ferroviarie tra l’Italia e la Germania.
All’interno del Fall Alarich
, furono create tre operazioni: il Fall Kopenhagen
, pertinente la presa dei passi alpini al confine francese e la protezione delle vie di comunicazione, il Fall Siegfried
per l’occupazione dei territori francesi meridionali occupati dalle truppe italiane ed il Fall Konstantin
per il presidio delle zone balcaniche conquistate dall’Italia.
Il piano era pronto per il 14 luglio; quattro giorni prima era iniziati gli sbarchi Alleati in Sicilia. Nello stesso tempo i tedeschi rafforzarono la loro presenza sul territorio nonostante la forte opposizione di Mussolini. Verso maggio esistevano solo tre divisioni
della Wehrmacht, sopravvissute alla resa in terra tunisina mentre alla fine del mese di luglio risultavano efficienti ben sette divisioni corazzate (16., 26. ed Hermann Göring
Panzer Division, 3.,15.,29. e 90. Panzer Grenadieren Division), due divisioni di paracadutisti di cui la seconda in arrivo (1., 2. Fallschirm Jäger Division) e una brigata motorizzata delle Waffen SS (sturmbrigade Reichsfürer-SS
) di cui alcune impegnate nei combattimenti durante lo sbarco alleato del 10 luglio in Sicilia al comando dell’Oberbefehlshaber Süd (comandante supremo del settore sud) Feldmarschall Albert Kesselring.³
L’esito positivo dell’incontro avvenuto a Feltre il 19 luglio con Mussolini tranquillizzò momentaneamente Hitler, il quale decise il temporaneo accantonamento del piano Alarico, ma non appena il dittatore tedesco venne messo al corrente della destituzione del collega italiano, si affrettò a dare i primi ordini per l’attuazione del piano Achse
, nato dall’unione del piano Alarich
col piano Konstantin
, attraverso l’inizio dei preparativi per l’invasione dell’Italia in prospettiva di un possibile sganciamento dal conflitto del governo del generale Badoglio.⁴
Il comando del gruppo d’armate B guidato da Erwin Rommel aveva ricevuto l’ordine perentorio di dare il via alle manovre di avvicinamento delle truppe al confine italiano mobilitando divisioni al confine sud occidentale francese, al confine nord del Brennero ed al confine orientale; nel frattempo al Sud le armate Alleate costringevano Palermo alla resa, dopo pesanti bombardamenti, il 22 luglio.
Il 1° ed il 2 agosto fecero il loro ingresso in Italia le prime divisioni della Wehrmacht e delle SS che andarono a dislocarsi alle frontiere, ufficialmente in azione d’affiancamento e sostegno al Regio Esercito, oppure direttamente in prossimità degli Appennini emiliani.⁵ Questi movimenti allarmarono molto il Comando Supremo italiano, che vibrò feroci proteste all’alleato tedesco, il quale si limitò a sostenere che quelle formazioni sarebbero state utilizzate per un’efficace difesa della penisola, proteggendola da altri eventuali sbarchi.
Gli italiani dovettero accettare il fatto compiuto ma si insospettirono notevolmente in quanto l’invio di queste divisioni non venne preventivamente annunciato dal Comando delle Wehrmacht, e la loro dislocazione non fu il Sud per arrestare l’avanzata alleata, bensì le zone attigue a Roma, agli Appennini, all’Emilia. Si instaurò così la convinzione, dopo i colloqui di Tarvisio del 6 agosto fra il ministro degli esteri von Ribbentropp, il capo di Stato maggiore della Wehrmacht Keitel ed i corrispettivi italiani Guariglia e Ambrosio, che ai tedeschi non interessasse difendere l’Italia ma utilizzarla come roccaforte protettiva dei propri confini e razziarne ogni tipo di bene, economico ed umano, per i fini del Reich. Per di più forte era il timore nel comando italiano di un’azione militare per rovesciare l’amministrazione Badoglio con un golpe.
La sera stessa del 6 agosto due divisioni di Alpini, la Tridentina
e la Cuneense
, si attestarono al Brennero a protezione della ferrovia intimando il trasferimento a sud alla 44. Inf. Div. tedesca, giunta sul posto il 1° agosto, che comunque non eseguì l’ordine di evacuazione. In risposta a ciò Hitler predispose per il giorno seguente l’occupazione dei salienti sui passi del Brennero e del valico di Tarvisio per consentirne un efficace controllo, al fine di eludere eventuali sabotaggi o blocchi da parte italiana.
Ad est in ogni valico confinario furono inviati invece reparti della 71. Inf. Div. e della Brigade Doehla, così chiamata in onore del suo Generralleutnant (generale di divisione), composta da elementi dell’Ersatzheer (esercito di riserva) e del Reichsführer-SS (reparti scuola delle SS/ Polizie delle Waffen SS).
Di quest’ultima formazione faceva parte pure la SS Karstwehr Bataillon (battaglione di difesa carsica, primo nucleo della seguente SS-Gebirgs Karstjäger Division), formazione che rimase e operò nel Friuli Venezia Giulia fino al termine del conflitto. Fu creata il 10 luglio del 1942 a Dachau per ordine del Reichsführer SS (comandante supremo delle SS) Heinrich Himmler con l’originario nome di SS Karstwehr Kompanie, al cui comando fu posto l’SS Sturmbannführer (maggiore) Dr. Hans Brand, geologo di fama specializzato in speleologia. Il suo addestramento, effettuato nella zona di Pottenstein in Baviera, permetteva il combattimento in zone carsiche e ricche di grotte, presenti sia in Russia meridionale che nei Balcani.⁶
Le unità del Regio Esercito presenti nello stesso momento al confine orientale comprendevano l’8.^ Armata del generale Italo Gariboldi con sede a Padova, e la 2.^ Armata del gen. Mario Robotti con sede a Susak (sobborgo di Fiume) a guardia di una fascia di territorio che da Tarvisio defluiva sino alla costa dalmata. Il 15 agosto si tenne a Bologna un ulteriore incontro fra due delegazioni militari: i tedeschi presentavano il gen. Jodl e il Feldmarschall Rommel, gli italiani presenziavano con il generale Roatta, capo di Stato Maggiore dell’Esercito, ed il gen. Rossi. Dai colloqui non emerse nulla di rilevante riguardo alla difesa congiunta delle vie di comunicazione e dei presidi vitali mentre furono numerose le spiegazioni reciproche riguardanti le strategie per la salvaguardia della penisola e le difficoltà di dislocamento delle truppe nelle zone operative. La discussione diede conferma ai tedeschi dei loro sospetti sulla dubbia lealtà dell’alleato e sulla tangibile possibilità di un patto con le forze angloamericane. Gli italiani al contrario capirono che il loro destino sarebbe stato l’occupazione.
Il giorno seguente Hitler ordinò all’Heersgruppe B di Rommel di trasferirsi in Italia (a Garda) ed assumere il controllo su tutte le unità tedesche dell’esercito e delle Waffen SS nel Nord. L’ingresso in Italia delle truppe teutoniche era ormai imminente ed i rapporti fra i due eserciti diventarono particolarmente tesi.
Fra il 23 ed il 24 agosto un attacco partigiano a Bazovica, nei pressi di Lubiana, causò il deragliamento di un treno che dislocava reparti della 24. Panzer Division. L’incidente servì a Berlino come pretesto per poter rinforzare dal 26 agosto le linee di comunicazione in territorio italiano con la 71. Inf. Div. d’istanza al con- fine carinziano. Il 26 stesso all’alba l’ordine fu eseguito oltrepassando i valichi di Tarvisio, Piedicolle e Lubiana.⁷
Le operazioni riuscirono non senza registrare le proteste del Comando Supremo italiano. I tedeschi definirono nervosi
i loro alleati poiché quest’ultimi non avevano ricevuto nessun ordine in merito alle suddette iniziative, e minacciarono a più riprese di utilizzare la forza per fermarne l’avanzata. Il giorno seguente intervenne Badoglio, ordinando di lasciar transitare liberamente i tedeschi ma di fermarli con sbarramenti a Camporosso, Postumia e val Baccia. Nonostante ciò, l’infiltrazione tedesca continuò senza sosta arrivando a presidiare una linea che da Gemona scendeva fino a Gorizia e Villa Opicina.
L’arrendevolezza del Comando Supremo italiano fu dovuta alle erronee interpretazioni delle intercettazioni dei messaggi tedeschi ma